di Emilio Drudi
Dopo il Mediterraneo, sono
sempre più blindati anche il Sahara e le altre “vie di terra”. Negli ultimi
mesi migliaia di profughi sono stati respinti o espulsi, lungo la frontiera del
deserto, dall’Algeria e dalla Libia. Soprattutto verso il Niger ma anche in
Sudan, nel Ciad e nel Mali. Sempre che riescano ad arrivarci alla frontiera,
perché in Sudan, ad esempio, la Forza di Intervento Rapido, la milizia
tristemente nota per le stragi nel Darfur, si vanta di svolgere egregiamente il
suo nuovo compito di “cacciatore di migranti”: dai suoi rapporti periodici
risultano migliaia di arresti nelle città e sulle piste che portano al confine.
Un “successo” che il presidente Al Bashir ha subito sfruttato per chiedere
all’Europa altri finanziamenti e materiale tecnico-logistico per le sue forze
di sicurezza: in sostanza, un programma di “aiuti” simile a quello varato per
la Libia, alla quale sono stati destinati blindati, elicotteri, jeep e
fuoristrada, visori notturni e persino un sistema radar di controllo in grado
di coprire tutti i 5 mila chilometri della linea di frontiera meridionale.
Sono gli effetti del
Processo di Khartoum, l’accordo che, firmato a Roma nel novembre 2014, sta
entrando pienamente a regime grazie alla serie di patti bilaterali, tra governi
o addirittura di polizia, stipulati negli ultimi tre anni, fino al memorandum
tra l’Italia e la Libia sottoscritto a Roma il 2 febbraio scorso e ai relativi
“derivati”, incluse le intese con alcune tribù del deserto e – secondo quanto
ha denunciato l’agenzia France Presse – persino con dei trafficanti di uomini
riciclati in gendarmi anti immigrazione a suon di milioni di euro.
Se ne parla poco, ma il giro
di vite più evidente si registra in Algeria, dove dalla primavera scorsa, in
seguito alle difficoltà crescenti della fuga attraverso la Libia, l’arrivo di
migranti e richiedenti asilo si è moltiplicato. Un rapporto di Amnesty
pubblicato il 23 ottobre parla di arresti arbitrari e respingimenti di massa.
Solo nell’ultimo mese, oltre 2 mila donne e uomini sono stati fermati ed
espulsi, tra l’altro con sistemi e in condizioni terribili. “La maggior parte dei duemila
intercettati dal 22 settembre in poi – scrive il quotidiano francese Le Monde,
citando il dossier di Amnesty – sono stati arrestati ad Algeri e nel suo
circondario, oppure a Blida, una città situata 50 chilometri a sud-ovest della
capitale. Da qui la polizia li ha trasferiti in pullman a Tamanrasset, una
località migliaia di chilometri più a sud, per abbandonarli poi in territorio
nigerino appena al di là del confine”. Ad almeno un centinaio è andata anche
peggio: sono stati “scaricati” in territorio algerino e costretti ad una lunga
marcia nel deserto per raggiungere una località abitata del Niger dove potersi
fermare e trovare un rifugio provvisorio: almeno sei ore di cammino nel nulla
del Sahara, con temperature infernali, senza cibo e con pochissima acqua.
“Questi arresti ed
espulsioni – denuncia Amnesty – sono assolutamente illegali: non rispettano le
garanzie previste dalle procedure regolari e violano non solo le norme
internazionali ma la stessa legge algerina”. Le forze di sicurezza, infatti,
non si preoccupano di esaminare la posizione e la storia dei singoli migranti e
nemmeno di controllare se si tratti di persone entrate legalmente in Algeria:
ci si basa, in sostanza, solo su “criteri etnici”, bloccando tutti gli
stranieri. Tra i respinti, infatti figurano migranti arrivati dall’intera Africa
sub sahariana e occidentale: Niger, Guinea, Burkina Faso, Benin, Mali, Costa
d’Avorio, Senegal, Nigeria, Liberia, Camerun, Sierra Leone. Inclusi 300
ragazzini minorenni, in gran parte non accompagnati, che avrebbero diritto a
forme di assistenza mirate. E, probabilmente, si è solo all’inizio. Secondo
Amnesty in Algeria vivono attualmente oltre 100 mila migranti irregolari
subsahariani e tutto lascia credere che nei loro confronti sia iniziata una
vera e propria caccia all’uomo.
