venerdì 29 gennaio 2016

Il diritto ad essere riconosciuti:

Roma 28 gennaio 2016

Comunicato stampa

Il diritto ad essere riconosciuti: al via #NonEsisto, la campagna del Consiglio Italiano per i Rifugiati per i diritti degli apolidi con il sostegno di Open Society Foundations

 
In Italia si stima ci siano 15mila persone che non hanno la possibilità di studiare, di sposarsi, di lavorare, di avere dei documenti, dei diritti. In Europa sono 600.000 a vivere in questo limbo. Persone che hanno perso o non hanno mai avuto la cittadinanza del loro Paese di origine. Apolidi. Una condizione che può diventare una condanna in un paese come l’Italia, dove il riconoscimento del loro status è praticamente impossibile: a causa di procedure inaccessibili, infatti, solo 606 persone hanno uno status di apolidia riconosciuto nel nostro Paese. Gli altri sono totalmente invisibili. 

Il progetto Listening to the sun, realizzato dal Consiglio Italiano per i Rifugiati (CIR) con il sostegno della Open Society Foundations in Italia, ha l’obiettivo di realizzare una campagna di sensibilizzazione sulle difficoltà che incontrano le persone apolidi nella vita quotidiana, causate dall’impossibilità pratica di accedere a un riconoscimento legale della propria condizione.

La campagna #NonEsisto, www.nonesisto.org,  attraverso i video e le foto di Denis Bosnic ci racconta le storie diNyimaSandokanElena e Ramadan. Filo conduttore è l’idea di esistenza negata agli apolidi, laddove la loro condizione non viene riconosciuta e con essa tutti i loro diritti e le loro opportunità. Per dirlo con le parole del Signor Halilovic  “Sono apolide, anzi neanche apolide. Sono invisibile, perché ancora non ho il riconoscimento dello stato di apolidia…..Valgo zero”.

Una condizione che purtroppo si tramanda per generazioni e a pagare le conseguenze dell’apolidia sono spesso proprio i bambini. Molti figli nati nel nostro Paese da famiglie sfollate dalla ex Jugoslavia hanno ereditato la condizione di apolidia dai loro genitori o si sono ritrovati con una nazionalità incerta. Rappresentano la seconda o terza generazione e, per varie cause, non hanno avuto accesso a uno status riconosciuto. A causa di questa condizione di sostanziale irregolarità non possono neanche ottenere la cittadinanza italiana: la loro esclusione dai diritti di cittadinanza è un dramma sociale e un problema giuridico rilevantissimo, su cui abbiamo la possibilità e il dovere di intervenire.

Un rischio che potrebbero correre anche i rifugiati che stanno arrivando in Italia e in Europa e che ci pone di fronte alla sfida di individuare e prevenire possibili situazioni di apolidia tra i bambini che non hanno potuto ottenere la cittadinanza dei propri genitori o del proprio paese di provenienza. Questo può succedere ad esempio nel caso dei figli nati da madri siriane rimaste sole, che non possono trasmettere la cittadinanza ai loro figli a causa della legge siriana che lo permette solamente ai padri.

“L’apolidia è in sé una condizione estremamente complessa e dolorosa, perché presuppone l’inesistenza, la negazione del legame più importante che unisce un individuo al suo Stato: la cittadinanza. Ma questa condizione può divenire addirittura drammatica se non riconosciamo a queste persone identità e diritti. Tutti gli esseri umani hanno diritto ad avere una nazionalità, e coloro che ne sono sprovvisti hanno comunque diritto ad una protezione adeguata. Per questo motivo, con questa campagna vogliamo creare una sensibilità sul tema che possa favorire in Italia l’introduzione della legge sull’Apolidia, uno strumento normativo che possa garantire una procedura chiara, facilmente accessibile e fruibile per tutti coloro che hanno diritto a chiedere il riconoscimento di apolidia, e che includa una regolamentazione dei diritti della persona, durante l’iter e dopo l’eventuale riconoscimento” dichiara Fiorella Rathaus, direttrice del CIR.

