martedì 31 ottobre 2017

Blindato anche il Sahara: migliaia di profughi espulsi o respinti in pieno deserto


 

di Emilio Drudi



Dopo il Mediterraneo, sono sempre più blindati anche il Sahara e le altre “vie di terra”. Negli ultimi mesi migliaia di profughi sono stati respinti o espulsi, lungo la frontiera del deserto, dall’Algeria e dalla Libia. Soprattutto verso il Niger ma anche in Sudan, nel Ciad e nel Mali. Sempre che riescano ad arrivarci alla frontiera, perché in Sudan, ad esempio, la Forza di Intervento Rapido, la milizia tristemente nota per le stragi nel Darfur, si vanta di svolgere egregiamente il suo nuovo compito di “cacciatore di migranti”: dai suoi rapporti periodici risultano migliaia di arresti nelle città e sulle piste che portano al confine. Un “successo” che il presidente Al Bashir ha subito sfruttato per chiedere all’Europa altri finanziamenti e materiale tecnico-logistico per le sue forze di sicurezza: in sostanza, un programma di “aiuti” simile a quello varato per la Libia, alla quale sono stati destinati blindati, elicotteri, jeep e fuoristrada, visori notturni e persino un sistema radar di controllo in grado di coprire tutti i 5 mila chilometri della linea di frontiera meridionale.

Sono gli effetti del Processo di Khartoum, l’accordo che, firmato a Roma nel novembre 2014, sta entrando pienamente a regime grazie alla serie di patti bilaterali, tra governi o addirittura di polizia, stipulati negli ultimi tre anni, fino al memorandum tra l’Italia e la Libia sottoscritto a Roma il 2 febbraio scorso e ai relativi “derivati”, incluse le intese con alcune tribù del deserto e – secondo quanto ha denunciato l’agenzia France Presse – persino con dei trafficanti di uomini riciclati in gendarmi anti immigrazione a suon di milioni di euro.

Se ne parla poco, ma il giro di vite più evidente si registra in Algeria, dove dalla primavera scorsa, in seguito alle difficoltà crescenti della fuga attraverso la Libia, l’arrivo di migranti e richiedenti asilo si è moltiplicato. Un rapporto di Amnesty pubblicato il 23 ottobre parla di arresti arbitrari e respingimenti di massa. Solo nell’ultimo mese, oltre 2 mila donne e uomini sono stati fermati ed espulsi, tra l’altro con sistemi e in condizioni  terribili. “La maggior parte dei duemila intercettati dal 22 settembre in poi – scrive il quotidiano francese Le Monde, citando il dossier di Amnesty – sono stati arrestati ad Algeri e nel suo circondario, oppure a Blida, una città situata 50 chilometri a sud-ovest della capitale. Da qui la polizia li ha trasferiti in pullman a Tamanrasset, una località migliaia di chilometri più a sud, per abbandonarli poi in territorio nigerino appena al di là del confine”. Ad almeno un centinaio è andata anche peggio: sono stati “scaricati” in territorio algerino e costretti ad una lunga marcia nel deserto per raggiungere una località abitata del Niger dove potersi fermare e trovare un rifugio provvisorio: almeno sei ore di cammino nel nulla del Sahara, con temperature infernali, senza cibo e con pochissima acqua.

“Questi arresti ed espulsioni – denuncia Amnesty – sono assolutamente illegali: non rispettano le garanzie previste dalle procedure regolari e violano non solo le norme internazionali ma la stessa legge algerina”. Le forze di sicurezza, infatti, non si preoccupano di esaminare la posizione e la storia dei singoli migranti e nemmeno di controllare se si tratti di persone entrate legalmente in Algeria: ci si basa, in sostanza, solo su “criteri etnici”, bloccando tutti gli stranieri. Tra i respinti, infatti figurano migranti arrivati dall’intera Africa sub sahariana e occidentale: Niger, Guinea, Burkina Faso, Benin, Mali, Costa d’Avorio, Senegal, Nigeria, Liberia, Camerun, Sierra Leone. Inclusi 300 ragazzini minorenni, in gran parte non accompagnati, che avrebbero diritto a forme di assistenza mirate. E, probabilmente, si è solo all’inizio. Secondo Amnesty in Algeria vivono attualmente oltre 100 mila migranti irregolari subsahariani e tutto lascia credere che nei loro confronti sia iniziata una vera e propria caccia all’uomo.

