di Emilio Drudi
In pratica è una
confessione. La Marina libica, cercando di giustificarsi per un “incidente” con
la Guardia Costiera italiana, ha ammesso che le disposizioni per fermare le
barche dei migranti nel Mediterraneo prevedono anche di prenderle a raffiche di
mitra.
L’incidente è avvenuto
intorno al 23 maggio: una motovedetta libica ne ha intercettata una italiana,
la Cp 288 con base a Genova ma dislocata nel Canale di Sicilia, e le ha intimato
di fermarsi e spegnere le macchine. In acque internazionali e, dunque, senza
alcuna autorità per imporre un ordine del genere. Il nostro guardacoste
ovviamente non ha obbedito, dando anzi maggior forza ai motori. Quello di
Tripoli ha cercato di inseguirlo e poi, non riuscendo a raggiungerlo, ha aperto
il fuoco: raffiche di proiettili non in aria, a scopo intimidatorio, ma sparate
basse, per colpire, a pelo d’acqua e ad altezza dello scafo. E, in effetti, la Cp
288 è stata colpita, nella parte destra della poppa. Solo per caso non ci sono
stati feriti.
Il comando della Guardia
Costiera a Roma non ha fatto parola dell’incidente ma deve quanto meno aver
inviato una nota di protesta a Tripoli. Un paio di giorni dopo sono arrivate le
scuse, asserendo che si era trattato di un errore. L’equipaggio libico, cioè,
avrebbe scambiato la motovedetta italiana per un barcone di migranti, magari
con dei trafficanti a bordo, e così, vedendola allontanarsi, ha fatto fuoco.
Come a dire: “Non volevamo colpire voi ma i migranti”. Perché deve essere
considerato lecito, anzi, doveroso, sparare su una barca di migranti,
nonostante si tratti sempre di natanti fatiscenti, autentiche carrette del
mare, assolutamente disarmate e innocue. Per dirla in modo ancora più
esplicito, evidentemente c’è l’ordine di fermare con ogni mezzo i battelli dei
disperati in fuga da guerra e fame: anche a raffiche di mitraglia e se poi
qualcuno resta ferito o ucciso, pazienza…
E’ la conferma di quell’uso
estremo della forza, da parte della Marina di Tripoli, denunciato a più riprese
dalle Ong nelle ultime settimane. Uso estremo che mette a rischio sia la vita
dei migranti che dovrebbero essere portati in salvo, sia quella degli uomini
delle Ong impegnati nel Canale di Sicilia, quelli sì, a salvare migliaia di vite
umane. Il caso più clamoroso, prima dei colpi esplosi contro la Cp 288, è stata
la sparatoria raccontata e documentata dalla Ong tedesca Jugend Rettet, con
tanto di foto di militari libici con i mitra spianati per minacciare i profughi
ammassati su un gommone: una vicenda poi confermata dalla testimonianza di
Medici Senza Frontiere e di Sos Mediterranee, presenti in quel tratto di mare
con la nave Aquarius. Meno di due
settimane prima, invece, c’era stato lo speronamento sfiorato della nave di Sea
Watch, ad opera di una motovedetta, per impedirle di raggiungere il battello di
cui stava iniziando il soccorso, sempre in acque internazionali, dopo aver
comunicato l’operazione alla centrale di coordinamento romana della Guardia
Costiera.
Non solo. Andando indietro
nel tempo, non mancano altri gravi episodi: veri e propri assalti contro unità
di soccorso o natanti carichi di profughi. Hanno destato una enorme sensazione,
ad esempio, le raffiche sparate all’altezza del posto di comando e poi l’abbordaggio
subito dalla Aquarius, di Medici
Senza Frontiere, l’estate scorsa; oppure l’attacco che ha portato al naufragio
di un gommone, con decine tra morti e dispersi, nell’ottobre 2016, di fronte
agli occhi dell’equipaggio della nave Sea
Watch 2, impossibilitato a intervenire, al largo di Sabratha. Per non dire
del barcone stipato di famiglie siriane, andato a picco nell’ottobre del 2013,
una settimana dopo la tragedia di Lampedusa, proprio per i danni provocati dai
proiettili allo scafo, sotto la linea di galleggiamento: una delle tragedie più
gravi avvenute nel Mediterraneo, con centinaia di vittime, abbandonate a morire
in mare perché per ore nessuno ha deciso, tra Italia e Malta, chi doveva farsi
carico dei soccorsi, tanto che ora è in corso una inchiesta per omicidio
plurimo, su iniziativa della Procura di Agrigento.
