di Emilio Drudi
Erano fuggiti mesi,
anni fa, dalla Somalia sconvolta dalla guerra civile e dal terrorismo di Al
Shabaab, cercando scampo nello Yemen. Sono rimasti finché hanno potuto. Poi la
guerra e la carestia li hanno scacciati anche da qui, costringendoli a un’altra
fuga per la vita, di nuovo in mare, ma questa volta a ritroso, verso l’Africa.
Sono stati massacrati proprio quando pensavano di essere ormai vicini alla
salvezza, protetti dalle insegne dell’Unhcr, il Commissariato dell’Onu per i
rifugiati. Un elicottero da combattimento ha attaccato il barcone sul quale
erano stipati, colpendolo con razzi e mitraglia. Alla fine si sono contati 42
cadaveri. Ottanta superstiti, terrorizzati, sono stati recuperati in acqua, tra
i rottami del battello, dopo che l’elicottero aggressore si era allontanato, da
alcuni pescatori yemeniti. Molti sono feriti: 24 in modo grave. Tra le vittime,
tante donne e tanti bambini.
A dare notizia della
strage - avvenuta il 16 marzo, poco dopo il tramonto – è stato Joel Millman,
portavoce dell’Organizzazione Internazionale per l’Immigrazione (Oim). Le prime
informazioni parlavano di una trentina di vittime. Poi il bilancio di morte è
salito ad “almeno 42”, come ha precisato ai cronisti di Al Jazeera Ibrahim Ali Zeyad,, un marinaio che era sulla barca.
Teatro della carneficina, le acque del Mar Rosso al largo di Hodeidah, a poche
miglia dal Bab al Mandeb, lo stretto che immette nell’Oceano Indiano. Non è
chiaro se quel barcone fosse salpato proprio dalla zona di Hodeidah o più a sud, sulla costa del Golfo di
Aden, al di là del Bab al Mandeb. A bordo – ha precisato Mohamed al Alay, un
ufficiale della locale Guardia Costiera – erano saliti in più di 120: un
viaggio della speranza dallo Yemen al Sudan, dove quei profughi sarebbero stati
presumibilmente accolti in un campo gestito dall’Onu. Molti, quasi tutti, ha
confermato infatti William Sprindler, uno dei portavoce dell’Unhcr che operano in
Medio Oriente, erano già stati registrati come rifugiati proprio dopo essere
fuggiti dal conflitto somalo.
L’attacco – ha
ricostruito Al Jazeera – è avvenuto
quando la costa yemenita era ancora ben in vista. L’elicottero aggressore
ufficialmente non è stato identificato. Più fonti dicono, però, che era un Apache, un velivolo in grado di operare
sia di giorno che di notte, fabbricato in America dalla Boeing. C’è da credere,
dunque, che appartenga alla flotta aerea della coalizione a guida saudita
schierata contro gli Houti e sostenuta dagli Stati Uniti. Tanto più che Riyad e
i suoi alleati, come fa notare il quotidiano spagnolo El Diario, “hanno il controllo totale dello spazio aereo yemenita,
impedendo ai ribelli l’uso di aerei ed elicotteri”. Sta di fatto che l’Apache ha puntato subito la barca e l’ha
colpita a freddo, ritenendo magari che venisse da Hodeidah, il grosso porto commerciale
controllato dalle milizie sciite degli Houti, che nel 2014 hanno conquistato
Sana’a, la capitale, e gran parte del paese, scacciando il presidente Abd Rabbu
Mansour Hadi e costringendolo a riparare ad Aden, nell’estremo sud, sotto la
protezione dell’Arabia e del Qatar. Per la gente a bordo non c’è stato scampo.
Il perché di questa
aggressione assurda resta un mistero. Il Bab al Mandeb è una via di
comunicazione marittima tra le più importanti del mondo, strategica in
particolare per il petrolio. Le acque che lo circondano sono da sempre pattugliatissime,
per decine di miglia. Tanto più adesso, con la guerra in Yemen, grazie anche
alle basi militari concesse dall’Eritrea, presso Assab e Massawa, sulla sponda
africana del Mar Rosso, all’alleanza capeggiata dall’Arabia, la quale le
utilizza, oltre che per attaccare i ribelli houti, per operazioni aeree o
navali di controllo e vigilanza. Ogni movimento sospetto viene segnalato ed
eventualmente colpito. Ma c’è da chiedersi come sia stato possibile scambiare
una barca piena di rifugiati per un obiettivo militare.
