mercoledì 27 settembre 2017

I migranti come arma di ricatto tra lotte di potere, ritorsioni e nuovi equilibri in Libia. E i morti aumentano


di Emilio Drudi

Nel week end tra il 15 e il 17 settembre sono arrivati in Italia dalla Libia più di 1.800 migranti su una quindicina di gommoni. Senza contare il flusso crescente di “barche fantasma”, pescherecci di varie dimensioni che, partendo dalla Tunisia, approdano in Sicilia, soprattutto sulle coste dell’Agrigentino. Dopo giorni di sbarchi in calo e di continue, “trionfanti” notizie di blocchi effettuati dalla Guardia Costiera libica lungo le coste africane, questo improvviso exploit di sbarchi ha destato non poca sorpresa, contraddicendo almeno in parte le dichiarazioni del Governo italiano sull’efficacia e sulla tenuta dei “muri” eretti nel Mediterraneo e nel Sahara con gli ultimi accordi stipulati da Roma con Tripoli. Non a caso, questo degli sbarchi, è stato uno dei temi guida del dibattito politico e del notiziario dei media nel fine settimana.
In realtà, non sembra ci sia molto da stupirsi. Innanzi tutto perché, di fronte a un problema come quello dei flussi migratori in corso, alzare muri non serve a nulla. La fuga per la vita di migliaia di persone, costrette ad abbandonare il proprio paese da condizioni di crisi estreme, non si ferma costruendo barriere. In qualche modo chi fugge riesce a passare: o forzando i blocchi o trovando altre vie, come dimostrano il forte incremento degli arrivi in Spagna e in Grecia o la nuova rotta che dalla Tunisia punta sul litorale di Agrigento e quella che dalla Turchia arriva in  Romania o in Bulgaria attraverso il Mar Nero. Le barriere, semmai, fanno aumentare le morti e le sofferenze, moltiplicando il numero delle vittime. Nel caso specifico della Libia, poi, quello eretto accordandosi con Tripoli è un muro particolarmente poroso e incerto: il Governo di Alleanza Nazionale (Gna), benché riconosciuto dall’Onu e dalla comunità occidentale, è una entità debole, contestata in gran parte del paese, non in grado di esercitare il controllo nemmeno sul territorio della sola Tripolitania, combattuta dal governo rivale di Tobruk, da quello islamico deposto con l’insediamento del presidente Serraj nel marzo 2016 ma tutt’altro che disposto ad andarsene e osteggiata anche da una serie di potentati locali o tribali.
Il grande afflusso di profughi verso l’Italia registrato tra il 15 e il 17 settembre va calato appunto in questo contesto. Per capirne di più vale la pena riflettere su alcuni avvenimenti registrati in Libia pochi giorni prima o durante lo stesso week end degli sbarchi.
– Sei settembre. Il ministro italiano dell’interno, Marco Minniti, probabilmente anche sulla scia del confronto fra Tripoli e Tobruk promosso a Parigi dal presidente Emmanuel Macron, incontra in visita ufficiale a Bengasi e invita formalmente a Roma per il 26 settembre, il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Libia, capo dell’esercito nazionale, sostenuto da Russia, Egitto, Arabia, Emirati Arabi e dalla stessa Francia. Tripoli mostra un certo “fastidio” per questa iniziativa italiana, che indubbiamente ne riduce l’autorità, ma non protesta ufficialmente. Al suo posto protesta il Consiglio Militare di Sabratha, una delle poche forze armate organizzate su cui può contare Serraj, che condanna senza mezzi termini l’invito in Italia fatto ad Haftar quasi come a un capo di Stato, contestando che l’iniziativa è stata presa proprio subito dopo che il Governo di Tripoli ha nominato un nuovo comandante dell’esercito e ricordando, tra l’altro, che la Corte Penale Internazionale ha sollecitato ripetutamente l’arresto per crimini di guerra di uno dei principali collaboratori del generale. Una presa di posizione dura, rivolta a tutta la comunità internazionale: “Chiediamo – ha detto un portavoce del Consiglio, secondo quanto riferisce il Libya Observer – che tutti gli Stati blocchino ogni iniziativa che possa in qualche modo legittimare coloro che perseguono obiettivi politici attraverso un’azione militare”. E’ palese il riferimento ad Haftar e alle operazioni che stanno allargando il controllo della Libia da parte dell’esercito di Tobruk.  