Contesto

Il 25 novembre 2015 la Commissione Diritti Umani del Senato in collaborazione con il Consiglio Italiano per i Rifugiati e l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha presentato il Disegno di legge sul riconoscimento dello status di apolide.
L’adozione di una legge organica garantirebbe una procedura semplice e accessibile per il riconoscimento dello status di apolidia, facilitando quindi l’identificazione delle persone apolidi presenti in Italia e assicurando loro il godimento dei diritti fondamentali e una vita dignitosa.  
Per utilizzare il materiale multimediale in alta definizione  - video e foto - contattare cirstampa@cir-onlus.orgtel. 06 60 200 114 int. 216. 

Per ulteriori informazioni
UFFICIO STAMPA CIR  
Valeria Carlini
tel. + 39 06 69200114 int. 216 
+39 320 81 87 167
E-mail: carlini@cir-onlus.org  
Sito www.cir-onlus.org   

sabato 23 gennaio 2016

Fratel Ezio Tonini:- Quell'ET luminoso nella notte eritrea


In Africa, fuori dalle grandi città, le notti sono ancora nere. Buie. Notti che sono notti. Non ci sono i lampioni. Né le luci permanenti che fanno apparire perennemente sveglie, e luminosamente inquinanti, le notti nostre.
La notte dell’Asmara, 32 anni fa, quando la Caritas invitò una piccola pattuglia di giornalisti a raccontare la grande carestia che uccideva di fame l’Eritrea (ma i bambini nei campi, gli occhi persi nel vuoto, morivano anche di tosse) era una notte così.
Dall’aeroporto verso l’istituto dei fratelli cristiani che ci avrebbe ospitato, la strada veniva inghiottita dal buio, solo i fari della macchina facevano emergere dall’oscurità, come bianchi lampi, le lunghe vesti delle donne accoccolate per terra, in paziente attesa che all’alba aprisse il negozio della farina...
Fratel Ezio Tonini, artigianello, incontrato per la prima volta il giorno dopo quella notte eritrea, nella sua grande biblioteca al Pavoni Social Centre, era uno che teneva accesa la luce. Sulla storia di quel popolo, da oltre vent’anni in guerra con l’Etiopia, uno dei più lunghi e sanguinosi conflitti endemici africani.
Corno d’Africa, che fu Africa d’Italia. Piccola potenza coloniale, laggiù razza padrona, uomini bianchi scesi a uccidere, conquistare, poi sfruttare e comandare.
Ezio da Terlago no. Ezio era arrivato dopo, e teneva accesa la luce. Con la sua biblioteca frequentata da migliaia di studenti e così unica per la ricchezza dei documenti, che a volte ci capitava perfino il presidente-dittatore Afewerki, illuminava la storia del popolo eritreo che i suoi capi condannavano al buio permanente della guerra infinita, homo homini lupus.
E i ragazzi che non venivano sequestrati dall’esercito, li rubava il fronte di liberazione. In un caso e nell’altro, generazioni perdute a odiarsi, a spararsi, a negarsi il futuro.
Fratel Ezio, intanto, teneva accesa la luce sulla cultura di un nobile popolo, di un’antica civiltà. In condizioni difficili, senza incoraggiamenti istituzionali, semplicemente perché era giusto farlo. Sfuggiva, Ezio Tonini, al cliché del missionario: lui non stava sulla prima linea dell’emergenza umanitaria o dell’evangelizzazione eroica, non battezzava e non curava i malati, non faceva cantare i bambini e non insegnava mestieri. Lui stava in una biblioteca. E studiava, catalogava, archiviava.
Salvava memoria. Nell’indifferenza di quelli che avrebbero dovuto custodirla.
All’Asmara non fanno i bypass e a Nairobi, a cinque giorni dall’infarto, non l’avevano ancora portato. In Eritrea, la vita umana vale meno che a Terlago, il suo paese, dove non farà ritorno.

