di Emilio Drudi
“Da quando sono
ritornato non ho una casa dove abitare. Ho vissuto per qualche tempo sotto i
ponti, dentro vecchie auto o un garage… Poi sono andato in un’altra provincia a
cercare la mia famiglia, ma non sono ancora riuscito a trovarla. Passo notti e
giorni interi senza avere nulla da mangiare. E’ dura questa vita. E poi questa
provincia è davvero piena di rischi. Ogni giorno ci sono combattimenti, esplosioni,
uccisioni. Ovunque. A Kabul era lo stesso. Lì sotto il ponte dove mi ero
rifugiato era pieno di tossicomani: ogni momento potevo essere ucciso da uno di
loro… Qualche volta ho cercato riparo e chiesto del cibo in una moschea, ma
quasi sempre i mullah mi hanno trattato con sospetto, temendo che fossi un
ribelle o un informatore della polizia.
O che volessi addirittura compiere un’azione terroristica, visto che ci sono
stati diversi, pesanti attacchi all’interno delle moschee…”.
E’ il racconto di
Hamid, 18 anni appena compiuti, uno delle migliaia di profughi afghani espulsi
dall’Europa e rimpatriati contro la loro volontà. Fino a qualche mese fa lui
era in Norvegia. Gli operatori di Amnesty International lo hanno incontrato nel
maggio scorso in una delle province periferiche dell’Afghanistan. La sua è una
delle tante testimonianze del dossier che Amnesty ha presentato il 5 ottobre
per mettere sotto accusa le politiche dell’Unione e dei singoli governi europei
sull’emigrazione e sul diritto d’asilo. Nel mirino è in particolare l’accordo
capestro che Bruxelles ha imposto nell’ottobre del 2016, costringendo Kabul ad
accettare il rientro di 80 mila profughi per sbloccare 3,7 miliardi di euro di
“finanziamenti per la ricostruzione”, un contributo che l’Unione Europea si era
impegnata da tempo ad elargire, ma che è stato trasformato di fatto in un’arma
di ricatto. La Commissione Ue, per parte sua, ha sempre negato che ci fosse una
connessione tra i rimpatri e tutti quei miliardi. Federica Mogherini, responsabile
della politica estera, lo ha ribadito con forza, quasi sdegnata, anche poche
ore prima della firma in calce al Joint
Way Forward, l’intesa per quelle che appaiono vere e proprie deportazioni.
A smentire la Ue e la Mogherini sono stati però, già subito dopo l’incontro
finale a Bruxelles, alcuni membri della delegazione afghana, i quali hanno
lasciato capire di essere stati costretti ad accettare la “disponibilità” a far
rientrare a decine di migliaia i profughi fuggiti in tanti anni di guerra e terrore.
La conferma delle
pressioni esercitate su Kabul dall’Unione è poi venuta dal ministro delle
finanze afghano Ekil Hakimi, il quale – come riferisce il rapporto di Amnesty –
ha dichiarato in Parlamento: “Se l’Afghanistan non collabora con gli Stati
membri dell’Unione Europea nella crisi dei rifugiati, ci sarà un impatto
negativo sull’ammontare degli aiuti destinati al nostro paese”. “Questo
strumento di pressione – aggiunge Amnesty nel suo dossier – è stato poi
ribadito da una nostra fonte confidenziale afghana, che ha definito ‘un calice di veleno’ quello che il
governo di Kabul è stato costretto a bere in cambio degli aiuti”.
Un “calice di veleno”
che provoca morti e sofferenza. A Bruxelles si sono giustificati asserendo che
l’Afghanistan è ormai in gran parte “sicuro”. Su cosa si basi questa
affermazione non è dato sapere. Nell’arco del 2016, in quasi tutte le regioni
sono aumentati gli attacchi, sia contro obiettivi militari che contro civili inermi.
