di Emilio Drudi
Sono spariti.
Nessuno sa che fine abbiano fatto i 40 sudanesi bloccati dalla polizia a
Ventimiglia, nel centro della Croce Rossa, e rimpatriati di forza con un volo
speciale partito da Torino Caselle per Khartoum a fine agosto. Del gruppo
iniziale di 48, tutti arrivati alle soglie del confine nella speranza di poter
entrare in Francia, ne restano in Italia soltanto otto, ma rinchiusi nel Cie di
Torino, di fatto in carcere, in attesa che la loro richiesta d’asilo venga
esaminata.
Si tratta del primo
respingimento di massa effettuato da Roma dopo la “stagione” di Roberto Maroni
ministro degli interni (governo Berlusconi, 2009), che con la scelta di
bloccare in mare e respingere ancora prima dello sbarco profughi e migranti,
senza valutarne individualmente la “storia” e le richieste d’asilo, ha portato
alla condanna dell’Italia da parte della Corte Europea per i diritti dell’Uomo.
Proprio anche nel ricordo di questa pesante sentenza, il provvedimento disposto
dal Viminale, con il ministro Angelino Alfano, ha sollevato una forte ondata di
proteste, in particolare da parte di Amnesty e della Caritas, oltre che di
gruppi spontanei di volontari. Risulta che prima di essere trasferiti a Torino,
presso la questura di Imperia un giudice di pace ha convalidato il decreto di
espulsione per ciascuno dei rimpatriati. Tuttavia Alessandra Ballerini, legale
della Caritas ed esperta di diritto dell’immigrazione, ha rilevato come sia
comunque un provvedimento collettivo, in contrasto con il diritto
internazionale, con conseguenze gravissime per le vittime: “Siamo di fronte –
ha dichiarato alla stampa – a una deportazione di massa verso un paese dove è
certa la violazione dei diritti fondamentali, dov’è in pericolo la vita stessa
di quei 40 giovani. Con questa operazione l’Italia si rende complice di tutte
le violazioni che saranno messe in essere da un regime come quello di
Khartoum”.
Il ministro Alfano
ha replicato che non ci sarebbe stato alcun “vulnus”
dei diritti umani, come contestato da Amnesty e dalla Caritas. “Il rimpatrio
dei sudanesi – ha detto, facendo riferimento al Memorandum of Understanding firmato il 3 agosto – è avvenuto nel
pieno rispetto di un accordo tra la polizia italiana e quella del Sudan”.
Dichiarazioni analoghe sono state rilasciate dai vertici della Polizia,
asserendo che i 40 espulsi “pur potendolo, non hanno esercitato il diritto di
richiedere la protezione internazionale” e, dunque, “non erano da considerarsi
richiedenti asilo ma migranti economici”, aggiungendo che “erano presenti
rappresentanti dell’Oim e dell’Unhcr”. Amnesty continua a insistere però che
proprio l’accordo citato da Alfano non rispetta il diritto internazionale. “La
motivazione del ministro non regge: in base a questo principio l’Italia
potrebbe stipulare un accordo con Bashar al Assad e rimandare indietro i
siriani”, ha protestato Riccardo Noury. Ed ancora: “Un accordo tra due Stati
non può superare, dal punto di vista giuridico, una convenzione internazionale.
Esistono norme europee, norme di diritto internazionale, che impongono di non
inviare persone verso il paese d’origine se esiste il pericolo che possano
subire violazioni dei diritti umani. Non regge, insomma, il principio che un
accordo è legale perché stipulato tra due soggetti che hanno diritto di farlo”.
Quanto sia
drammatica la situazione in Sudan – il cui presidente, Omar Hasan al Bashir, è
stato condannato per crimini di lesa umanità – e come sia del tutto aleatorio
il rispetto dei diritti fondamentali nel paese, lo ha ammesso finora, nei
fatti, l’Italia stessa, tanto che sono state accolte oltre il 60 per cento
delle richieste di asilo, o comunque di tutela internazionale, presentate nel
2015 da migranti sudanesi. Quanto al fatto che i 40 giovani respinti sarebbero
stati dei “migranti economici” perché non avrebbero presentato domanda d’asilo
– come sostiene la Polizia – resta da vedere se, dal momento dello sbarco in
poi, siano stati adeguatamente informati delle procedure ed abbiano ricevuto
una sufficiente assistenza o non siano stati invece messi di fatto in una
situazione di “clandestinazione forzata”, come – stando ad esempio alle
ripetute denunce dell’Asgi (Associazione giuristi per l’immigrazione) –
accadrebbe sempre più spesso. Né risulta che il Viminale, dopo averli fatti
arrivare a Khartoum, si sia preoccupato di verificare quale sorte abbiano
seguito, una volta presi in consegna dalla polizia sudanese.
