di Emilio Drudi
Dall’inizio
dell’anno ne sono arrivati a migliaia al centro della Croce Rossa sulla via
Tiburtina, a Roma: giovani profughi, per lo più africani, provenienti dal Sud
Italia. Nel 2015 tantissimi erano “transitanti” sconosciuti, senza documenti.
Ora quasi tutti sono stati identificati e foto segnalati. Alcuni si fermano
solo pochi giorni, per poi riprendere il viaggio, sfidando il regolamento di
Dublino che li vincola al paese in cui sono sbarcati e magari disfacendosi
delle “carte” ricevute alla registrazione, nell’illusione di non essere
“riconosciuti” e di poter così superare i controlli oltralpe. Altri, i più, vogliono
entrare nel circuito del ricollocamento, chiedendo di essere destinati ad un
altro paese europeo. Oppure presentano la domanda di asilo per restare in
Italia. In maggioranza sono eritrei. Poi, etiopi quasi sempre di etnia oromo,
somali, sudanesi.
Da gennaio ad oggi
non è arrivato un solo gambiano. E’ strano, perché sono tanti, sempre di più, i
migranti forzati sbarcati in Italia da questo piccolo Stato dell’Africa
Occidentale: quasi il dieci per cento del totale, il terzo gruppo per
nazionalità dopo gli eritrei e i nigeriani. Il fatto è che chi fugge dal Gambia
non viene considerato un profugo ma un “migrante economico”. La selezione
avviene subito dopo lo sbarco, chiudendo ogni possibilità di entrare in un
programma di protezione e accoglienza. Eppure il paese è oppresso dalla
dittatura di Yahya Jammeh, una delle più dure del mondo: soppressione di ogni
forma di libertà e opposizione al regime, arresti arbitrari anche di massa,
detenzioni illegali senza alcuna accusa formale, sparizioni forzate, omicidi
mirati, tortura come pratica abituale, violazione sistematica dei diritti umani.
Gli ultimi rapporti di Amnesty e di Human Rights Watch sono più che eloquenti.
E il presidente Yahya Jammeh ha annunciato un ulteriore giro di vite in
direzione di uno Stato islamico sempre più fondamentalista. Evidentemente,
però, poco importa: il Gambia viene considerato uno Stato “sicuro”, con il
quale si possono allacciare accordi per il rimpatrio forzato dei profughi.
Ciò che accade alla
maggior parte dei fuggiaschi dal Gambia, inascoltati e respinti alla frontiera,
pare sia la regola per i profughi provenienti da numerosi altri paesi africani:
Burkina Faso, Guinea, Mali, Nigeria, Senegal, Togo, Costa d’Avorio. Ovvero, per
i giovani che, essendo ormai bloccata, per effetto del Processo di Rabat, la
rotta del Mediterraneo Occidentale, con imbarchi dal Marocco, puntano su quella
del Mediterraneo Centrale, arrivando in Italia dalla Libia e dall’Egitto. Tutto
lascia credere, in sostanza, che ci sia la disposizione, più o meno esplicita,
di procedere a una selezione sommaria, immediata, in base alle nazioni di
provenienza. Numerose associazioni umanitarie hanno denunciato questa procedura
fin dall’apertura dei primi hotspot: “Le richieste di asilo non vengono esaminate
caso per caso, come prevedono il diritto e le convenzioni internazionali, con
il risultato che questi centri di prima identificazione si stanno rivelando una
fabbrica di irregolari”. Secondo i dati del Viminale, diffusi in una conferenza
stampa a Palermo da Arci, Diritti e Frontiere e l’Altro Diritto, ad esempio,
dall’inizio di gennaio alla fine di febbraio 2016, su un totale di circa 7.800
nuovi arrivi (in linea con gli sbarchi dello stesso periodo 2015), sono stati
registrati 5.254 irregolari, oltre il 40 per cento in più dei 3.666 censiti
l’anno prima. “Il motivo di questo balzo enorme – ha dichiarato Fulvio Vassallo
Paleologo, giurista di Diritti e Frontiere – sta nel fatto che gli hotspot si
sono rivelati un sistema di clandestinazione forzata. Al momento dello sbarco,
ai migranti vengono poste domande sommarie sul luogo di provenienza, in modo
che nella maggior parte dei casi si arrivi in tempi rapidi alla notifica del
provvedimento di respingimento”. E tra i fattori che impediscono ai profughi di
accedere alle procedure di asilo sono segnalati, appunto, anche la nazionalità
e il luogo di provenienza, sulla scorta di un elenco di paesi ritenuti
“sicuri”.