All’indomani dei nuovi
accordi tra Italia e Libia, che fanno della Guardia Costiera di Tripoli il
gendarme a pagamento contro l’immigrazione nel Mediterraneo, si è detto che
episodi come la sparatoria subita dalla Aquarius
e dal barcone dei rifugiati siriani o operazioni violente come quella segnalata
dalla Sea Watch 2 di fronte a
Sabratha, non si sarebbero più verificati, grazie alle rigide “regole
d’ingaggio” dettate alla Marina libica dall’Italia e dall’Europa e grazie al
nuovo addestramento della Guardia Costiera di Tripoli, affidato proprio
all’Italia. Federica Mogherini, commissario Ue per la politica estera, lo ha
ribadito anche dopo le ultime, pesanti denunce di Medici Senza Frontiere, Sos
Mediterranee e Jugend Rettet: “Abbiamo raccomandato alla Marina libica – ha
assicurato – di attenersi ai più alti standard di rispetto dei diritti umani”.
L’incidente che ha coinvolto la Cp 288 italiana dimostra in quale
considerazione vengano tenute queste raccomandazioni: sparare ad alzo zero
resta la norma, sia in mare da parte dei militari imbarcati sui guardacoste,
sia – come hanno raccontato numerosi profughi – a terra, da parte della polizia
o delle varie milizie libiche, lungo la linea di confine nel Sahara, nei posti
di blocco, nei centri di detenzione. Senza contare, a proposito delle
operazioni nel Mediterraneo, che la Guardia Costiera, pur facendo capo
formalmente al Governo di Tripoli, è tutt’altro che una organizzazione compatta
e soggetta a un reale comando centrale. Non solo: inchieste giornalistiche
hanno evidenziato che i comandanti di diversi distaccamenti dislocati nei
singoli porti si sarebbero creati una sorta di potentato personale, agendo “in
proprio” o quanto meno con un largo margine di “indipendenza”, in base al clan
o alla tribù di appartenenza. Qualcuno, anzi, è sospettato di essere sul libro
paga o comunque in collegamento con gruppi di trafficanti, per cui agirebbe in modo
da contrastare solo il “mercato di uomini” o il contrabbando di petrolio
gestiti da certi clan, lasciando campo libero ai clan “amici” o alleati.
Eppure è a questa Guardia
Costiera e, più in generale, a questo sistema di sicurezza che l’Europa e
l’Italia hanno affidato il compito di bloccare i migranti in Africa, fornendo
navi, elicotteri, mezzi blindati e fuoristrada, sistemi elettronici di
controllo, armi, finanziamenti. Tutto quello che vogliono, insomma, purché svolgano
il compito di “difendere” dai migranti i confini della Fortezza Europa.
L’ultima conferma è venuta dal G-7 di Taormina, che ha avallato in pieno la
politica dei muri e dei respingimenti ad ogni costo. Anzi, l’uso delle armi per
fermare i profughi in mare aperto, provato dalla sparatoria subita persino da
un guardacoste italiano, non solo non ha avuto strascichi ma, forte di questo
“silenzio” interpretabile come un sostanziale via libera, la Marina libica, a
proiettili ancora “caldi”, ha addirittura chiesto all’Italia forniture maggiori
di quelle programmate con il memorandum firmato a Roma il 2 febbraio,
sollecitando l’invio di pezzi di ricambio, mezzi tecnici e assistenza per la
manutenzione e la piena efficienza della flotta di 10 motovedette che gli è
stata consegnata. Come dire, una collaborazione totale, nel contesto di una
attività che – secondo diversi osservatori – già si svolge ormai sotto il
coordinamento di Roma.
Si tratta, oltre tutto, di
forniture che valgono milioni di euro. Ma sono anni, ormai, che i finanziamenti
per esternalizzare le frontiere europee, spostandole sempre più a sud e
affidandone la vigilanza ad una serie di Stati africani, vengono trovati con
una specie di gioco di prestigio, attingendo magari ai fondi per la
cooperazione e lo sviluppo dell’Africa. E’ già accaduto nel recente passato, ad
esempio, con il Sudan e l’Eritrea, si è ripetuto negli ultimi mesi con la Libia
e, proprio in questi giorni, con il Niger, al quale sono stati destinati 610
milioni da parte dell’Unione Europea e 50 dall’Italia, con il mandato di
sigillare le frontiere settentrionali, varcate negli ultimi anni da centinaia
di migliaia di migranti diretti verso i porti d’imbarco a ovest di Tripoli.
Cosa c’entri con lo sviluppo il lavoro sporco di blindare la Fortezza Europa è
difficile capirlo. Il corto circuito è evidente: si dice che i fondi per la
cooperazione servono a creare le condizioni per cui i profughi non debbano
essere più costretti ad abbandonare il proprio paese – ad “aiutarli in Africa”,
per usare uno slogan di moda – ma poi si tagliano proprio questi fondi per
armare le forze di sicurezza dei paesi di transito o, peggio, di Stati come
l’Eritrea, il Sudan, l’Egitto, la Nigeria… Gli stessi Stati, cioè, dai quali i
migranti sono costretti a fuggire. Con la finzione che sarebbero
improvvisamente diventati “sicuri”.
Tratto da: Diritti e Frontiere
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