Probabilmente ci
sono elementi sufficienti per un nuovo ricorso alla Corte Europea, simile a
quello che ha portato alla condanna per i respingimenti in mare voluti da
Maroni, ma a quanto pare, al Governo non interessa granché: al Governo sembra
interessare solo disfarsi di profughi e migranti a qualsiasi costo, senza
curarsi di quanto accade dopo che sono stati bloccati magari prima ancora di
arrivare in Europa o quando vengono rimandati indietro. Confermano questa
impostazione tutti i trattati sottoscritti negli ultimi anni, con vari Stati
dell’Africa e del Medio Oriente, da parte dell’Unione Europea e dell’Italia.
Il caso più noto è
forse quello con la Turchia, sottoscritto all’indomani della conclusione degli
accordi di Malta (novembre 2015). In cambio di 6 miliardi di euro, Ankara si è
impegnata a blindare le frontiere europee e la rotta dell’Egeo che lo scorso
anno ha portato in Grecia quasi 850 mila profughi. E la nuova “barriera”
funziona perfettamente: appena è entrata a regime, è cessato di colpo il flusso
di disperati dalle coste dell’Anatolia verso le isole greche. Ma né Bruxelles,
né Roma si sono preoccupate di verificare il “seguito”. Bene, il “seguito” è
che Ankara ha subito dopo stipulato a sua volta una serie di intese per il
rimpatrio coatto dei profughi giunti in Turchia. Si tratta di ben 14 diversi
accordi bilaterali, quasi tutti con Stati che, secondo i parametri europei
dell’accoglienza, non possono certo essere considerati “sicuri”: l’Iraq e
l’Afghanistan tuttora sconvolti dalla guerra, ad esempio; la Somalia in pieno
caos da anni, dove i miliziani di Al Shabaab mettono a segno una media di tre
attentati al giorno; o la dittatura eritrea di Isaias Afewerki, “condannata”
nel giugno scorso, dalla Commissione d’inchiesta dell’Onu, per la violazione
sistematica dei diritti umani, inclusa la riduzione in schiavitù. Il paradosso
è evidente: se un eritreo, un somalo o un afghano riescono ad arrivare in
Italia, sono accolti come rifugiati, ma se hanno la sfortuna di finire in
Turchia vengono rispediti indietro, con il consenso e di fatto con la
complicità anche dell’Italia che, come gli altri Stati Ue, non si è posta
minimamente il problema di come Ankara interpreti ed attui il suo ruolo di
“gendarme dei confini” europei.
A ben vedere, del
resto, non c’è da stupirsi di questo “voltarsi dall’altra parte” sulle
conseguenze concrete del patto con Ankara visto che, sempre sulla scia degli
accordi di Malta, Roma ha cominciato ad attuare tutta una serie di patti
analoghi con vari paesi africani: a parte quello con il Sudan firmato il 3
agosto, è quasi concluso quello con la Nigeria, mentre è già operativo quello
con il Gambia, un paese dominato da una dittatura analoga a quella eritrea,
dove sono la norma le persecuzioni contro ogni forma di dissenso, arresti arbitrari
e senza accuse specifiche, sparizioni misteriose, uccisioni mirate. Senza
contare una deriva islamica fondamentalista sempre più marcata, favorita dal
governo.