– Diciassette settembre. Il premier di Tobruk Abdullah al Thinni, chiede alla comunità internazionale di riconoscere la legittimità del suo governo, dando seguito in un certo senso agli accordi politici sottoscritti nel 2015, sotto l’egida dell’Onu, prima dell’insediamento di Serraj. “Il nostro esecutivo, benché provvisorio – dichiara al Thinni in una intervista rilasciata all’agenzia France Presse – è nato da una consultazione elettorale e rappresenta tutte e tre le regioni del paese (Tripolitania, Cirenaica e Fezzan), tutte le città e tutte le regioni. Il nostro esercito controlla il 90 per cento del territorio libico. La comunità internazionale deve rispettare la volontà del popolo…”. Può essere magari solo un caso, ma questa dichiarazione è arrivata all’indomani dell’ottantaseiesimo anniversario dell’esecuzione di Omar al Mukhtar, l’eroe della resistenza libica contro gli italiani all’inizio degli anni 30 del 1900, celebrato con particolare partecipazione in Cirenaica, il “cuore” della lotta antri coloniale. E il giorno dopo l’Egitto ha offerto la sua totale disponibilità a rafforzare e  riorganizzare l’esercito di Tobruk guidato da Haftar. Non solo: il 26 settembre è previsto a Tunisi il primo di una serie di incontri per modificare l’accordo firmato il 17 dicembre 2015 a Skhirat, in Marocco, che ha portato al potere Serraj e che è stato sempre contestato dal Parlamento di Tobruk.
– Diciassette settembre. Nel corso di violenti combattimenti, condotti anche con armi pesanti e blindati, viene ucciso a Sabratha Ahmad Dabbashi, detto “Ammou” (lo zio), noto per essere stato uno dei principali “baroni” del traffico di migranti in Libia, in grado di controllare decine di chilometri di litorale, a ovest di Tripoli. Gli scontri hanno visto contrapporsi i miliziani di Dabbashi e i soldati della Operation Room Against Daesh, un reparto costituito nel febbraio 2016 per contrastare l’avanzata dell’Isis e diventato poi una forza stabile, agli ordini del Consiglio Militare. Con le truppe di Dabbashi si è schierata anche la Brigata 48, guidata da Mehemmed, il fratello più giovane, e implicata a sua volta nel traffico di migranti.
Potrebbe sembrare un “normale” scontro tra milizie fuorilegge e forze di sicurezza fedeli al Governo. Nelle ultime settimane, però, il nome di Dabbashi è venuto fuori nella lista dei “signori” del mercato di esseri umani che, secondo una inchiesta della France Presse, si sono riconvertiti alla lotta contro l’immigrazione clandestina, dopo un danaroso accordo con l’Italia. Di “spartizione”, tra ex trafficanti riciclati, dei fondi concessi a Tripoli dall’Italia per fermare le partenze dei migranti, del resto, hanno parlato, a fine agosto, anche la Reuters e l’Associated Press. Il ministro Marco Minniti, a nome dell’intero Governo, ha negato con decisione che l’Italia abbia mai trattato direttamente o indirettamente con i trafficanti, ma la France Presse non ha smentito i suoi servizi. Allora, se quanto ha scritto l’agenzia di stampa francese ha fondamento, sarebbe stato ucciso uno dei principali protagonisti del presunto patto: uno dei “boss” che si sarebbero impegnati, dietro compenso, a bloccare i migranti in Africa anziché imbarcali verso l’Europa. E a farlo fuori sono stati militari fedeli al governo di Tripoli, quello ufficialmente riconosciuto da Roma. Così non manca chi vede in questo episodio una sorta di ammonimento rivolto sia allo stesso Serraj (che si è trincerato dietro un rigido “no comment” quando la Reuters ha fatto uscire le prime notizie), perché non “ricicli” certi oscuri centri di potere, pur di avere il controllo nominale del territorio di Sabratha, sul quale sta puntando anche il generale Haftar; sia all’Italia, perché si limiti a rapporti con l’esecutivo “legittimo”, lasciando perdere eventuali, presunti accordi, anche magari indiretti, con i capi tribali o, peggio, con trafficanti più o meno ex.