In base a questo
principio, in Italia le misure di protezione vengono assicurate in grande
prevalenza, se non quasi esclusivamente, a chi fugge dalla Siria, dall’Eritrea,
dall’Iraq, dall’Afghanistan. In Grecia, l’altro paese mediterraneo di primo
sbarco, si adottano sostanzialmente gli stessi criteri. Cambiano soltanto, in
parte, le nazionalità “privilegiate”: Siria, Iraq, Palestina. Voci in questo
senso circolavano da tempo. Ora c’è una segnalazione formale fatta all’Unhcr
dall’agenzia Habeshia, in seguito a una richiesta di aiuto lanciata da diversi
profughi. “La cosa strana che mi ha riferito
un gruppo di eritrei ospiti del Moria Camp di Lesbo – scrive don Mussie
Zerai a Giovanni Lepri, dell’Unhcr Grecia – è che uno dei responsabili del
centro di accoglienza avrebbe detto che la precedenza, come richiedenti asilo,
per il reinsediamento verso il Nord Europa, spetterebbe ai siriani, poi agli
iracheni e infine ai palestinesi. Solo dopo verrebbero gli eritrei, come
fossero rifugiati di serie D. Vi risulta questa classificazione? E da che cosa
dipende? Qual è il criterio, insomma?”.
Lo stesso, secondo
le denunce giunte ad Habeshia, accadrebbe in altri campi sparsi nelle isole
greche. Ad esempio a Chios, dove c’è un gruppo di 27 eritrei, o a Leros, dove
gli eritrei sono 50. Ora Habeshia sta svolgendo indagini anche sui campi del
continente greco, a cominciare da quello situato a circa 70 chilometri da Atene.
Il numero più consistente resta però, al momento, quello del Moria Camp di
Lesbo, con 110 profughi eritrei: 85 uomini e 25 donne, di cui quattro in stato
di gravidanza. Alcuni dei richiedenti asilo che hanno sollevato il caso sono
confinati lì da oltre quattro mesi, senza che nessuno abbia mai fornito loro
spiegazioni o indicazioni. Un limbo, anzi, quasi uno stato di detenzione che
sembra senza fine. “E’ una situazione frustrante – insiste don Zerai – Quei
giovani non riescono nemmeno a sapere a che punto sia la loro procedura di
asilo o di reinsediamento, mentre rifugiati siriani o iracheni giunti da poche
settimane partono per altre destinazioni. E’ ovvio, allora, che vivano tutto
questo come una forma di discriminazione nei loro confronti. E che montino
sentimenti di frustrazione e di protesta”.
Ed è ovvio, in
queste condizioni, che molti, sempre di più, accarezzino l’idea di scappare da
quei campi, anche a costo di rischiare di uscire dal programma internazionale di
protezione. “All’inizio – rileva Amr Adam, un interprete che collabora con la
Croce Rossa ed altre istituzioni a Roma – i richiedenti asilo hanno manifestato
una grande fiducia nel piano di ricollocamento. Hanno visto in questo progetto
la prima vera occasione di accesso legale e controllato all’Europa. Il modo in
cui le procedure sono state applicate, le discriminazioni, i ritardi, le
lentezze burocratiche, i tempi di attesa sempre più lunghi, hanno però progressivamente
smantellato questa fiducia. La reazione è di due tipi: o uno scoramento
profondo, che porta talvolta ad episodi di autolesionismo o addirittura a
tentativi di suicidio; oppure un senso di ribellione, che induce a tentare di
arrivare comunque in qualche paese europeo, rivolgendosi magari ai trafficanti.
E’ proprio questa la grande sconfitta: il piano di ricollocamento, se attuato,
sarebbe stato uno strumento di grande efficacia contro il
traffico clandestino di uomini in tutta Europa. Oggi accade invece che i
profughi sono tornati ancora a fidarsi più dei trafficanti che delle
istituzioni. A parte gli aspetti umanitari, è, a dir poco, una enorme occasione
mancata per la credibilità stessa dell’Unione Europea”.
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