La conferma di questo orizzonte
buio arriva dal Niger, il paese verso il quale viene maggiormente indirizzata
questa enorme diaspora di ritorno forzata, a prescindere dalla nazionalità
delle donne e degli uomini espulsi o respinti. Secondo fonti vicine al governo
di Niamey, tra settembre e ottobre, soltanto nella regione di Agadez, la zona a
più diretto contatto con l’Algeria, sono stati deportati circa 2.800 nigerini e
oltre 5 mila migranti provenienti da Stati subsahariani o del West Africa.
“Gran parte di loro – denunciano le autorità nigerine, confermando il rapporto
di Amnesty – sono stati costretti ad attraversare zone desertiche, spesso a
piedi, per poter raggiungere i più vicini villaggi nel nostro paese dove
salvarsi e mettersi al sicuro”.
Si profila così una
situazione di evidente contrasto. Algeri espelle quasi tutti verso il Niger, a
prescindere dalle nazionalità, lasciando intendere che comunque è stato il
Niger la porta d’ingresso da cui sono passati. Niamey tende invece a rifiutarsi
di accogliere i profughi non nigerini respinti. “Con tutti questi profughi che
continuano ad arrivare dall’Algeria, si sta creando una grave emergenza
umanitaria – ha dichiarato il 22 ottobre Sadou Soloké, governatore della
regione di Agadez, al quotidiano Niger Diaspora – Abbiamo già protestato con il
governo algerino per i criteri e le condizioni di espulsione di questi
migranti, ma soprattutto contestiamo che stanno inviando in Niger persone di
ogni nazionalità. Inclusi, ad esempio, i maliani, nonostante l’Algeria confini
direttamente con il Mali per migliaia di chilometri. I dati sono eloquenti: tra
i 955 deportati nell’ultima settimana non c’era alcun nigerino, ma c’erano più
di 300 maliani. Chiediamo allora che ciascuno sia espulso verso il proprio
paese…”.
Ecco, appunto, “espulsi verso
il proprio paese”. In questo braccio di ferro sono i migranti a rischiare di
restare stritolati. Non ci si chiede, infatti, se abbiano o meno diritto
all’asilo o comunque ad essere accolti e se rimandarli indietro non significhi
esporli a rischi anche mortali: si dà per scontato che l’unica cosa importante
è che il respingimento vada in una direzione che “non dia fastidio”. A
prescindere dalla sorte degli interessati.
Non solo. Alle deportazioni
si è aggiunta una vigilanza più rigida alla frontiera da parte dell’Algeria,
mentre il Niger ha organizzato una rete di controlli capillari condotti
dall’esercito su tutte le strade e le piste che da Agadez, diventata il grande
hub di concentrazione e smistamento dei flussi, conducono attraverso il Sahara al
confine algerino o a quello libico, distanti più di 800 chilometri. Le
pattuglie, oltre che gli itinerari più sicuri e frequentati, battono i villaggi
e le oasi: i punti, cioè, dove si può trovare acqua e cibo e dove
tradizionalmente si fermano, dunque, le colonne di pick-up e camion carichi di
migranti per brevi soste di riposo e rifornimento. I trafficanti così, sempre
più spesso, scelgono vie secondarie, dove ritengono che la sorveglianza sia più
blanda, ma che sono molto più lunghe, difficili e pericolose. E se si profila
il rischio anche minimo di essere intercettati, i “passatori” non esitano a
fuggire, abbandonando nel deserto i profughi che stavano traghettando, come
risulta dai racconti terribili di alcuni sopravvissuti a giorni infiniti di
sete e di sofferenze. Non a caso l’Oim segnala che si sono moltiplicati gli
interventi di soccorso in pieno Sahara mentre, contemporaneamente, aumenta il
numero delle vittime. “Secondo Richard Danziger, responsabile Oim per l’Africa
centro-occidentale – ha denunciato Barbara Spinelli al Parlamento Europeo – i
morti nel deserto sono ormai il doppio dei morti in mare: circa 30 mila tra il
2014 e oggi”. L’ultima strage conosciuta è quella del 5 settembre: 16 migranti
trovati ormai senza vita da una pattuglia di militari oltre 350 chilometri a
sud di Tobruk. C’erano solo i corpi calcinati dal sole e dal vento del Sahara:
nessuna traccia dei trafficanti.