Ecco, il grosso flusso di migranti registrato tra il 15 e il 17 settembre si è verificato in concomitanza con questi episodi. Certamente è legato al fatto che, nel caos in cui versa ormai da anni la Libia, nessuno al momento è davvero in grado di controllare tutte le coste e l’intero paese e che comunque bisogna fare i conti con una serie di potentati e poteri più o meno ampi ma fortemente radicati. Ci sono tuttavia abbastanza elementi anche per sospettare che, come è già accaduto più volte in passato fin dai tempi di Gheddafi, sia tuttora in vigore la vecchia “tecnica” di aprire o chiudere i flussi dei migranti come arma di ricatto. Un ricatto al quale l’Italia e l’Europa si sono esposte nel momento stesso che hanno associato la Libia al Processo di Khartoum nel novembre 2014 e firmato i patti che ne sono seguiti, a cominciare dal memorandum entrato in vigore il 2 febbraio scorso a Roma. Il punto è che a rimanere incastrati in questo gioco delle parti sono innanzi tutto i profughi, la parte più debole. Non a caso nei primi nove mesi del 2017, smentendo chi sosteneva che bloccando le partenze dall’Africa ci sarebbero stati meno morti, il numero delle vittime in rapporto a quello degli sbarchi è decisamente aumentato rispetto al 2016: secondo gli ultimi rilevamenti, si è saliti a un migrante morto ogni 48 arrivati fino al 20 settembre contro un morto ogni 67/68 nell’intero anno passato.

Tratto da: Tempi Moderni   

      

martedì 5 settembre 2017

Migranti, un complice coro di sì alla politica italiana dalla Ue. Anche se uccide la democrazia


di Emilio Drudi

Il vertice Ue di Parigi di fine agosto ha approvato in pieno la politica italiana sul “blocco dei migranti”. Il presidente francese Emmanuel Macron si è spinto ad affermare che gli accordi tra Roma e la Libia volti a impedire altri sbarchi in Europa vanno presi a modello. Giudizi analoghi sono venuti dal vicepresidente della commissione europea Frans Timmerman in occasione del Forum di Cernobbio, una settimana dopo. Era prevedibile. Parigi ha rappresentato il sigillo finale per il programma di respingimento inaugurato dall’Unione Europea oltre dieci anni fa ed attuato in più fasi, con l’obiettivo di esternalizzare i confini della Fortezza Europa, spostandoli il più a sud possibile e affidandone la custodia a Stati terzi, in Africa o nel Medio Oriente.
La prima fase è stato il Processo di Rabat, firmato dalla Ue e da 27 Governi del versante occidentale dell’Africa nel 2006 ed ormai entrato pienamente a regime. E’ l’accordo che ha praticamente chiuso la rotta del Mediterraneo occidentale, dal Marocco verso la Spagna, dirottando i flussi dei migranti verso altre vie di fuga. La seconda tappa si è concretizzata grazie all’intesa sottoscritta con la Turchia nel marzo 2016. Sulla scia dei trattati di Malta (novembre 2015), che prevedono di fermare i profughi in mare o prima dell’imbarco e di rimandare indietro quelli che sono riusciti ad arrivare in Europa, Ankara, in cambio di 6 miliardi di euro, ha sbarrato il Mediterraneo Orientale, la via più battuta nel 2015, con circa 850 mila arrivi in Grecia. Rimaneva aperta, a questo punto, solo la rotta del Mediterraneo Centrale, dalla Libia e dall’Egitto verso l’Italia. Ora si è chiusa anche questa, attuando in sostanza il Processo di Khartoum, l’accordo simile al Processo di Rabat che, fortemente voluto dall’Italia e sottoscritto nel novembre 2014, è entrato lentamente ma progressivamente a regime grazie a tutta una serie di patti bilaterali stretti tra l’Italia e vari Stati africani: l’atto conclusivo, quello che ha sancito il blocco definitivo anche  di questa via di fuga, è stato il memorandum firmato con la Libia di Fayez Serraj il 2 febbraio scorso. Non a caso, insieme a Francia, Germania, Spagna e Italia, al vertice di Parigi c’erano rappresentanti della Libia, del Niger e del Ciad, gli Stati ai quali è appaltato in concreto il compito di fermare i richiedenti asilo prima ancora che arrivino alle sponde del Mediterraneo.
