venerdì 31 marzo 2017

Memorandum con la Libia: un patto di deportazione


di Emilio Drudi

Venti marzo 2017. Un gruppo di trafficanti di uomini dà l’assalto, al largo di Zuwara, a due gommoni carichi di profughi, per impadronirsi dei motori fuoribordo. Armi spianate, prepotenze, minacce: impossibile opporsi. I due battelli sono abbandonati alla deriva, a oltre dieci miglia dalla costa libica. Resteranno in balia del mare, ingovernabili, per più di un giorno. Quando finalmente vengono intercettati da una motovedetta e arrivano i soccorsi, tre donne sono ormai morte e tre giovani risultano dispersi.
Cinque marzo 2017. Un gruppo di profughi rifiuta di imbarcarsi dalla spiaggia di Sabratha: il mare è troppo mosso, appare evidente che il gommone su cui i trafficanti vogliono costringerli a partire non ce la può fare neanche a percorrere poche miglia. Ma i trafficanti non tollerano resistenze: puntano i mitra e fanno fuoco. Uccidono 22 ragazzi, abbandonandone poi i corpi in una boscaglia vicino alla spiaggia, in fondo a un terrapieno.
Due marzo 2017. Dall’ultimo rapporto del comando di polizia di Sabha, nel Fezzan, risulta che nel mese di gennaio 10 migranti sono stati uccisi. I corpi di tre delle vittime, in particolare, mostrano evidenti segni di torture e pestaggi feroci, sistematici: l’ipotesi più accreditata è che siano stati massacrati da una banda di sequestratori perché non potevano o non volevano pagare il riscatto.
Sono tre casi emblematici dell’inferno che vivono ogni giorno i profughi in Libia. E’ anche da questo inferno che scappano. Ma proprio a questo inferno rischia di riconsegnarli il memorandum sul controllo dell’immigrazione firmato il 2 febbraio dall’Italia con il Governo di alleanza nazionale (Gna) guidato da Fayez Serraj. “L’unico riconosciuto dall’Onu”, insistono il premier Paolo Gentiloni e il ministro dell’interno Marco Minniti. Solo che il Governo Serraj non riesce a far nulla per fermare tanto orrore. Non ci riesce perché, in realtà, è impopolare, non ha seguito tra la gente, non dispone di un esercito o di una polizia per affermare la propria autorità ma deve giovarsi di milizie di parte, soprattutto quelle di Misurata, e in definitiva, nonostante la copertura dell’Onu, è ritenuto illegittimo dalla maggioranza della popolazione: il frutto di una imposizione straniera, di tipo coloniale. Lo ha sancito anche l’Alta Corte di Tripoli, che ha definito nullo e privo di effetti l’accordo con Roma proprio perché il Gna, non avendo mai ottenuto il riconoscimento formale del Parlamento eletto di Tobruk, non ha alcun potere politico o legale e, dunque, non può sottoscrivere alcun trattato internazionale.
Agli occhi dell’Italia e dell’Unione Europea, però, questo governo così impopolare è comunque utile per alzare l’ennesima barriera dietro cui confinare i profughi e i migranti. Perché di questo si tratta. Basta scorrere le richieste formulate da Serraj a Roma per poter svolgere il compito di fermare i “viaggi della speranza” dalla Libia verso l’Europa, nuovo “gendarme dell’immigrazione” come ha fatto a suo tempo Gheddafi. E’ un elenco lunghissimo, come ha riferito Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera: 10 navi per la ricerca e il soccorso, 10 motovedette, 4 elicotteri, 24 gommoni, 10 ambulanze, 30 jeep, 15 automobili, 30 telefoni satellitari, mute da sub, binocoli diurni e notturni, bombole per ossigeno. L’equivalente di 800 milioni di euro, quasi un quarto dei 3,6 miliardi promessi dalla Ue, in due tranche, agli Stati Africani con gli accordi di Malta del novembre 2015. Una fornitura enorme, in grado di mettere in piedi una nuova flotta per la guardia