Commissario per gli
affari interni, migrazione e cittadinanza
Gentile onorevole
Da un mese circa 230 profughi eritrei, sudanesi
e siriani protestano a Lampedusa contro il sistema europeo di riallocazione:
contestano, in buona sostanza, il fatto che il programma adottato non tiene
conto dei desideri, delle situazioni particolari, dei legami affettivi, di
parentela, di amicizia in base alle quali ciascuno può preferire un paese
piuttosto che un altro. “Siamo considerati – dicono – come dei pacchi postali
da spedire da qualche parte, anziché esseri umani con una loro storia, un
vissuto, un carico di speranze e di progetti per il futuro”. Con questo spirito
e per sottolineare tutto il disagio e il dolore provocati dall’indifferenza per
la loro sorte, hanno iniziato una manifestazione che si è protratta per
settimane all’interno del centro di accoglienza dell’isola (dove funziona uno
degli hotspot chiesti dall’Unione Europea all’Italia) e che negli ultimi giorni
è stata portata direttamente nel cuore del paese, la piazza e il sagrato della
chiesa madre, dove sono rimasti ininterrottamente, giorno e notte, chiedendo
l’aiuto del sindaco e del parroco e la solidarietà degli isolani. Nonostante la
presenza tra loro anche di donne e bambini, non hanno ceduto nemmeno ai disagi
delle notti passate all’addiaccio, al freddo e alla pioggia, sostenendo di
essere pronti a protrarre ad oltranza la loro protesta e di non essere disposti
a farsi registrare e identificare, con la rilevazione delle impronte digitali,
fino a quando non avranno l’assicurazione che si terrà conto, nei limiti del
possibile, delle loro indicazioni sulla scelta del paese dove ricollocarli.
La linea più “dura”
della contestazione è temporaneamente rientrata grazie alla mediazione alla
quale ho partecipato io stesso, insieme al sindaco e al parroco: i profughi
hanno accettato di rientrare in via provvisoria nel centro hotspot, ma solo per
pochi giorni: il tempo necessario per avviare una trattativa a livello
ministeriale ed europeo per esaminare le loro richieste.
Credo sia eloquente
quanto mi ha detto uno dei profughi eritrei: “Io sono fuggito da un regime che
pretendeva di decidere della mia vita al posto mio. Di stabilire, cioè, il mio
futuro, determinare dove e come dovevo vivere. Per questo sono fuggito: per
essere libero di scegliere autonomamente il mio futuro. Qui ora mi trovo invece
davanti a un altro regime di regole che, sostanzialmente, pretende anch’esso di
determinare il mio futuro, perché è evidente che la mia vita dipenderà dal
posto in cui verrò mandato. Ecco il motivo del mio no: chiedo il rispetto della
mia libertà e del mio desiderio di avere una vita dignitosa”. Tenendo conto di
tutto quello che questo giovane e tanti altri come lui hanno passato per
arrivare in Europa, spesso indebitandosi e lasciandosi alle spalle separazioni
laceranti dalla propria famiglia e dal proprio mondo, credo che sia il caso di
ascoltare queste parole, cercando una soluzione giusta, che non vanifichi il
sogno di costruirsi in libertà una nuova vita.
Mi viene in mente il
terzo comma dell’articolo dieci della Costituzione italiana che è ormai anche
la mia Costituzione: “Lo straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo
esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha
diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni
stabilite dalla legge”. Sono convinto che anche l’applicazione degli accordi
europei debba essere ispirata a questi principi. Che bisogna tener conto, cioè,
oltre che delle opportunità di lavoro, di studio, ecc. anche di eventuali punti
di riferimento, legami affettivi, presenza di comunità nazionali, possibilità
di riunificazione familiare, ecc.: tutti elementi che possono fare da
importante supporto nel cammino di integrazione nel nuovo paese. E’ tutto qui
il punto: quei profughi non vogliono essere scaricati nel primo paese che dice
di essere disponibile, senza esaminare la soluzione ottimale e quale sia la via
da percorrere per perseguirla. Tanto più alla luce delle notizie di una aperta
ostilità quando non addirittura di casi di razzismo e violenza provenienti da
paesi che pure si dicono disponibili all’accoglienza. Notizie di cui i profughi
sono ben informati.
Ecco, quei profughi
non si rifiutano di farsi identificare. Al contrario. Vogliono però sapere
quale potrà essere il loro futuro. Chiedono cioè di unificare le procedure che
oggi si svolgono per tappe, di essere informati sui criteri in base ai quali
viene loro assegnata la destinazione e di tener conto dei loro bisogni e della
eventuale possibilità di ricongiungersi con familiari e parenti. A ben vedere,
nulla di più che il rispetto della Costituzione Europea: carta dei diritti
fondamentali dell’Unione, Titolo I e Titolo II, sulla dignità e libertà delle
persone.
Don Mussie Zerai
Presidente
dell’agenzia Habeshia
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