Li hanno condotti gruppi armati ricollegabili ai talebani e a formazioni vicine
ad Al Qaeda oppure, sempre più spesso, a milizie fedeli all’Isis, che
controllano una vasta porzione di territorio, organizzata come un governatorato
sottomesso al Califfato di Al Baghdadi. Non a caso, verso la fine dello scorso
settembre, gli Stati Uniti e la Nato hanno dichiarato che il contingente
militare occidentale “deve restare” per poter fronteggiare l’offensiva dei
ribelli, mentre il presidente Trump, quasi a dare concretezza a questa
affermazione, ha deciso di inviare altri 3 mila soldati, sollecitando rinforzi
anche da parte delle nazioni Nato.
C’è di più. Poche
settimane dopo la firma del Joint Way
Forward, quasi a smentire le dichiarazioni di Bruxelles, il rapporto
annuale dell’Onu ha definito il 2016 “l’anno peggiore” in Afghanistan dal 2001,
quando è iniziata la guerra. Sono i dati obiettivi a testimoniarlo, con una
escalation terribile, anno dopo anno. Nel quinquennio tra il 2012 e il 2016, in
particolare, ci sono state, tra i civili, 7.590 vittime (2.769 morti e 4.821
feriti) nel 2012; poi 8.638 nel 2013 (di cui 2.969 morti e 5.669 feriti);
10.535 nel 2014 (con 3.710 morti e 6.825 feriti); nel 2015 si è saliti a 11.034
(di cui 3.565 morti e 7.469 feriti); fino ad arrivare al record di 11.418
vittime nel 2016, con 3.498 morti e
7.920 feriti. Nel 2017 la tendenza è la stessa: l’ultimo rilevamento, relativo
ai primi sei mesi, registra 1.662 morti e 3.581 feriti, per un totale di 5.243
vittime, quasi trenta ogni 24 ore. Attacchi clamorosi ci sono stati anche in
queste settimane. Il 28 settembre un commando di talebani ha assaltato il
quartier generale della polizia di Kandahar, uccidendo almeno 12 agenti e
ferendone numerosi altri. Tre giorni prima è caduto in un’imboscata, nel cuore
stesso di Kabul, un convoglio militare: tre morti. Non vengono risparmiati
neanche i luoghi di culto: a fine agosto, l’Isis, sempre a Kabul, ha preso di mira la moschea sciita Imam Zaman,
colma di persone per la preghiera del venerdì: sono stati uccisi due agenti dei
servizi di sicurezza e si contano decine di fedeli colpiti da raffiche di mitra
o investiti dall’esplosione della bomba di un kamikaze.
Ecco, secondo
Bruxelles questo sarebbe un “paese sicuro”, dove far rientrare i profughi che
ne sono fuggiti. E così i rimpatri si sono moltiplicati. “Tra il 2015 e il 2016
– rileva il rapporto di Amnesty – sono quasi triplicati: da 3.290 si è saliti a
9.460”. Dal dicembre 2016 ad oggi l’impennata non ha subito soste. Di più: a
questo forte aumento delle deportazioni corrisponde “un marcato calo delle
domande d’asilo accolte: dal 68 per cento del settembre 2015 si è scesi al 33
per cento del dicembre 2016”, meno della metà. E questo nuovo, insormontabile
muro costruito dalla Ue causa morte e sofferenza non solo in Afghanistan ma
nella stessa Fortezza Europa.
