di Emilio Drudi
Nel week end tra il 15 e il
17 settembre sono arrivati in Italia dalla Libia più di 1.800 migranti su una
quindicina di gommoni. Senza contare il flusso crescente di “barche fantasma”,
pescherecci di varie dimensioni che, partendo dalla Tunisia, approdano in
Sicilia, soprattutto sulle coste dell’Agrigentino. Dopo giorni di sbarchi in
calo e di continue, “trionfanti” notizie di blocchi effettuati dalla Guardia
Costiera libica lungo le coste africane, questo improvviso exploit di sbarchi
ha destato non poca sorpresa, contraddicendo almeno in parte le dichiarazioni
del Governo italiano sull’efficacia e sulla tenuta dei “muri” eretti nel
Mediterraneo e nel Sahara con gli ultimi accordi stipulati da Roma con Tripoli.
Non a caso, questo degli sbarchi, è stato uno dei temi guida del dibattito
politico e del notiziario dei media nel fine settimana.
In realtà, non sembra ci sia
molto da stupirsi. Innanzi tutto perché, di fronte a un problema come quello
dei flussi migratori in corso, alzare muri non serve a nulla. La fuga per la
vita di migliaia di persone, costrette ad abbandonare il proprio paese da
condizioni di crisi estreme, non si ferma costruendo barriere. In qualche modo
chi fugge riesce a passare: o forzando i blocchi o trovando altre vie, come
dimostrano il forte incremento degli arrivi in Spagna e in Grecia o la nuova
rotta che dalla Tunisia punta sul litorale di Agrigento e quella che dalla
Turchia arriva in Romania o in Bulgaria
attraverso il Mar Nero. Le barriere, semmai, fanno aumentare le morti e le
sofferenze, moltiplicando il numero delle vittime. Nel caso specifico della
Libia, poi, quello eretto accordandosi con Tripoli è un muro particolarmente
poroso e incerto: il Governo di Alleanza Nazionale (Gna), benché riconosciuto
dall’Onu e dalla comunità occidentale, è una entità debole, contestata in gran
parte del paese, non in grado di esercitare il controllo nemmeno sul territorio
della sola Tripolitania, combattuta dal governo rivale di Tobruk, da quello
islamico deposto con l’insediamento del presidente Serraj nel marzo 2016 ma
tutt’altro che disposto ad andarsene e osteggiata anche da una serie di
potentati locali o tribali.
Il grande afflusso di
profughi verso l’Italia registrato tra il 15 e il 17 settembre va calato
appunto in questo contesto. Per capirne di più vale la pena riflettere su
alcuni avvenimenti registrati in Libia pochi giorni prima o durante lo stesso
week end degli sbarchi.
– Sei settembre.
Il ministro italiano dell’interno, Marco Minniti, probabilmente anche sulla
scia del confronto fra Tripoli e Tobruk promosso a Parigi dal presidente
Emmanuel Macron, incontra in visita ufficiale a Bengasi e invita formalmente a
Roma per il 26 settembre, il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Libia,
capo dell’esercito nazionale, sostenuto da Russia, Egitto, Arabia, Emirati
Arabi e dalla stessa Francia. Tripoli mostra un certo “fastidio” per questa
iniziativa italiana, che indubbiamente ne riduce l’autorità, ma non protesta
ufficialmente. Al suo posto protesta il Consiglio Militare di Sabratha, una
delle poche forze armate organizzate su cui può contare Serraj, che condanna
senza mezzi termini l’invito in Italia fatto ad Haftar quasi come a un capo di
Stato, contestando che l’iniziativa è stata presa proprio subito dopo che il
Governo di Tripoli ha nominato un nuovo comandante dell’esercito e ricordando,
tra l’altro, che la Corte Penale Internazionale ha sollecitato ripetutamente
l’arresto per crimini di guerra di uno dei principali collaboratori del
generale. Una presa di posizione dura, rivolta a tutta la comunità
internazionale: “Chiediamo – ha detto un portavoce del Consiglio, secondo
quanto riferisce il Libya Observer – che tutti gli Stati blocchino ogni
iniziativa che possa in qualche modo legittimare coloro che perseguono
obiettivi politici attraverso un’azione militare”. E’ palese il riferimento ad
Haftar e alle operazioni che stanno allargando il controllo della Libia da
parte dell’esercito di Tobruk.