La giustificazione addotta da Parigi, Berlino, Madrid e Roma è che si sarebbe di fronte a una autentica “invasione” che l’Europa non è in grado di sostenere: verranno accolti – si è detto – soltanto coloro che fuggono da guerra e persecuzioni mentre le porte dovranno restare chiuse per i “migranti economici”. A leggere i dati senza pregiudizi, però, non si profila alcuna invasione. Quest’anno, fino al 31 agosto, sono arrivati in Europa 129.446 migranti, pari allo 0,02 per cento della popolazione dell’intera Ue. La maggior parte, poco più di 98 mila, sono sbarcati in Italia ma si tratta ugualmente di una cifra più che sostenibile (lo 0,16 per cento della popolazione italiana) e facilmente gestibile con un adeguato sistema di accoglienza, sia su base nazionale che europea. E’ chiaro, insomma, che parlare di “invasione” non ha senso. A meno che non si voglia alimentare un clima isterico di allarme.
Del tutto pretestuosa appare anche la distinzione tra “perseguitati” in fuga dalla guerra e “migranti economici”. E’ difficile capire, infatti, perché mai morire di fame o travolti dalla carestia dovrebbe essere molto diverso dal morire ammazzati dagli sgherri di un dittatore o sotto le bombe di una guerra. Quella della stragrande maggioranza delle donne e degli uomini che si rivolgono all’Europa è una “fuga per la vita”: questa è la realtà, anche se a Parigi, per l’ennesima volta, le cancellerie europee non hanno voluto vederla.
Non solo. Con l’ultimo giro di vite attuato da Roma, il blocco riguarda tutti, anche i richiedenti asilo che a parole l’Europa si dice disposta ad accogliere perché “in fuga dalla guerra”. Migliaia di donne, uomini, ragazzi nei confronti dei quali si stanno attuando sistematicamente dei respingimenti di massa, effettuati per mano della polizia libica, sudanese, egiziana, ciadiana, nigerina. Confinati in Libia o in pieno Sahara, nessuno di loro ha la possibilità di presentare una richiesta di asilo. A Parigi, rilanciando una promessa fatta ormai tante volte da essere ormai inflazionata, si è detto che saranno previsti in Africa hot spot dove esaminare la posizione di ogni singolo richiedente asilo. Ma non si è spiegato in alcun modo dove e come questi hot spot dovrebbero essere realizzati, in che tempi, sotto quale gestione, con quali garanzie di sicurezza, tutela e condizioni di vita dignitose. Finora si è pensato solo a respingere e basta. Quanto a tutto il resto, in concreto non c’è nulla. Nemmeno per chi scappa, ad esempio, dalla dittatura eritrea (associata, peraltro, nel Processo di Khartoum), dalle stragi del Sud Sudan, dai massacri del Darfur in Sudan, dal caos ultraventennale della Somalia, dallo Yemen sconvolto da una guerra che colpisce indiscriminatamente e sistematicamente anche obiettivi civili come ospedali e scuole e da una micidiale epidemia di colera. O, ancora, nemmeno per chi ha dovuto abbandonare il Mali, dove la guerra iniziata con la rivolta tuareg nel 2012, non è mai davvero finita e segna anzi una nuova escalation. Oppure, per chi cerca scampo dalla ferocia delle bande di Boko Haram in Nigeria.