Lo denuncia senza
mezzi termini anche l’Unhcr: “Siamo sgomenti per questo attacco contro civili
innocenti – ha dichiarato William Spindler ad Al Jazeera – Si tratta di persone che hanno sofferto moltissimo e
rischiato la vita per fuggire dalla Somalia. Persone che avevano cercato
sicurezza in Yemen, trovandovi invece una situazione diventata via via sempre
più pericolosa, a causa del conflitto in corso e della crisi umanitaria esplosa
in seguito alla carestia. Ecco, stavano tentando ancora di arrivare finalmente
da qualche altra parte in cerca di salvezza e invece hanno incontrato questa
tragica fine….”.
Un terribile errore?
Forse. Ma sarebbe l’ennesimo. L’ultimo di una catena lunghissima di attacchi che,
dal 2014 a oggi, si sono scatenati ripetutamente contro obiettivi civili,
indifesi e tutelati dalle convenzioni internazionali e spesso dalle bandiere
della Croce Rossa: scuole, campi profughi, mercati, acquedotti, moschee, ospedali
sia yemeniti che, in almeno tre occasioni, gestiti da Medici Senza Frontiere.
O, ancora, gruppi di persone riunite per cerimonie religiose, matrimoni o
addirittura funerali e persino bus civili, depositi di cibo, contadini e campi
coltivati, tanto da aver desertificato le campagne, impedendo le coltivazioni e
moltiplicando dunque gli effetti della siccità, la fame e la carestia. E’
eloquente, in proposito, la relazione di 51 pagine inviata nel gennaio 2016 da
una equipe di esperti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dalla quale
sembrerebbe emergere una sorta di “strategia del terrore”.
L’alleanza messa in
piedi da Riyad ha sempre negato, in queste circostanze, che si sia trattato di azioni
mirate. Ogni volta ha parlato di “errore” o, come si legge sempre più spesso
nei rapporti dei comandi militari, di “danni collaterali”. E nessuno l’ha mai
chiamata a renderne davvero conto. Neanche di fronte ai dossier con i quali,
per due anni di seguito (agosto 2015 e febbraio 2016), Human Rights Watch ha
segnalato l’uso frequente di “cluster munitions” (le micidiali bombe a grappolo
messe al bando nel 2008) contro obiettivi non militari. E neanche quando ci
sono state denunce esplicite, come nel caso degli ospedali di Medici Senza
frontiere, presi di mira nonostante le ampie, chiarissime comunicazioni
preventive e mantenuti sotto attacco, talvolta sino alla distruzione completa, senza
tener minimamente conto delle segnalazioni lanciate dai responsabili della Ong
fin dall’inizio dei raid aerei.
Proprio partendo da
episodi di questo genere, l’Alto Commissario per i diritti umani ha sollecitato
nel 2016 la nomina di una commissione internazionale indipendente d’inchiesta
sulle violazioni del diritto umanitario in Yemen, ma lo stesso Consiglio
dell’Onu per i diritti umani ha respinto la proposta. Gli Stati dell’Unione
Europea, che in gran parte hanno inizialmente sostenuto la richiesta, al
momento decisivo – hanno rilevato la Rete Disarmo e Amnesty – si sono tirati
indietro, senza neanche specificare i motivi di questo ripensamento. Non solo.
Pochi mesi prima, nel giugno 2016, le Nazioni Unite, per bocca del segretario
generale Ban Ki Moon, avevano dovuto ammettere di aver tolto la coalizione a
guida saudita in Yemen dalla “lista nera” dei responsabili di azioni di guerra
che hanno coinvolto bambini, in seguito alle forti pressioni dell’Arabia la
quale, definendo “crudelmente esagerato” quel censimento, minacciava di
tagliare i fondi per i programmi umanitari.
Un silenzio
assordante, in particolare, si è registrato da parte degli alleati o comunque
degli “amici” occidentali di Riyad. Gli Stati Uniti, innanzi tutto, che
garantiscono armi e supporto tecnico-logistico, inclusi servizi di intelligence,
alle forze schierate contro gli Houti. Ma anche l’Italia, la quale – come hanno
denunciato ancora una volta Amnesty International e la Rete Disarmo – ha inviato
alla Royal Saudi Air Force consistenti, ripetute forniture di bombe, poi
sganciate a pioggia pure su obiettivi civili. Si tratta delle Mk 83, ordigni da
460 chili prodotti dalla Rmw in Sardegna e il cui impiego in Yemen è stato
documentato da Human Rights Watch con inconfutabili prove fotografiche. Quei 42
profughi somali uccisi sul barcone affondato nel Mar Rosso, al largo di
Hodeidah, fuggivano anche da queste bombe.
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