Ecco, Tobruk. In Libia si
sta profilando la stessa situazione del Niger e dell’Algeria. Le cifre e i
rapporti sono meno precisi, perché non provengono da dossier ufficiali come
quelli del governo di Niamey o dell’amministrazione di Agadez, ma dai capi di
tribù del Fezzan con i quali l’Italia ha stretto accordi di controllo e
respingimento. I dati sono però ugualmente significativi. Barka Shedemi, uno
dei leader della grande tribù dei Tebu, in particolare, sostiene di aver
sigillato totalmente la sua parte di confine e le piste provenienti dal Ciad e
dal Niger, nella zona di Qatrun, bloccando centinaia, forze migliaia di
migranti che intendevano raggiungere la costa. Del resto si sta lavorando per
mettere a sistema tutto il controllo militare della frontiera libica nel Sahara:
è stata costituita una forza di coordinamento e intervento di cui è previsto
che faccia parte, insieme ai soldati e alla polizia libica, anche un nucleo di istruttori
e “consiglieri” italiani. Una organizzazione analoga è programmata per il
Niger. Non, almeno per il momento, in Sudan, dove le milizie di intervento
rapido, i “diavoli a cavallo”, equipaggiati a quanto pare anche con fondi
italiani o europei, stanno del resto dimostrando ampiamente di aver chiuso
quasi ogni via di fuga.
Il giro di vite riguarda in
Africa pure la Tunisia. I primi effetti si sono visti in mare: basti ricordare
il peschereccio carico di migranti mandato a picco pochi giorni fa da una nave
militare che, nel tentativo di tagliargli la rotta per bloccarlo, lo ha
speronato, facendolo rovesciare. Oltre 50 le vittime. La stessa strategia viene
adottata a terra, lungo i confini con la Libia e l’Algeria. Quasi sempre senza
tener conto della situazione personale e della provenienza dei profughi: il 24
di ottobre, ad esempio, sono stati arrestati sei ragazzi siriani appena entrati
in Tunisia dall’Algeria, con l’intenzione di raggiungere la costa per cercare
un imbarco nella zona di Sfax. Sei giovani che, in fuga dall’orrore della
Siria, avrebbero tutto il diritto di essere accolti come rifugiati ma sono
finiti invece in fondo a un carcere.
Vanta infine il successo del
blocco organizzato, sia a terra che in mare, per conto dell’Europa, in cambio
di 6 miliardi, anche la Turchia, rilevando come il flusso dall’Anatolia alle
isole greche sia praticamente crollato rispetto all’anno scorso. Poco importa
se a pagare questo “crollo” sono i migranti, in termini di vite perdute,
sofferenze, carcerazione, sfruttamento, tramonto di ogni speranza per il
futuro. L’ultimo rapporto delle forze di sicurezza di Ankara riferisce di
15.470 profughi bloccati e arrestati nei primi nove mesi del 2017. Con un
crescendo impressionante: 756 in gennaio, 719 in febbraio, 1.501 in marzo,
1.551 in aprile, oltre 4.500 tra maggio, giugno e luglio, 2.668 in agosto fino
al record di oltre 3.400 in settembre. Ottobre sta ricalcando l’andamento di
settembre, sicché in dieci mesi si arriverà ad oltre 18 mila arresti: uomini,
donne, intere famiglie in fuga da Siria, Iraq, Afghanistan… Più di 18 mila,
forse 19 mila, solo in mare. Perché ci sono poi quelli intercettati e fermati a
terra: nei porti d’imbarco e sulla costa oppure lungo le strade che dalla
frontiera iraniana o siriana portano al Mediterraneo: sui pullman di linea,
chiusi nei camion o nei furgoni dei trafficanti, a piedi, nei sobborghi delle
città dell’interno scelte per una sosta più o meno prolungata, abbandonati dai
trafficanti in mezzo alla campagna… Migliaia di altri disperati, tanto che non
appare azzardato ipotizzare, da gennaio a oggi, almeno 25 mila arresti. Arrestati
per aver cercato la libertà e una vita migliore. Colpevoli di aver tentato una
fuga per la vita.
Tratto da: Tempi Moderni
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