di Emilio Drudi
Respingimenti più
rapidi e facili nei confronti dei migranti, grazie alla cancellazione di un
grado di giudizio nelle “cause” sui ricorsi per le richieste di asilo negate e
le espulsioni; quadruplicazione del numero dei Cie, portati da 4/5 a 18, uno
per regione, per un totale di 1.800 posti; più fondi per attuare i rimpatri
forzati. Con il via libera arrivato dalla Camera, dopo quello del Senato, il
decreto Minniti è operativo: ci si avvia velocemente a quella moltiplicazione
degli allontanamenti coatti dei cosiddetti “stranieri irregolari” annunciata
quattro mesi fa, forti anche degli accordi raggiunti con una serie di Paesi
disponibili a “riprenderli” in Africa, anche a prescindere dalla loro
nazionalità.
E’ un ulteriore
passo verso l’attuazione completa del Processo di Khartoum, l’accordo
fortemente voluto dall’Italia e firmato a Roma il 28 novembre 2014 tra l’Unione
Europea e dieci Governi del versante orientale dell’Africa, con l’obiettivo –
rafforzato dai successivi trattati di Malta (novembre 2015), che prevedono
anche i rimpatri forzati dalla Ue – di esternalizzare il più a sud possibile i
confini della Fortezza Europa, dandone in gestione la sorveglianza agli Stati
africani contraenti, in cambio di milioni di euro, mascherati da “contributi
allo sviluppo”. Un ulteriore passo in avanti, cioè, verso la realizzazione di
quella barriera dove saranno altri a fare il lavoro sporco di bloccare i
profughi e i migranti al posto dell’Italia e dell’Europa, ignorandone la
volontà, la libertà, i diritti, la sorte stessa che li aspetta. E senza
preoccuparsi dei metodi usati per tenerli al di là di quel muro.
Già, i metodi e il
rispetto dei diritti. Un primo esempio concreto degli effetti del Processo di
Khartoum sulla sorte dei profughi è arrivato dal Sudan, uno degli Stati cardine
dell’accordo, dove negli ultimi mesi almeno 1.500 eritrei sono stati bloccati e
buttati in galera, in attesa di essere rimpatriati: riconsegnati, cioè, alla
dittatura dalla quale sono fuggiti, senza considerare che ad Asmara li aspetta
una galera ancora più dura, per espatrio clandestino o, peggio, come disertori,
essendo quasi tutti in età di leva, in base al servizio militare a vita
instaurato dal regime. Ed è solo l’inizio. Una dimostrazione più ampia di
quello che accadrà quando il programma funzionerà “a pieno regime”, la dà,
giorno per giorno, il Processo di Rabat, l’accordo raggiunto dall’Unione
Europea con 28 Stati del versante occidentale dell’Africa e di cui il Processo
di Khartoum è per molti versi una “filiazione”. Firmato nel 2006, dopo un periodo
di “rodaggio”, il piano Rabat è ormai diventato una barriera efficacissima,
come dimostra il numero di migranti che riescono a sbarcare in Spagna dal
Marocco: l’anno scorso appena 9.000 contro i 181.400 arrivati in Italia e i
quasi 182 mila della Grecia. Peccato che questo blocco – come denunciano da
tempo numerose Ong – sia “costruito” sulla pelle e sui diritti di profughi e
migranti, in una spirale di violenza, soprusi, torture, dove la polizia e le
milizie incaricate di vigilare sui confini sembrano avere in pratica mano
libera, senza che nessuno ne chieda conto.
L’ultimo dossier è
stato pubblicato in questi giorni, proprio mentre il decreto Minniti veniva
approvato. Ne è autore Alarm Phone e si basa, in sostanza, sul monitoraggio di
episodi accaduti in Marocco e in Algeria dal mese di dicembre 2016 alla fine di
marzo 2017. A scorrerne le pagine, ne emerge una escalation di repressione,
retate, arresti, deportazioni di massa. E non mancano le vittime: vite spezzate
di giovani colpevoli di aver inseguito un sogno di libertà.