La conferma di questo orizzonte buio arriva dal Niger, il paese verso il quale viene maggiormente indirizzata questa enorme diaspora di ritorno forzata, a prescindere dalla nazionalità delle donne e degli uomini espulsi o respinti. Secondo fonti vicine al governo di Niamey, tra settembre e ottobre, soltanto nella regione di Agadez, la zona a più diretto contatto con l’Algeria, sono stati deportati circa 2.800 nigerini e oltre 5 mila migranti provenienti da Stati subsahariani o del West Africa. “Gran parte di loro – denunciano le autorità nigerine, confermando il rapporto di Amnesty – sono stati costretti ad attraversare zone desertiche, spesso a piedi, per poter raggiungere i più vicini villaggi nel nostro paese dove salvarsi e mettersi al sicuro”.

Si profila così una situazione di evidente contrasto. Algeri espelle quasi tutti verso il Niger, a prescindere dalle nazionalità, lasciando intendere che comunque è stato il Niger la porta d’ingresso da cui sono passati. Niamey tende invece a rifiutarsi di accogliere i profughi non nigerini respinti. “Con tutti questi profughi che continuano ad arrivare dall’Algeria, si sta creando una grave emergenza umanitaria – ha dichiarato il 22 ottobre Sadou Soloké, governatore della regione di Agadez, al quotidiano Niger Diaspora – Abbiamo già protestato con il governo algerino per i criteri e le condizioni di espulsione di questi migranti, ma soprattutto contestiamo che stanno inviando in Niger persone di ogni nazionalità. Inclusi, ad esempio, i maliani, nonostante l’Algeria confini direttamente con il Mali per migliaia di chilometri. I dati sono eloquenti: tra i 955 deportati nell’ultima settimana non c’era alcun nigerino, ma c’erano più di 300 maliani. Chiediamo allora che ciascuno sia espulso verso il proprio paese…”.

Ecco, appunto, “espulsi verso il proprio paese”. In questo braccio di ferro sono i migranti a rischiare di restare stritolati. Non ci si chiede, infatti, se abbiano o meno diritto all’asilo o comunque ad essere accolti e se rimandarli indietro non significhi esporli a rischi anche mortali: si dà per scontato che l’unica cosa importante è che il respingimento vada in una direzione che “non dia fastidio”. A prescindere dalla sorte degli interessati.

Non solo. Alle deportazioni si è aggiunta una vigilanza più rigida alla frontiera da parte dell’Algeria, mentre il Niger ha organizzato una rete di controlli capillari condotti dall’esercito su tutte le strade e le piste che da Agadez, diventata il grande hub di concentrazione e smistamento dei flussi, conducono attraverso il Sahara al confine algerino o a quello libico, distanti più di 800 chilometri. Le pattuglie, oltre che gli itinerari più sicuri e frequentati, battono i villaggi e le oasi: i punti, cioè, dove si può trovare acqua e cibo e dove tradizionalmente si fermano, dunque, le colonne di pick-up e camion carichi di migranti per brevi soste di riposo e rifornimento. I trafficanti così, sempre più spesso, scelgono vie secondarie, dove ritengono che la sorveglianza sia più blanda, ma che sono molto più lunghe, difficili e pericolose. E se si profila il rischio anche minimo di essere intercettati, i “passatori” non esitano a fuggire, abbandonando nel deserto i profughi che stavano traghettando, come risulta dai racconti terribili di alcuni sopravvissuti a giorni infiniti di sete e di sofferenze. Non a caso l’Oim segnala che si sono moltiplicati gli interventi di soccorso in pieno Sahara mentre, contemporaneamente, aumenta il numero delle vittime. “Secondo Richard Danziger, responsabile Oim per l’Africa centro-occidentale – ha denunciato Barbara Spinelli al Parlamento Europeo – i morti nel deserto sono ormai il doppio dei morti in mare: circa 30 mila tra il 2014 e oggi”. L’ultima strage conosciuta è quella del 5 settembre: 16 migranti trovati ormai senza vita da una pattuglia di militari oltre 350 chilometri a sud di Tobruk. C’erano solo i corpi calcinati dal sole e dal vento del Sahara: nessuna traccia dei trafficanti.