Ezio Tonini: E.T.
E una specie di Et, un extraterrestre doveva apparire agli eritrei: uno degli ultimi missionari rimasti dopo le espulsioni decretate da uno dei regimi più illiberali e intolleranti del mondo. Lui era ancora lì all’Asmara, a capire, a studiare, a fare resistenza all’oblio e all’ignoranza. Dice Flavio Corradini, che andava spesso a trovarlo, e che aveva in progetto di duplicare i documenti più preziosi: se in Africa si dice che, quando muore un anziano, muore un libro, con Ezio è morta un’immensa biblioteca. Chissà che fine farà.
Rischia di morire un mondo. Non solo una biblioteca.
Perché non ci sarà un altro fratel Ezio a leggere, a scrivere, a tramandare memoria. Anche per gli inconsapevoli.
Un luminoso Et trentino, dentro la notte di Asmara.

giovedì 14 gennaio 2016

Ricatti e galera per i profughi negli Stati del Processo di Khartoum

Sequestri da parte di bande di trafficanti, ricatti della polizia, galera a tempo indeterminato o rimpatri forzati nel paese da cui sono fuggiti per sottrarsi a persecuzioni, torture, negazione dei diritti più elementari. E’ quanto accade sempre più spesso ai profughi in fuga dal Corno d’Africa e dall’Africa sub sahariana proprio in alcuni degli Stati che l’Unione Europea ha scelto come partner per il controllo dell’emigrazione. In particolare, in Sudan e in Egitto, due “pilastri” del Processo di Khartoum, l’accordo firmato a Roma il 28 novembre 2014, su iniziativa del governo italiano, e degli accordi di Malta siglati l’11 novembre scorso.
Sono di questi giorni tre episodi emblematici della situazione assurda creata dalla volontà di esternalizzare i confini dell’Unione Europea, spostandoli sempre più a sud, oltre il Sahara, e affidandone la sorveglianza, come “gendarmi a pagamento”, a Stati di assai dubbia democrazia, quando non a vere e proprie dittature. Come, appunto, il Sudan di Al Bashir o l’Egitto del generale Al Sisi, dove questi episodi stanno accadendo. Ne sono vittime una ragazza di appena quindici anni; una madre con i suoi tre bambini; decine di giovani. Tutti eritrei. Tre casi che urlano quali siano in realtà le conseguenze di trattati come il Processo di Khartoum e gli accordi di Malta per la sorte, la vita stessa dei profughi.
Il primo episodio, quello della quindicenne: una ragazzina minuta, Eden, nome convenzionale per proteggerne l’identità. E’ una storia iniziata tre mesi fa. Eden, studentessa, vive a Keren, nel nord del paese, ma la madre e i fratelli sono emigratida tempo in Svizzera. Per lei, adolescente, è ormai prossimo il dodicesimo anno di scuola, che per legge coincide con l’inizio del servizio militare senza fine imposto dalla dittatura di Afewerki. Così, per non vedersi rubare la vita, decide di fuggire e raggiungere la famiglia. Cerca di espatriare insieme a un gruppo di amici, studenti come lei, alcuni della sua stessa scuola. Un espatrio clandestino, come tutti quelli dall’Eritrea, uno Stato prigione che pure è tra i firmatari del Processo di Khartoum,“beneficiato”, poco prima di Natale, con fondi europei da investire in ricerche petrolifere o addirittura in favore della poliziaper potenziare la vigilanza alle frontiere. Ma per fughe come questa di Eden – una  delle cinquemila che, secondo il Commissariato Onu per i rifugiati, si registrano ogni mese – ci sono due sole alternative: tentare di attraversare il confine a piedi, con i propri mezzi, sfidando le fucilate delle guardie, oppure affidarsi a una organizzazione di trafficanti.