Niente di niente. Da mesi sono tutti respinti indiscriminatamente. E si vanta il risultato che anche sulla rotta del Mediterraneo Centrale il flusso ora è in calo. Ma quanti di questi “respinti” sono morti o stanno morendo intrappolati in Libia o nel Sudan? Quanti sono ormai spariti nell’orrore dei lager libici o sudanesi? Quanti sono stati riconsegnati ai miliziani o alla polizia che opera spesso in combutta con i trafficanti? Quanti sono stati rimessi nelle mani delle dittature da cui sono fuggiti? Nessuno lo saprà mai con esattezza. Il quadro si sta però già delineando almeno in parte grazie alle testimonianze che cominciano a filtrare. Sono sempre più numerosi gli eritrei della diaspora, ad esempio, che ricevono richieste di aiuto da fratelli, familiari, amici bloccati dalla Guardia Costiera libica e rimessi spesso nei centri di detenzione dove, prima di imbarcarsi, hanno subito ogni genere di maltrattamenti, fino a vere e proprie torture. “E’ una situazione terribile – denuncia Abraham, a nome del Coordinamento Eritrea Democratica – si tratta di migliaia di persone che in Europa non possono più arrivare, che in Eritrea non possono tornare per non cadere in balia della dittatura messa sotto accusa dalla loro stessa fuga e che sono costrette, dunque, a restare nel caos della Libia, in quei centri di detenzione descritti da decine di rapporti come autentici gironi infernali. Persone che, oltre tutto, non hanno più neanche un soldo per cercarsi altre vie di fuga o persino per sopravvivere: abbiamo notizia di madri costrette a elemosinare per cercare di sfamare i propri bambini…”. Appelli analoghi arrivano dal Sudan, dove vengono segnalati centinaia di giovani gettati in carcere dalla polizia in attesa del rimpatrio forzato in Eritrea.
I protagonisti del vertice di Parigi non possono non essere al corrente di tutto questo. Ma non ne sembrano impressionati. Appellandosi al fatto che comunque la maggioranza dei richiedenti asilo sarebbe formata da “migranti economici”, se la sono cavata promettendo che verranno messe in campo politiche di sostegno e sviluppo nei paesi d’origine “sicuri”. Ma cosa si intenda per “paesi sicuri” lo dimostra il ricatto fatto dalla Ue all’Afghanistan nell’ottobre 2016, quando Kabul è stata costretta ad accettare il rientro di 80 mila profughi in cambio dei 3,5 miliardi di euro promessi da tempo per la ricostruzione del paese. Ecco, una delle giustificazioni addotte da Bruxelles era che tutto sommato l’Afghanistan sarebbe ormai “sicuro”. Peccato che pochi giorni dopo un rapporto dell’Onu abbia definito il 2016 l’anno peggiore e con il più alto numero di vittime civili dall’inizio della guerra nel 2001. I dati degli ultimi cinque anni sono eloquenti: 7.590 vittime civili tra morti e feriti nel 2012 e poi, via via, 8.638 l’anno successivo, 10.535 nel 2014, oltre 500 di più, 11.034, nel 2015 per arrivare poi a 11.418 (di cui 3.498 morti e 7.920 feriti) nel 2016. E nel 2017 il trend è ancora spaventoso: 5.243 vittime fino al 30 giugno, con 1.662 morti e 3.581 feriti. Non a caso, dall’inverno scorso, di fronte alla prospettiva di essere costretti a rimpatriare, si sono moltiplicati i suicidi tra i giovani profughi afghani. Ha suscitato grande eco, ad esempio, la sequenza di ben sette casi in pochi giorni in Svezia, nel mese di febbraio. L’ultimo caso si è verificato in questi giorni in Italia, a Milano.