All’inizio di
febbraio di quest’anno, tre ragazzini afghani non ancora diciottenni sono stati
trovati morti, in Svezia, a pochi giorni di distanza, nei centri di accoglienza
dove erano ospitati. Tutti e tre suicidi. Nello stesso periodo, ma in istituti
diversi, altri quattro, sempre minorenni, hanno tentato a loro volta di
uccidersi: sono stati salvati appena in tempo. “Temevano di essere espulsi:
questa grande paura ha tolto loro ogni speranza”, ha spiegato, in una
dichiarazione alla stampa, Mahboda Badadi, un operatore sociale che si occupa
di rifugiati minorenni non accompagnati. Poche settimane prima, verso la fine
di dicembre 2016, infatti, sulla scia del Joint
Way Forward, un portavoce dell’Ufficio
Svedese per l’Immigrazione aveva dichiarato che diverse regioni
dell’Afghanistan erano ormai da considerarsi “less dangerous”, vale a dire “pressoché sicure”, sicché i
richiedenti asilo di quelle zone sarebbero stati rimpatriati. Aveva anche
specificato che il provvedimento non avrebbe riguardato i minorenni senza una
famiglia che in Afghanistan potesse prendersene cura. Ma quell’annuncio in sé deve
essere stato percepito come un ennesimo rifiuto: “Tutti i ragazzi afghani erano
fortemente preoccupati che la loro richiesta di asilo fosse respinta. D’altra
parte si tratta di giovanissimi molto provati, bisognosi di essere compresi e
guidati”, ha detto alla France Presse Sara Edwardson Ehrnborg, una insegnante
che collabora con gruppi umanitari no-profit, confermando nella sostanza il
giudizio di Mahboda Badadi.
Quei sette
ragazzini, evidentemente, non hanno retto all’idea che avrebbero potuto essere
costretti a tornare nel paese dal quale erano scappati a rischio della vita
stessa, pur di lasciarsi alle spalle un mondo di terrore e avere la possibilità
di costruirsi una prospettiva di futuro. Così hanno deciso di farla finita. E
per tre di loro non si è arrivati in tempo a salvarli. Né questa catena di
disperazione si è interrotta. L’ultimo caso si è verificato in Italia, a Milano:
un giovane afghano si è impiccato nella notte tra il 23 e il 24 agosto in un
locale appartato del centro accoglienza di via Corelli. Era arrivato due o tre
giorni prima, proveniente dalla frontiera del Brennero, dove la polizia lo
aveva bloccato mentre tentava di entrare in Austria. “Era molto depresso, tanto
che gli era stato subito fissato un colloquio con uno specialista: doveva
andarci proprio la mattina che lo abbiamo trovato senza vita”, hanno detto gli
operatori del centro. E’ credibile che quel respingimento al Brennero abbia
soffocato anche le sue ultime speranze: che si sia sentito intrappolato tra i
muri della Fortezza Europa e la prospettiva di essere costretto a tornare in
Afghanistan.
Allora, il Joint Way Forward firmato nell’ottobre
del 2016 potrà magari “sfoltire” la presenza dei rifugiati afghani in Europa,
ma nel conto non si possono non mettere anche le ferite profonde che provoca
questa nuova, ennesima barriera. E le vittime che ne restano schiacciate.
“Siamo convinti – dicono al Comitato Nuovi Desaparecidos – che ci siano pesanti
responsabilità dell’Unione Europea e di tutti gli Stati membri per questo
ulteriore calvario al quale sono condannati i profughi afghani. Non è pensabile
che a Bruxelles e nelle varie capitali non sappiano che cosa accade al di là ed
anzi a causa dei muri che stanno continuando ad alzare. Vale per la Libia, ad
esempio, come ha dimostrato, un’altra volta ancora, il recente dossier di
Medici per i Diritti Umani e vale anche per l’Afghanistan, come denuncia
l’ultimo rapporto di Amnesty e come già emergeva con forza, del resto, dalla
relazione 2016 delle Nazioni Unite. Allora, ha ragione Amnesty: l’intera Europa
sta perseguendo politiche illegali, che mettono a rischio la vita stessa di
tanti uomini e donne che bussano alle sue porte. Perché non solo resta sorda al
loro grido d’aiuto, ma li ricaccia nell’inferno da cui stanno fuggendo. Tanti,
troppi ne sono già morti. E si profilano complicità precise, se non peggio, per
queste vite perdute. E’ tempo di portare tutto ciò di fronte a una corte di
giustizia. Anzi, il tempo è già scaduto”.
Tratto da: Tempi Moderni
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