Eden sceglie questa seconda soluzione. Va tutto bene fino a Tesseney, una piccola città vicino alla frontiera con il Sudan, dove i trafficanti che dovrebbero aiutarla a “passare, la sequestrano e la violentano a turno. Più volte. Abbandonandola poi esanime. Lei trova la forza di raggiungere Tesseney, dove la madre ha un’amica fidata. E’ in condizioni così gravi che la donna è costretta a portarla in ospedale. Naturalmente non può dire che Eden stava tentando di arrivare in Sudan e che a stuprarla sono stati i trafficanti a cui si era affidata: sarebbe come denunciarla, visto che in Eritrea l’espatrio clandestino è considerato un reato grave. Così racconta che era andata a trovarla per fermarsi qualche giorno da lei a Tesseney e che è stata aggredita e violentata da un gruppo di sconosciuti.
A poco a poco Eden si riprende. Appena può ricomincia la fuga. Questa volta riesce a passare il confine con l’aiuto di un’altra banda di “passeur” eritrei e sudanesi, mauna volta arrivata in Sudan, nella regione di Kassala, non fa molta strada: cade nelle mani di un gruppo di trafficanti, forse complici di quelli che le hanno fatto superare la frontiera. Ora è prigioniera da circa un mese. Per liberarla i banditi chiedono alla madre 8 mila dollari. La prima telefonata è arrivata in Svizzera all’inizio di dicembre. Ne sono seguite altre a cadenza fissa, sempre più minacciose: dicono che se i familiari non si sbrigano a pagare, Eden verrà “messa in vendita”, ceduta al miglior offerente, come in un’asta di schiavi: a un’altra banda o anche peggio.
E’ la conferma che le forze di sicurezza sudanesi in realtà non hanno alcun controllo del territorio. O, peggio, che sono complici o quanto meno indifferenti alla sorte dei profughi che, in base al trattato firmato dal Sudan, dovrebbero invece tutelare. Né il governo di Al Bashir sembra preoccuparsi più di tanto: l’intera regione di Kassala è “terreno di caccia” dei trafficanti di esseri umani. Persino all’interno dei campi profughi. Ma tutti fanno finta di non vedere.
La seconda storia, quella della giovane donna, Ribka (anche questo è un nome di copertura), con i suoi figlioletti, tre bambini di 8, 5 e 3 anni. Una intera famiglia che vorrebbe raggiungere il padre in Svizzera. La fuga inizia quasi un mese fa. Anche in questo caso affidandosi a una banda di trafficanti eritrei e sudanesi, a cui sono versati migliaia di dollari. Nessun serio problema fino al passaggio della frontiera: la signora e i suoi tre piccoli riescono a entrare in Sudan senza che nessuno li fermi. Sembra fatta. Ribka sta già pensando a come raggiungere Khartoum e di lì proseguire fino allo sponda del Mediterraneo, quando lungo la strada per Kassala, a pochi chilometri dalla frontiera, viene fermata da una pattuglia di polizia. Anziché accompagnarla in uno dei campi profughi della regione, gli agenti la conducono al loro comando. Dicono che si tratta di una normale procedura, “per accertamenti”. In realtà i poliziotti sequestrano la donna e i bambini: non li portano in un centro di accoglienza né li lasciano andare. Lei chiede con insistenza di essere affidata ai funzionari del Commissariato Onu, l’Unhcr, come è suo diritto di rifugiata, insieme ai figli. Gli agenti promettono, tergiversano. Poi consentono a Ribka di mettersi in contatto con il marito, in Svizzera.
L’uomo manda alla stazione di polizia alcuni amici eritrei che vivono in Sudan, per capire bene la situazione. “Ed è subito venuto fuori quello che si sospettava – spiega don Mussie Zerai, il presidente dell’agenzia Habeshia a cui il marito di Ribka ha chiesto aiuto – I poliziotti, a quanto pare, chiedono un riscatto per liberare la donna e i piccoli. Oltre tutto, non si capisce nemmeno bene quanto pretendono. Si direbbe che giochino al rialzo: alle persone inviate a informarsi, una volta dicono che devono deferire la donna a un giudice, un’altra che verrà rimpatriata di forza in Eritrea, che è la minaccia più grave perché, se rispedita a Keren, rischia di essere arrestata per la ‘fuga clandestina’ e di finire in carcere per chissà quanto tempo e in quali condizioni”.