– Diciassette settembre. Il premier di Tobruk Abdullah al Thinni, chiede alla
comunità internazionale di riconoscere la legittimità del suo governo, dando
seguito in un certo senso agli accordi politici sottoscritti nel 2015, sotto
l’egida dell’Onu, prima dell’insediamento di Serraj. “Il nostro esecutivo,
benché provvisorio – dichiara al Thinni in una intervista rilasciata
all’agenzia France Presse – è nato da una consultazione elettorale e
rappresenta tutte e tre le regioni del paese (Tripolitania, Cirenaica e
Fezzan), tutte le città e tutte le regioni. Il nostro esercito controlla il 90
per cento del territorio libico. La comunità internazionale deve rispettare la
volontà del popolo…”. Può essere magari solo un caso, ma questa dichiarazione è
arrivata all’indomani dell’ottantaseiesimo anniversario dell’esecuzione di Omar
al Mukhtar, l’eroe della resistenza libica contro gli italiani all’inizio degli
anni 30 del 1900, celebrato con particolare partecipazione in Cirenaica, il
“cuore” della lotta antri coloniale. E il giorno dopo l’Egitto ha offerto la
sua totale disponibilità a rafforzare e
riorganizzare l’esercito di Tobruk guidato da Haftar. Non solo: il 26
settembre è previsto a Tunisi il primo di una serie di incontri per modificare
l’accordo firmato il 17 dicembre 2015 a Skhirat, in Marocco, che ha portato al
potere Serraj e che è stato sempre contestato dal Parlamento di Tobruk.
– Diciassette settembre. Nel corso di violenti combattimenti, condotti anche
con armi pesanti e blindati, viene ucciso a Sabratha Ahmad Dabbashi, detto “Ammou”
(lo zio), noto per essere stato uno dei principali “baroni” del traffico di migranti
in Libia, in grado di controllare decine di chilometri di litorale, a ovest di
Tripoli. Gli scontri hanno visto contrapporsi i miliziani di Dabbashi e i
soldati della Operation Room Against Daesh, un reparto costituito nel febbraio
2016 per contrastare l’avanzata dell’Isis e diventato poi una forza stabile,
agli ordini del Consiglio Militare. Con le truppe di Dabbashi si è schierata
anche la Brigata 48, guidata da Mehemmed, il fratello più giovane, e implicata
a sua volta nel traffico di migranti.
Potrebbe sembrare un
“normale” scontro tra milizie fuorilegge e forze di sicurezza fedeli al
Governo. Nelle ultime settimane, però, il nome di Dabbashi è venuto fuori nella
lista dei “signori” del mercato di esseri umani che, secondo una inchiesta
della France Presse, si sono riconvertiti alla lotta contro l’immigrazione
clandestina, dopo un danaroso accordo con l’Italia. Di “spartizione”, tra ex
trafficanti riciclati, dei fondi concessi a Tripoli dall’Italia per fermare le
partenze dei migranti, del resto, hanno parlato, a fine agosto, anche la
Reuters e l’Associated Press. Il ministro Marco Minniti, a nome dell’intero Governo,
ha negato con decisione che l’Italia abbia mai trattato direttamente o
indirettamente con i trafficanti, ma la France Presse non ha smentito i suoi
servizi. Allora, se quanto ha scritto l’agenzia di stampa francese ha
fondamento, sarebbe stato ucciso uno dei principali protagonisti del presunto
patto: uno dei “boss” che si sarebbero impegnati, dietro compenso, a bloccare i
migranti in Africa anziché imbarcali verso l’Europa. E a farlo fuori sono stati
militari fedeli al governo di Tripoli, quello ufficialmente riconosciuto da
Roma. Così non manca chi vede in questo episodio una sorta di ammonimento
rivolto sia allo stesso Serraj (che si è trincerato dietro un rigido “no
comment” quando la Reuters ha fatto uscire le prime notizie), perché non
“ricicli” certi oscuri centri di potere, pur di avere il controllo nominale del
territorio di Sabratha, sul quale sta puntando anche il generale Haftar; sia
all’Italia, perché si limiti a rapporti con l’esecutivo “legittimo”, lasciando
perdere eventuali, presunti accordi, anche magari indiretti, con i capi tribali
o, peggio, con trafficanti più o meno ex.
Ecco, il grosso flusso di
migranti registrato tra il 15 e il 17 settembre si è verificato in concomitanza
con questi episodi. Certamente è legato al fatto che, nel caos in cui versa
ormai da anni la Libia, nessuno al momento è davvero in grado di controllare tutte
le coste e l’intero paese e che comunque bisogna fare i conti con una serie di
potentati e poteri più o meno ampi ma fortemente radicati. Ci sono tuttavia
abbastanza elementi anche per sospettare che, come è già accaduto più volte in
passato fin dai tempi di Gheddafi, sia tuttora in vigore la vecchia “tecnica” di
aprire o chiudere i flussi dei migranti come arma di ricatto. Un ricatto al
quale l’Italia e l’Europa si sono esposte nel momento stesso che hanno
associato la Libia al Processo di Khartoum nel novembre 2014 e firmato i patti
che ne sono seguiti, a cominciare dal memorandum entrato in vigore il 2
febbraio scorso a Roma. Il punto è che a rimanere incastrati in questo gioco
delle parti sono innanzi tutto i profughi, la parte più debole. Non a caso nei
primi nove mesi del 2017, smentendo chi sosteneva che bloccando le partenze dall’Africa
ci sarebbero stati meno morti, il numero delle vittime in rapporto a quello
degli sbarchi è decisamente aumentato rispetto al 2016: secondo gli ultimi
rilevamenti, si è saliti a un migrante morto ogni 48 arrivati fino al 20
settembre contro un morto ogni 67/68 nell’intero anno passato.
Tratto da: Tempi Moderni