L’ultimo patto
firmato è quello con la Libia del Governo di Unità Nazionale guidato da Fajez
Serrai. Un accordo rimasto quasi segreto: è stato ufficializzato il 24 agosto a
Roma, ma in Italia non se ne è saputo quasi nulla fino a quando, all’inizio di
settembre, non ne hanno parlato il Libya
Herald ed altri media libici. Un silenzio che si spiega forse con il fatto
che l’esecutivo di Serraj, insediato e riconosciuto dall’Onu e dalle capitali
occidentali, è in realtà estraneo, se non contestato, dalla maggioranza della
popolazione libica e dal Parlamento di Tobruk, che controlla quasi l’intera
Cirenaica e parte del Fezzan e il cui esercito, guidato dal generale Khalifa Haftar,
proprio in questi giorni, armi alla mano, ha conquistato i principali terminali
petroliferi, sottraendoli alla sovranità di Tripoli. Serraj, in sostanza,
riesce a malapena ad esercitare la sua autorità sulla capitale e una porzione
della Tripolitania, non ha forze armate se non le milizie della compagnia
petrolifera o di alcuni potentati autonomi (come quelle di Misurata) ed è
apertamente osteggiato da gran parte delle autorità religiose. La tragedia dei
profughi si consuma in questo contesto. Gli arrivi continuano ad essere
numerosi sia dall’Africa subsahariana che dal Medio Oriente perché, grazie
anche al Processo di Rabat che ha blindato il Marocco, la rotta del
Mediterraneo centrale è l’unica ancora aperta. Solo gli eritrei, ad esempio,
pare siano oltre 10 mila. Ma, nel caos in cui si trova il paese, sono
abbandonati in balia dei trafficanti, dei miliziani delle varie fazioni, degli
arresti e dei frequenti ricatti a cui li costringono carcerieri e poliziotti
corrotti per rilasciarli dai centri di detenzione, di violenze, soprusi,
condizioni di vita inumane nei lager che l’ipocrisia europea definisce campi di
accoglienza. Roma non può non essere a conoscenza di questo inferno. Eppure
continua da anni a tenervi intrappolati migliaia di disperati, fornendo
risorse, mezzi, armi e addestramento alla polizia e alla Guardia Costiera
libica, perché facciano il lavoro sporco di fermare i migranti prima ancora che
si possano imbarcare per l’Europa o subito dopo che hanno preso il mare.
L’accordo varato il 24 agosto a Roma è solo l’ultimo atto di questa politica di
respingimento.
Tutto questo a
fronte dell’arrivo, in Europa, di poco più di 300 mila profughi nei primi otto
mesi e mezzo del 2016: appena lo 0,06 per cento della popolazione della Ue. Una
percentuale irrisoria e che resta tale, per il continente più ricco del mondo,
anche se si aggiunge il milione e 50 mila dello scorso anno, portando il totale
a 1,35 milioni: 0,27 per cento. Eppure Jean Claude Junker e Ronald Tusk, i
massimi vertici dell’Unione Europea come presidenti, rispettivamente, della
Commissione e del Consiglio, hanno sostenuto, al G-20 di qualche giorno fa, che
l’Europa “non ce la fa più”: che è stata messa in crisi, cioè, dalla richiesta
d’aiuto di un numero di persone pari ad appena lo 0,27 per cento della sua
popolazione.
Questa tesi è stata
accettata ed anzi ribadita in pratica da tutti i i principali leader e politici
europei. Con un’unica, fortissima, netta eccezione: quella del re di Norvegia
Harald V il quale, in un appassionato discorso tenuto nel giardino del Palazzo
Reale di Oslo, ha parlato dei diritti dei migranti e degli omosessuali, di
accoglienza, di rispetto per le altre religioni: “I Norvegesi – ha detto tra
l’altro – credono in Dio, in Allah, in tutto o in nulla. I norvegesi siete voi.
I norvegesi siamo noi. La Norvegia è unita, è una: alla Norvegia appartengono
tutti gli esseri umani che ci vivono per quanto diversi tra loro possano essere.
I norvegesi vengono dal nord della Norvegia, dalla Norvegia centrale, dal sud
della Norvegia e da tutte le altre regioni. Sono norvegesi anche coloro che
sono venuti dall’Afghanistan, dal Pakistan e dalla Polonia, dalla Svezia, dalla
Somalia e dalla Siria…”. Ed ha concluso, re Harald, ammonendo ad accettarsi a
vicenda e ad avere cura gli uni degli altri.
E’ una presa di
posizione coraggiosa e piena di umanità, che fa onore all’anziano sovrano. E
che suona come un duro atto d’accusa contro l’intera Fortezza Europa.
Tratto da: www.psicologiaradio.it
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