Ecco, Tobruk. In Libia si sta profilando la stessa situazione del Niger e dell’Algeria. Le cifre e i rapporti sono meno precisi, perché non provengono da dossier ufficiali come quelli del governo di Niamey o dell’amministrazione di Agadez, ma dai capi di tribù del Fezzan con i quali l’Italia ha stretto accordi di controllo e respingimento. I dati sono però ugualmente significativi. Barka Shedemi, uno dei leader della grande tribù dei Tebu, in particolare, sostiene di aver sigillato totalmente la sua parte di confine e le piste provenienti dal Ciad e dal Niger, nella zona di Qatrun, bloccando centinaia, forze migliaia di migranti che intendevano raggiungere la costa. Del resto si sta lavorando per mettere a sistema tutto il controllo militare della frontiera libica nel Sahara: è stata costituita una forza di coordinamento e intervento di cui è previsto che faccia parte, insieme ai soldati e alla polizia libica, anche un nucleo di istruttori e “consiglieri” italiani. Una organizzazione analoga è programmata per il Niger. Non, almeno per il momento, in Sudan, dove le milizie di intervento rapido, i “diavoli a cavallo”, equipaggiati a quanto pare anche con fondi italiani o europei, stanno del resto dimostrando ampiamente di aver chiuso quasi ogni via di fuga.

Il giro di vite riguarda in Africa pure la Tunisia. I primi effetti si sono visti in mare: basti ricordare il peschereccio carico di migranti mandato a picco pochi giorni fa da una nave militare che, nel tentativo di tagliargli la rotta per bloccarlo, lo ha speronato, facendolo rovesciare. Oltre 50 le vittime. La stessa strategia viene adottata a terra, lungo i confini con la Libia e l’Algeria. Quasi sempre senza tener conto della situazione personale e della provenienza dei profughi: il 24 di ottobre, ad esempio, sono stati arrestati sei ragazzi siriani appena entrati in Tunisia dall’Algeria, con l’intenzione di raggiungere la costa per cercare un imbarco nella zona di Sfax. Sei giovani che, in fuga dall’orrore della Siria, avrebbero tutto il diritto di essere accolti come rifugiati ma sono finiti invece in fondo a un carcere.

Vanta infine il successo del blocco organizzato, sia a terra che in mare, per conto dell’Europa, in cambio di 6 miliardi, anche la Turchia, rilevando come il flusso dall’Anatolia alle isole greche sia praticamente crollato rispetto all’anno scorso. Poco importa se a pagare questo “crollo” sono i migranti, in termini di vite perdute, sofferenze, carcerazione, sfruttamento, tramonto di ogni speranza per il futuro. L’ultimo rapporto delle forze di sicurezza di Ankara riferisce di 15.470 profughi bloccati e arrestati nei primi nove mesi del 2017. Con un crescendo impressionante: 756 in gennaio, 719 in febbraio, 1.501 in marzo, 1.551 in aprile, oltre 4.500 tra maggio, giugno e luglio, 2.668 in agosto fino al record di oltre 3.400 in settembre. Ottobre sta ricalcando l’andamento di settembre, sicché in dieci mesi si arriverà ad oltre 18 mila arresti: uomini, donne, intere famiglie in fuga da Siria, Iraq, Afghanistan… Più di 18 mila, forse 19 mila, solo in mare. Perché ci sono poi quelli intercettati e fermati a terra: nei porti d’imbarco e sulla costa oppure lungo le strade che dalla frontiera iraniana o siriana portano al Mediterraneo: sui pullman di linea, chiusi nei camion o nei furgoni dei trafficanti, a piedi, nei sobborghi delle città dell’interno scelte per una sosta più o meno prolungata, abbandonati dai trafficanti in mezzo alla campagna… Migliaia di altri disperati, tanto che non appare azzardato ipotizzare, da gennaio a oggi, almeno 25 mila arresti. Arrestati per aver cercato la libertà e una vita migliore. Colpevoli di aver tentato una fuga per la vita.



Tratto da: Tempi Moderni   

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