Deportazioni di massa. I raid della polizia e le deportazioni si sono
moltiplicati in particolare tra la fine di novembre 2016 e il mese di febbraio
2017. Solo a Ziralda, nella provincia di Algeri, sono stati arrestati più di
1.500 migranti. Numerosi altri arresti sono segnalati in Marocco. Chi incappa
nelle retate non ha scampo: tra le persone che operatori di Alarm Phone sono
riusciti a contattare dopo l’espulsione forzata dall’Algeria, ad esempio,
alcuni avevano un regolare permesso di soggiorno. Parecchi sono minorenni e due
di questi, anzi, erano ospiti di un centro di protezione. Ma non c’è stato
nulla da fare: per tutti i fermati è scattata l’espulsione. Una evidente
espulsione di massa, decisa ed effettuata a prescindere dai diritti dei
profughi e dalle convenzioni internazionali, simile a quelle per cui alcuni
paesi europei, Italia inclusa, sono stati sanzionati in passato. Ma in questo
caso, appunto, formalmente l’Europa non c’entra: il “lavoro” sono stati altri a
svolgerlo.
In Marocco un’ondata
massiccia di arresti si è avuta tra il 19 e il 21 febbraio, dopo due tentativi
di superare in gruppo le barriere di filo spinato che blindano la linea di
confine dell’enclave spagnola di Ceuta. Secondo notizie giunte alla Ong da
collaboratori di Tangeri, più di cento fermati, inclusi alcuni feriti, in meno
di 48 ore, ma potrebbero essere anche di più. In ogni caso, i cento e passa
segnalati da Tangeri si trovano ancora in carcere: processati per direttissima,
sono stati condannati a pene variabili tra i 3 e i 6 mesi e trasferiti nella
prigione di Tetouan. “Ma nel processo – contesta Alarm Phone nel suo dossier –
non sono state garantite le procedure legali. Gli accusati non hanno avuto
alcuna possibilità di difendersi. Alcuni non hanno potuto leggere né i verbali
di arresto della polizia né altri documenti. Non si è provveduto a tradurre le
carte dall’arabo nella lingua degli imputati. E’ inaccettabile il modo in cui si
è arrivati alla condanna. Per di più i prigionieri hanno denunciato condizioni
di detenzione discriminatorie, senza la possibilità di ricevere visite e di
incontrare le organizzazioni umanitarie…”.
Luoghi e metodi di deportazione. Le deportazioni – contesta Alarm Phone –
vengono effettuate “in condizioni disumane”, con violenze e soprusi. Molti
migranti hanno anche lamentato che al momento del fermo si sono visti sequestrare
dalla polizia tutti gli effetti personali (cellulari, denaro, bagagli), che
nessuno, nella maggior parte dei casi, ha poi restituito. Non solo: una volta
al di là del confine, tanti sono stati abbandonati senza che avessero “nemmeno
il minimo necessario per sopravvivere, a cominciare dall’acqua e dal cibo”, poiché
pure le piccole riserve alimentari che avevano sono state sequestrate al
momento del fermo o della distruzione dei campi improvvisati nei quali, per lo
più, i profughi sono stati sorpresi. Quanto ai luoghi di destinazione dei
trasferimenti forzati, dall’Algeria “i migranti vengono deportati verso sud,
nel Sahara, al confine con il Niger e il Mali”. E’ qui che sarebbero finiti
quasi tutti i 1.500 arrestati a Ziralda. “In Marocco, invece – prosegue il
rapporto – le deportazioni sono indirizzate verso il confine con l’Algeria,
nella regione di Oujda (all’estremità
orientale: ndr) oppure verso il Sud del Paese”. Molti di quelli fermati
mentre tentavano di entrare nel territorio spagnolo di Ceuta, dopo essere stati
provvisoriamente condotti a Tangeri o a Castellejo dalle milizie ausiliarie
marocchine, sono stati trasferiti verso i centri di detenzione di Fes, Tiznit e
Kenitra, nel centro o nel sud del paese, in attesa dell’espulsione. Sempre con
metodi a dir poco bruschi. “Alcune persone contattate dopo le retate hanno
raccontato le violenze che hanno dovuto subire. Violenze confermate dalle
organizzazioni algerine per i diritti umani che si sono occupate del caso”,
rileva Alarm Phone, che poi aggiunge: “Più di venti organizzazioni umanitarie
nazionali e internazionali hanno denunciato pubblicamente questo tipo di
operazioni”.
