Eritrea. Perché scappano tanti giovani
“La gente era reticente solo nel rispondere a domande relative a parenti in carcere”, ha dichiarato a Ticinonline il consigliere nazionale Thomas Aeschi, di ritorno da un viaggio in Eritrea. E ancora: “Non c’è stato modo di visitare le prigioni”, cosa che, precisa sempre Ticinonline, “le autorità di Asmara, stando a dichiarazioni della consigliera federale Simonetta Sommaruga, vietano pure al comitato internazionale della Croce Rossa”. Per il resto, tutta la descrizione di Aeschi è sostanzialmente positiva, tanto da giungere alla conclusione che i richiedenti asilo eritrei in Svizzera e in Europa sono spinti in gran parte da motivazioni economiche.
Ancora più rosea è la visione riferita dalla consigliera nazionale Yvonne Feri, pure presente nel gruppo di politici svizzeri che hanno viaggiato di recente in Eritrea: afferma che ci si è potuti spostare senza limitazioni; che ha avuto senza difficoltà colloqui con diverse persone e che i suoi interlocutori parlavano tutti in inglese; che ha avuto l’impressione che il paese attraversi una fase di sviluppo.
Nessuno sembra aver dato peso più di tanto a quella reticenza a parlare dei “parenti in carcere”. E al fatto che alla delegazione non sia stato consentito di visitare neanche una prigione. Eppure non ci sarebbe stato che l’imbarazzo della scelta: tra prigioni, centri di detenzione, campi di concentramento, strutture detentive annesse a comandi militari o di polizia, in Eritrea ci sono oltre 300 carceri. Anzi, secondo fonti della diaspora, quasi 360, su una popolazione di 5,5 milioni di abitanti. Forse, allora, bisogna partire proprio da qui. Da questo punto che la delegazioni di politici svizzeri sembra invece aver molto sottovalutato: il divieto di visitare anche una sola prigione e l’imbarazzo, ma più probabilmente la paura, della gente a parlare di queste cose. Già perché, a scavare appena un po’, anche soltanto a cercare di saperequanti e dove sono i centri di detenzione, si sarebbe scoperto che, in realtà, l’Eritrea è uno stato-prigione, dove si può essere arrestati e fatti sparire al minimo sospetto di dissenso. Proprio come denunciano da anni organizzazioni internazionali quali Amnesty, Human Rights Watch, Reporter senza Frontiere, e come ha confermato il recente rapporto della Commissione Onu, a conclusione della sua inchiesta sulla violazione dei diritti umani. Un rapporto nato non da una visita più o meno frettolosa, ma da otto mesi di indagini minuziose e, alla fine, tanto pesante da indurre le Nazioni Unite a rinnovare l’incarico per appurare se ci siano gli estremi per imputare di crimini di lesa umanità il governo di Asmara di fronte all’Alta Corte di Giustizia.
Ecco, già solo ponendosi questo problema, forse la visione del paese sarebbe apparsa meno rosea. Ma non basta. Si dice che il gruppo ha potuto muoversi liberamente, ha parlato con chiunque, che la gente non era reticente e molti si esprimevano in inglese. Sarà senza dubbio così. Che significa, però, muoversi liberamente? Muoversi liberamente vuol dire, ad esempio, poter prendere una macchina e girare il paese ovunque, a proprio piacimento e per tutto il tempo che si vuole, fermarsi dove capita o si ha interesse, anche nei luoghi più impensati. E osservare, parlare, fare confronti, discutere. “Indagare”, in una parola, la vita quotidiana ma non solo: anche i problemi, le prospettive, i sogni di ciascuno e di tutti. Non risulta che tutto questo sia consentito. Non a caso tutti i corrispondenti della stampa estera e tutte le Ong internazionali hanno progressivamente lasciatol’Eritrea dopo l’avvento della dittatura: perché non erano liberi di spostarsi, girare,chiedere e, dunque, di fare il proprio lavoro. Che cosa è cambiato da allora? Nulla. Altra cosa è se ci si muove in occasione di una visita politica ufficiale e in un ambito forzatamente ristretto. A uscire dal quale, probabilmente, si sarebbe scoperto di come molti ragazzi, specie nei villaggi più poveri del bassopiano, sappiano leggere e scrivere a stento in tigrino. Altroché inglese! Non a caso la diaspora denuncia da tempo il forte “abbassamento” del livello culturale medio dei profughi più giovani che arrivano in Europa.
Quanto alle persone ascoltate, nessuno nega che fossero disponibili. Resta da vedere se fossero anche sincere: la diffidenza e la paura sono tali che difficilmente la gente, anche se è ostile al regime, si apre davvero. Proprio per non rischiare di finire in una di quelle prigioni su cui, come ha dichiarato lo stesso Thomas Aeschi, si è mostrata molto restia a parlare.
Infine, “il paese in fase di sviluppo”. Sicuramente il regime si sta dando da fare per affermare e propagandare questo assunto, con l’aiuto anche di grosse società europee o americane, di vari governi occidentali e in parte, ultimamente, della stessa Unione Europea, propensi a “recuperare” l’immagine di Isaias Afewerki, il presidente-dittatore, di fronte alla comunità internazionale, per tutta una serie di interessi geopolitici e strategici, anche a costo di ignorare la violazione sistematica dei diritti umani in atto da anni. La realtà, però, è molto diversa. Oltre tutto, appare una contraddizione sostenere che il paese si sta sviluppando e, nello stesso tempo, che i giovani scappano per motivi economici. Ma prima che una contraddizione è un falso: i giovani essenzialmente scappano per motivi politici. Per sottrarsi alle mille forme di violenza della dittatura. Lo ha fatto rilevare anche l’ambasciatore della Ue, Christian Manahal, il quale, pur non sottovalutando le motivazioni economiche, ha precisato che questo esodo è dovuto al servizio militare che costringe uomini e donne sotto le armi per un tempo infinito. Tradotto in termini più concreti: dall’età di 18 anni ad almeno 55, a volte 60 anni. Ecco il punto: attraverso il cosiddetto “servizio nazionale”, il regime ruba la vita intera ai suoi giovani. Ed ha massacrato l’economia, facendo dell’Eritrea uno dei paesi più poveri del pianeta.
E queste sono motivazioni politiche. Non economiche.