costiera e attrezzare la polizia a terra, così da bloccare i barconi dei migranti prima che escano dalle acque territoriali libiche, riportandoli poi in Africa, e da blindare contemporaneamente i confini meridionali, in pieno deserto, impedendo persino di entrare nel paese e dunque di arrivare al Mediterraneo in cerca di un imbarco. Anzi, in aggiunta Minniti ha precisato che per i controlli a terra sono in cantiere accordi anche con sindaci e capi tribù tuareg del sud, nel Fezzan, così le maglie della rete attraverso cui filtrano i rifugiati saranno sempre più strette.
Ma che fine faranno i profughi intercettati? Si parla di campi di accoglienza, con tutte le garanzie di trattamento dignitoso e di tutela dei diritti umani, da aprire in Libia e soprattutto in Niger, il paese che dovrebbe diventare una sorta di grande hub di arrivo, concentrazione e smistamento del flussi migratori nel cuore dell’Africa. Ma garanzie come? Ovvero: chi potrà assicurare, in questi campi, una reale sicurezza, una vita dignitosa, il rispetto della volontà e della libertà dei profughi? In Libia ci sono già 25 centri a lungo definiti ipocritamente “di accoglienza” ma che sono per la maggior parte autentici lager, dove violenze, maltrattamenti, ricatti, estorsioni, lavoro schiavo, stupri, sono la vita quotidiana. Spesso con evidenti complicità con i trafficanti da parte della polizia e di funzionari statali. E’ una realtà dolorosa, evidenziata dai rapporti di Ong come Amnesty, Human Rights Watch, Medici Senza Frontiere e della stessa Commissione dell’Onu. C’è da chiedersi, allora, come sia possibile, in questo contesto, il miracolo di nuovi campi sicuri e dignitosi, dove magari poter presentare all’Unhcr la richiesta di asilo. Nessuno lo spiega: si confida semplicemente che il Governo di Tripoli possa organizzarsi per cambiare le cose. Ma come e in quanto tempo? Mistero. Né è pensabile che a proteggere questi pretesi nuovi campi possano essere militari e forze di polizia arrivati dall’Italia: tutti  in Libia, inclusi personaggi e gruppi alleati di Serraj, hanno dichiarato in più occasioni di considerare l’eventuale presenza di truppe straniere in Libia, a qualsiasi titolo, una invasione coloniale a cui si risponderà con le armi. Non per niente molti libici giudicano una “occupazione da parte dell’Italia” anche la presenza, a Misurata, dell’ospedale da campo e dei militari di scorta, inviati da Roma nel quadro dell’operazione “Ippocrate”, durante la battaglia di Sirte contro l’Isis.
Evidentemente, allora, per l’Italia e per la Ue, quello che conta è in realtà innalzare comunque un muro, il più alto possibile, per bloccare o rimandare i profughi in Africa loro malgrado, a qualsiasi costo, qualunque sia la sorte che li attende e a prescindere dalla loro volontà e dai loro diritti. Senza contare, tra l’altro, che ciascuno di questi accordi-barriera, come quello con Tripoli, rischia di rivelarsi, prima o poi, un’arma di ricatto, nei confronti dell’Europa, nelle mani degli Stati contraenti, spesso gestiti da governi di assai dubbia democrazia. E’ già accaduto con Gheddafi, che minacciava di aprire o chiudere i flussi dei migranti verso l’Italia in base alle circostanze e agli interessi che voleva perseguire. La stessa tecnica, all’inizio di quest’anno, è stata adottata dal Marocco. In polemica con la sentenza della Corte di Giustizia europea che ha dichiarato non applicabile all’ex Sahara Spagnolo, la regione dei saharawi invasa da anni, l’intesa commerciale firmata con Bruxelles, il Governo ha improvvisamente ridotto la vigilanza, prevista dal Processo di Rabat, intorno alle enclave spagnole di Ceuta e