L’agenzia Habeshia ha investito del “caso” l’Unhcr, che ha promesso di farsene carico. Ma intanto questa tortura continua. “A ben vedere – afferma don Zerai – questa vicenda, di cui sono vittime anche tre bimbi piccolissimi, è ancora più grave di quella della ragazzina quindicenne, perché, stando al racconto della donna, a pretendere di essere pagati per il rilascio, ricattando il marito, non sono trafficanti ma direttamente dei poliziotti: il ‘braccio’ dello Stato che si è impegnato a proteggere le persone in fuga che entrano nel suo territorio, affidandole al Commissariato dell’Onu per i rifugiati”.
Il terzo caso riguarda due gruppi di ragazzi tra i sedici e i venti anni. In tutto, oltre trenta giovani e giovanissimi, catturati in Egitto. La storia è venuta fuori l’otto gennaio, quando 13 di questo ragazzini, uomini e donne, si sono rivolti all’agenziaHabeshia. E’ un’altra fuga dall’Eritrea bloccata quando la meta del Mediterraneosembrava ormai vicina. I tredici – Semhar YemanMiskana Gere, Selam Kibreab, Asha AbdelaRim Derek, Eden Reda, Selam MekonnenErmiadHenokSalah,Hiwer Gabir, Alì, Milyon – scappano insieme e insieme riescono a passare in Sudan e poi in Egitto. Stanno cercando di scendere la valle del Nilo verso il delta quando incappano nella polizia. Non ci vuole molto a capire che sono entrati nel paese senza visto, “clandestini”. Un reato grave, in Egitto: comporta non solo l’arresto immediato ma la detenzione in carcere fino a quando non si ha la possibilità di coprire “in proprio” le spese per il rimpatrio forzato in aereo. Chi non ha soldi e non può farseli inviare dai familiari oppure, più semplicemente, non vuole pagare da sé la sua stessa riconsegna al regime da cui è scappato, resta in carcere a tempo indeterminato.
E in prigione, infatti, finiscono subito quei tredici ragazzi, nel carcere di Al Shalal, presso Assuan, tristemente famoso perché, ha denunciato Human Rights Watch, nel 2011 le guardie hanno pestato a sangue 118 detenuti eritrei per convincerli a firmare un documento di “rimpatrio volontario”. Da quando sono stati fermati chiedono di essere messi in contatto con l’Unhcr o con una Ong che si occupa dei profughi, per avere assistenza legale e per accedere alle procedure per la concessione del diritto d’asilo. Senza risultato.
Non solo: indagando su questa vicenda, Habeshia è venuta a sapere che pochi giorni prima è accaduto lo stesso a una ventina di altri ragazzi eritrei più meno della stessa età, trattenuti nel commissariato di Assuan. Anche a loro è stato impedito finora ogni contatto con l’Unhcr o ogni possibilità di assistenza legale. Del resto non è una novitàTestimoni hanno raccontato che alcuni giovani sono stati detenuti per anni in queste condizioni: persino ragazzi sfuggiti ai predoni beduini nel Sinai e poi intercettati dalla polizia. Se ne è avuta conferma anche da organizzazioni umanitarie che sono riuscite a far liberare dei prigionieri eritrei facendoli passare per etiopici e“rimpatriandoli” poi ad Addis Abeba anziché ad Asmara.
L’Unione Europea non può non saperlo. In particolare, non può non saperlo il Governo italiano, visto che queste organizzazioni, come l’associazione Gandhi della dottoressa Alganesh Fessahahanno sede, appunto, in Italia. Eppure si è scelto come partner del Processo di Khartoum e degli accordi di Malta anche l’Egitto, uno Stato che i richiedenti asilo, anziché aiutarli, li chiude in galera, per rispedirli indietro. Ma sapere e far finta di niente – denuncia il Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos – equivale a rendersi complici di una violazione sistematica dei diritti umani dei rifugiati. Un crimine di lesa umanità.