Alarm Phone ha
seguito in particolare la vicenda di due gruppi di subsahariani: il primo di 47
e il secondo di 5 persone, raccogliendone le testimonianze. Entrambi i gruppi,
condotti di forza al di là della frontiera del Marocco, hanno raccontato di
essere rimasti abbandonati a se stessi, nella “terra di nessuno” tra il posto
di confine algerino e quello marocchino, per una decina di giorni, senz’acqua e
senza cibo. Sarebbero sopravvissuti, a quanto pare, soltanto grazie all’aiuto
di alcuni volontari. Il loro racconto, specifica la Ong, è stato confermato da
una serie di video e fotografie. Un trattamento inumano che non è stato
risparmiato neppure a una donna disabile. Sono tante, del resto, le
testimonianze drammatiche raccolte. Mouhamadou, 24 anni, originario della Costa
d’Avorio, ha denunciato di essere stato picchiato e addirittura frustato, tanto
da aver perso, per le violenze subite, l’uso parziale della mano sinistra.
Esseline, una ragazza ventiseienne del Camerun, scacciata dalle guardie di
frontiera algerine nonostante fosse in avanzato stato di gravidanza, dice di
aver perso il bambino a causa delle sofferenze e delle fatiche patite. Cedric,
appena sedicenne, anche lui proveniente dal Camerun, è stato costretto a
rimanere prigioniero in una baracca militare per tre giorni, dopo che gli erano
stati confiscati il bagaglio e tutti gli effetti personali.
Almeno 3 morti. Nel dossier vengono segnalati, infine, almeno tre
morti, vittime della ormai totale militarizzazione del confine tra Marocco e
Algeria. Lungo la linea di frontiera le autorità algerine hanno scavato una
trincea larga 3 metri e profonda dai 3 ai 4 metri. Sul lato opposto il Marocco
ha costruito un alto muro di recinzione, senza alcun varco. E’ qui – denuncia
Alarm Phone – che tra il dicembre 2016 e il febbraio 2017 ci sono stati tre
morti, oltre a diversi feriti, generalmente per fratture agli arti: persone
precipitate in fondo a questa trincea anti-migranti. Più volte le guardie di
frontiera sparano in aria per spaventare i profughi e costringerli ad
allontanarsi dalla linea di confine. E’ presumibile, secondo la ricostruzione
della Ong, che sia accaduto proprio questo: nella concitazione della fuga
alcuni devono essere caduti nel grosso fossato mentre tentavano di saltarlo,
rimanendo uccisi o feriti.
Al momento della
firma del Processo di Khartoum, così come dei trattati di Malta o, appena due
mesi fa, in occasione del memorandum con la Libia, il Governo italiano e
l’Unione Europea si sono affrettati a dichiarare che gli Stati ai quali è
affidata la vigilanza sui confini “esternalizzati” della Fortezza Europa, sono
e saranno chiamati a garantire la sicurezza, trattamenti umani, condizioni di vita
dignitose, il rispetto dei diritti dei migranti bloccati e respinti. “E’ un
impegno assoluto, improrogabile”, hanno assicurato. Lo avevano detto anche al
momento della firma del Processo di Rabat.
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