Melilla, facilitando, anzi di fatto quasi incoraggiando, l’assalto di centinaia di migranti subsahariani alle barriere che chiudono i confini. Ora è il turno della Turchia: proprio in questi giorni, in risposta ai contrasti sorti con l’Olanda, la Germania e la Danimarca, il presidente Erdogan e il ministro dell’interno Suleyman Soylu hanno ammonito di essere pronti ad annullare o ridimensionare il patto con cui, in cambio di 6 miliardi di euro, nel marzo 2016 si sono impegnati a fermare i flussi dei profughi verso la Grecia, minacciando, come primo atto, di scatenare in Europa un’ondata di almeno 15 mila persone al mese.
Ma tant’è: si punta sulla politica dei muri. Non una parola, infatti, è stata spesa, nel memorandum firmato a Roma il 2 febbraio o nel successivo incontro del 21 marzo, sempre a Roma, sulla possibilità di organizzare vie legali di immigrazione: canali umanitari, ad esempio, o magari una rete di ambasciate aperte dove poter presentare le richieste di asilo direttamente in Africa. Eppure è proprio questa delle “vie legali” l’unica concreta soluzione per combattere i trafficanti e per salvare vite umane, come rilevano tutte le Ong che operano “sul campo” e come dimostrano i canali aperti in collaborazione tra il gruppo di Sant’Egidio, la Cei e la Chiesa Valdese.
Il perché di questa chiusura totale forse è intuibile: organizzare “canali” per l’arrivo dei migranti significa cambiare radicalmente politica. Significa, in una parola, costruire ponti e non muri. Ma evidentemente non si ha intenzione di imboccare questa strada. Induce a crederlo anche il fatto che all’incontro del 21 marzo a Roma con Serraj e vari ministri europei, mancavano la Spagna e la Grecia, gli altri due grandi paesi mediterranei di sbarco. Quelli, cioè, con i quali si potrebbe costruire una strategia comune da sottoporre a Bruxelles. Una strategia, ad esempio, basata su due punti fondamentali: un sistema unico di asilo e accoglienza per l’intera Ue, con quote obbligatorie, applicato da tutti gli Stati dell’Unione; e poi, appunto, vie legali di immigrazione. Proprio come, in Spagna, stanno chiedendo strati sempre più larghi della popolazione e della società civile, specialmente in Catalogna, sotto la guida della Municipalità di Barcellona. Ma con Barcellona il Governo italiano non risulta che abbia “sprecato” neanche una telefonata.
Il punto è che a Roma si vuole insistere sui respingimenti e sulle espulsioni. Come si è fatto dal 2000 in poi. Anzi, anche peggio perché nella fase iniziale gli accordi di “contenimento” almeno venivano sottoposti al controllo e al voto del Parlamento, mentre ora si firmano memorandum tra ministri o addirittura patti di polizia, come quello sottoscritto il 3 agosto 2016 con il Sudan, bypassando Camera e Senato. Il tutto, vale la pena ripeterlo, a prescindere dalla volontà e dalla libertà dei profughi, configurando una possibile violazione dei diritti umani di cui prima o poi l’Italia dovrà rispondere. E’ quanto, in una intervista ad Alberto Sofia, del Fatto Quotidiano, sostiene, senza mezzi termini, il professor Antonio Maria Morone, docente di storia dell’Africa a Pavia, convinto che il nuovo memorandum con Tripoli non sia in realtà molto diverso dall’accordo stipulato fra Berlusconi e Gheddafi, quando i rifugiati finivano poi per essere torturati nelle carceri libiche. “L’Italia – ha spiegato  Morone – non ha interesse a tutelare i diritti dei migranti, ma solo a contenerli e, di fatto, a deportarli in altri paesi o in quello d’origine. Un giorno saremo chiamati a renderne conto”.        


Tratto da: Diritti e Frontiere

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