Nota
Servizio pubblicato il 10 gennaio 2015 dalla rivista www.psicologiaradio.it
Il 12 gennaio è giunta notizia che la giovane madre fermata dalla polizia sulla strada di Kassala è stata rilasciata insieme ai suoi bambini grazie all’intervento dell’Unhcr

venerdì 8 gennaio 2016

Lettera al Commissario Dimitris Avramopoulos

Onorevole Dimitris Avramopoulos

Commissario per gli affari interni, migrazione e cittadinanza



Gentile onorevole

Da  un mese circa 230 profughi eritrei, sudanesi e siriani protestano a Lampedusa contro il sistema europeo di riallocazione: contestano, in buona sostanza, il fatto che il programma adottato non tiene conto dei desideri, delle situazioni particolari, dei legami affettivi, di parentela, di amicizia in base alle quali ciascuno può preferire un paese piuttosto che un altro. “Siamo considerati – dicono – come dei pacchi postali da spedire da qualche parte, anziché esseri umani con una loro storia, un vissuto, un carico di speranze e di progetti per il futuro”. Con questo spirito e per sottolineare tutto il disagio e il dolore provocati dall’indifferenza per la loro sorte, hanno iniziato una manifestazione che si è protratta per settimane all’interno del centro di accoglienza dell’isola (dove funziona uno degli hotspot chiesti dall’Unione Europea all’Italia) e che negli ultimi giorni è stata portata direttamente nel cuore del paese, la piazza e il sagrato della chiesa madre, dove sono rimasti ininterrottamente, giorno e notte, chiedendo l’aiuto del sindaco e del parroco e la solidarietà degli isolani. Nonostante la presenza tra loro anche di donne e bambini, non hanno ceduto nemmeno ai disagi delle notti passate all’addiaccio, al freddo e alla pioggia, sostenendo di essere pronti a protrarre ad oltranza la loro protesta e di non essere disposti a farsi registrare e identificare, con la rilevazione delle impronte digitali, fino a quando non avranno l’assicurazione che si terrà conto, nei limiti del possibile, delle loro indicazioni sulla scelta del paese dove ricollocarli.
La linea più “dura” della contestazione è temporaneamente rientrata grazie alla mediazione alla quale ho partecipato io stesso, insieme al sindaco e al parroco: i profughi hanno accettato di rientrare in via provvisoria nel centro hotspot, ma solo per pochi giorni: il tempo necessario per avviare una trattativa a livello ministeriale ed europeo per esaminare le loro richieste.
Credo sia eloquente quanto mi ha detto uno dei profughi eritrei: “Io sono fuggito da un regime che pretendeva di decidere della mia vita al posto mio. Di stabilire, cioè, il mio futuro, determinare dove e come dovevo vivere. Per questo sono fuggito: per essere libero di scegliere autonomamente il mio futuro. Qui ora mi trovo invece davanti a un altro regime di regole che, sostanzialmente, pretende anch’esso di determinare il mio futuro, perché è evidente che la mia vita dipenderà dal posto in cui verrò mandato. Ecco il motivo del mio no: chiedo il rispetto della mia libertà e del mio desiderio di avere una vita dignitosa”. Tenendo conto di tutto quello che questo giovane e tanti altri come lui hanno passato per arrivare in Europa, spesso indebitandosi e lasciandosi alle spalle separazioni laceranti dalla propria famiglia e dal proprio mondo, credo che sia il caso di ascoltare queste parole, cercando una soluzione giusta, che non vanifichi il sogno di costruirsi in libertà una nuova vita. 

Mi viene in mente il terzo comma dell’articolo dieci della Costituzione italiana che è ormai anche la mia Costituzione: “Lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Sono convinto che anche l’applicazione degli accordi europei debba essere ispirata a questi principi. Che bisogna tener conto, cioè, oltre che delle opportunità di lavoro, di studio, ecc. anche di eventuali punti di riferimento, legami affettivi, presenza di comunità nazionali, possibilità di riunificazione familiare, ecc.: tutti elementi che possono fare da importante supporto nel cammino di integrazione nel nuovo paese. E’ tutto qui il punto: quei profughi non vogliono essere scaricati nel primo paese che dice di essere disponibile, senza esaminare la soluzione ottimale e quale sia la via da percorrere per perseguirla. Tanto più alla luce delle notizie di una aperta ostilità quando non addirittura di casi di razzismo e violenza provenienti da paesi che pure si dicono disponibili all’accoglienza. Notizie di cui i profughi sono ben informati.
Ecco, quei profughi non si rifiutano di farsi identificare. Al contrario. Vogliono però sapere quale potrà essere il loro futuro. Chiedono cioè di unificare le procedure che oggi si svolgono per tappe, di essere informati sui criteri in base ai quali viene loro assegnata la destinazione e di tener conto dei loro bisogni e della eventuale possibilità di ricongiungersi con familiari e parenti. A ben vedere, nulla di più che il rispetto della Costituzione Europea: carta dei diritti fondamentali dell’Unione, Titolo I e Titolo II, sulla dignità e libertà delle persone.
  
Don Mussie Zerai
 Presidente dell’agenzia Habeshia