Non solo. Mentre promettono interventi per “aiutare i migranti a casa loro”, Parigi, Berlino, Roma e Madrid fingono di ignorare che gran parte delle situazioni di crisi, guerre, carestie, fame endemica da cui quei migranti fuggono sono provocate proprio dalle scelte fatte dalle cancellerie europee e occidentali in genere. Per aiutare davvero i migranti “a casa loro” sarebbe necessario cambiare totalmente la politica del Nord nei confronti del Sud del mondo. Un segnale concreto in questo senso potrebbe essere, ad esempio, un “piano Marshall” per l’Africa. Ma, per ammissione degli stessi vertici Ue, non ce n’è traccia. E ognuno degli Stati presenti a Parigi persegue in Africa e nel Medio Oriente politiche che obbediscono a propri, precisi interessi economici e geostrategici, assai spesso in armonia con i governi dai quali i migranti fuggono. Governi che sono non di rado vere e proprie dittature ma anche sistemi di democrazia formale i cui leader, però, sono in realtà lontanissimi dalla gente, élites che hanno privatizzato o addirittura patrimonializzato lo Stato e le sue istituzioni ad ogni livello, per il proprio interesse personale o di clan, condannando la popolazione ad un limbo senza prospettive e ricorrendo magari alla violenza contro chi tenta di ribellarsi.
E’ questo il punto. L’Europa, il continente più ricco del mondo, pretende in sostanza che il problema dei profughi sia scaricato sui paesi di transito e prima sosta. Così urla all’invasione per alcune decine di migliaia di sbarchi, che sono un’inezia di fronte, ad esempio, al milione e passa di profughi ospitati in Uganda, il milione e 200 mila rifugiati in Libano, gli oltre 900 mila accolti in Etiopia, le centinaia di migliaia del Kenya. E sulla scia di questa isteria ha deciso di arroccarsi come in una fortezza di fronte ai disperati che bussano alle sue porte in cerca di aiuto. C’è chi dice, riferendosi alle ultime scelte del governo italiano, che adesso almeno si prospetta una “gestione del problema”, largamente approvata a livello europeo. Può essere vero: da qualche mese è più netta e decisa la “gestione” condotta da Roma. Ma è una gestione costruita sulla pelle, anzi, sulla vita stessa dei migranti. D’intesa con Bruxelles. In tutti i vertici europei degli ultimi anni, infatti, anche se il tema erano i migranti e i rifugiati in realtà non si è mai parlato di migranti e rifugiati. Non si è cercato di capire chi sono, da quali condizioni fuggono e perché, come sottrarli al ricatto dei trafficanti magari istituendo canali legali di immigrazione, come adeguare i sistemi di accoglienza alle esigenze che si sono profilate. E meno che mai si è deciso di verificare se i criteri per la concessione dell’asilo o di altre forme di tutela internazionale siano ancora adeguati o vadano invece rivisti e ampliati alla luce dei nuovi problemi emersi nel tempo: ad esempio, per i migranti ecologici e ambientali o magari per le vittime degli effetti devastanti del land grabbing, la rapina delle migliori terre coltivabili da parte di grandi società sovranazionali, che ha moltiplicato gli effetti della carestia in molti paesi, riducendone la capacità di produrre per il fabbisogno alimentare interno della popolazione.
Nulla di tutto questo. Si è sempre e solo discusso di come fermarli, i migranti, prima che possano arrivare in Europa. L’incontro di Parigi non si è sottratto a questa regola. Allora quell’ipocrita “aiutiamoli a casa loro” suona piuttosto come un “aiutiamoli a morire a casa loro”. Ignorando i fondamenti della nostra democrazia. Già, la nostra democrazia. Il ministro Marco Minniti è arrivato a dichiarare di aver temuto che la “crisi dei migranti” potesse mettere a rischio la tenuta democratica del Paese: è da questo timore che sarebbero state dettate le misure di chiusura e respingimento adottate. E’ vero: la nostra democrazia, i principi del nostro “stare insieme”, sono a rischio. Ma non per la pretesa invasione di migranti, come sostiene Minniti. Sono a rischio proprio per i provvedimenti presi negli ultimi anni da Roma e da Bruxelles, calpestando i diritti umani più elementari e i valori di libertà, uguaglianza, solidarietà, giustizia che sono la base della Costituzione Repubblicana e dell’idea stessa di Europa.




Tratto da: Tempi Moderni