di Emilio Drudi
Non c’è un’asta in piazza
come quella filmata dalla Cnn a Sabha nell’ottobre del 2017. Si agisce
nell’ombra, con l’inganno e le minacce. Ma la sorte di centinaia di profughi
detenuti nei campi libici rischia di essere la stessa: venduti come schiavi per
il lavoro forzato o, peggio, sequestrati per estorcerne un riscatto di migliaia
di dollari, non esitando a sottoporli a terribili torture per indurre i
familiari a pagare il più in fretta possibile.
E’ il quadro che emerge dal
disperato grido d’aiuto lanciato al Coordinamento Eritrea Democratica da
numerosi profughi detenuti nei centri di Tarek al Matar e Tarek al Sika, nei
sobborghi di Tripoli. Entrambi i campi risultano sotto il controllo del
Governo, sono considerati “sicuri”, vi operano anche Ong italiane su mandato
della Farnesina e avrebbero di recente ricevuto la visita di una delegazione
dell’Unione Europea. In realtà sono affollati al punto che nei
capannoni-prigione non è possibile muoversi e spesso nemmeno sdraiarsi; il cibo
è pessimo e molto scarso; i servizi igienici pressoché inesistenti e inagibili;
non c’è alcuna assistenza medica; viene lesinata ed è di infima qualità persino
l’acqua da bere. In una parola, un inferno nel quale la giornata è scandita da
tormenti terribili e non di rado si muore: per malattia, per denutrizione, per
sfinimento. A Tarek al Matar, ad esempio, hanno perso la vita, forse per tbc,
almeno tre giovani, un eritreo e due etiopi, nel giro di meno di tre settimane.
Alle condizioni inumane di
trattamento si aggiunge un senso di assoluta insicurezza. Molti dei detenuti
sostengono di non essere stati registrati al momento del loro ingresso nel
campo, sicché non risulterebbero nemmeno presenti. “Siamo come dei fantasmi
senza nome – hanno raccontato ad Abraham Tesfai, del Coordinamento Eritrea – Ci
possono far sparire in qualsiasi momento, senza lasciar traccia: basterà che
dicano di non averci mai visto, citando come prova proprio i registri del
campo”. Quanto sia avvertito questo rischio lo dimostrano due episodi
denunciati all’inizio di agosto, tra il giorno uno e il giorno tre. Il primo a Tarek
al Matar, il secondo a Tarek al Sika.
Il caso più grave, anche se
il numero dei profughi coinvolti è minore, sarebbe quello di Tarek al Matar,
dove è stata segnalata la “sparizione” di una ventina di giovani, dieci eritrei
e dieci somali. A raccontare quanto è accaduto è stato un ragazzo diciottenne catturato
a Homs nel gennaio scorso da un gruppo di trafficanti e arrivato di recente a
Tripoli e poi a Tarek al Matar, dopo che la sua famiglia è riuscita a pagare i
12 mila dollari chiesti dai sequestratori per rilasciarlo. Un racconto in
“diretta”, fatto attraverso una serie di telefonate disperate, protrattesi per
oltre un’ora, proprio mentre si svolgevano i fatti.
Nella tarda serata, intorno
alle 20 (ora italiana: ndr) alcune
guardie del campo avrebbero cominciato ad ordinare a diversi profughi, in gran
parte non registrati, di seguire un libico, arrivato poco prima, per lavorare
come braccianti agricoli. Nessuno di loro lo aveva mai visto prima, ma
quell’uomo sembrava in grande familiarità con il personale in servizio nel
campo. “La nostra risposta – ha riferito il testimone nelle sue telefonate – è
stata un rifiuto in massa: nessuno di noi voleva muoversi dal campo. Avevamo
tutti paura di andare con quello sconosciuto. Paura di essere ceduti come
lavoratori schiavi o, peggio, di essere venduti, prima o poi, a una banda di
trafficanti, come è capitato a me all’inizio dell’anno. Tutti insieme ci siamo
rifugiati in una zona appartata del campo per tentare di sottrarci alla
consegna forzata e urlando la nostra disperazione per sollecitare sostegno e
aiuto da altri compagni. Abbiamo resistito per un’ora circa, poi una ventina di
noi sono stati prelevati da un gruppo di miliziani del servizio di vigilanza e
costretti a seguire quel libico fuori dal campo. Se ne sono dovuti andare così
come si trovavano, solo con gli indumenti che avevano indosso. Anzi, credo che
li abbiano obbligati a lasciare anche i cellulari. Io sono riuscito a
nascondermi. O forse alle guardie bastavano quelli che avevano ormai preso.
Così l’ho scampata…”.
Dalla notte tra il primo e
il due agosto nessuno ha saputo più nulla di questi venti ragazzi, alcuni dei
quali minorenni. Nulla fino alla sera del 5 agosto, quando uno di loro è stato
ricondotto a Tarek al Matar. “Dopo averci presi – ha raccontato – ci hanno
portato con un furgone chiuso in una grossa costruzione in muratura attrezzata
come una prigione. Non so dire dove si trovi. Però non deve essere lontana,
perché il viaggio è stato breve. Avevano detto che saremmo andati a lavorare.
Invece siamo rimasti rinchiusi lì per tutto il tempo, senza poter uscire
neanche per pochi minuti. Ne abbiamo dedotto che in realtà volevano venderci.
Così ci è sembrato di capire anche origliando i discorsi che facevano tra loro
alcuni guardiani. Nel tardo pomeriggio di domenica, poi, sono arrivate due
guardie a prendermi. Cercavano proprio me, perché mi hanno chiamato per nome.
Mi sono impaurito ma loro hanno detto subito che erano lì per riportarmi a Tarek
al Matar. E agli altri hanno assicurato che anche loro dovrebbero tornare tra
non molto. E’ tutto molto strano…”. Potrebbe essere una decisione presa in
seguito alla protesta scoppiata tra i detenuti nel campo di Tarek al Matar per
sapere della sorte dei compagni deportati. Ma allora non si capisce come mai
solo uno del gruppo sia stato riportato indietro mentre 19 restano sequestrati
in una prigione che non si sa dove sia.
L’episodio di Tarek al Sika,
avvenuto tra il 2 e il 3 agosto, seguirebbe grossomodo lo stesso copione. I
profughi interessati, però, sono molti di più, circa 200. I fatti sono stati
ricostruiti anche in questo caso grazie a testimonianze raccolte da esponenti
del Coordinamento Eritrea Democratica attraverso una serie di concitate
telefonate fatte durante la notte da alcuni profughi. Nella seconda metà di
luglio, dopo il 20, l’intero gruppo è stato trasferito da Tarek al Sika in
un’altra prigione, situata da qualche parte nei dintorni di Tripoli: una grossa
struttura in muratura, con un cortile circondato da un muro di cinta alto circa
due metri, sicuramente non molto lontano perché ci sono arrivati in meno di
un’ora di camion. Quasi tutti si trovavano a Tarek al Sika ormai da tempo e
buona parte, circa 110, risulterebbero registrati dall’Unhcr nell’ambito di un
programma di relocation verso il Niger e da qui, possibilmente, verso l’Europa.
Proprio per questo il trasferimento ha suscitato una grande inquietudine, ma
almeno inizialmente pare non ci siano state contestazioni. I problemi sono
iniziati quando, la sera del due agosto, sarebbe arrivato al campo un libico
sconosciuto ai profughi ma che si sarebbe mosso con estrema disinvoltura e che,
presenti le guardie stesse, avrebbe avvicinato i migranti, prospettando la
possibilità di farli imbarcare entro pochi giorni per l’Italia da un “posto
sicuro” e con una organizzazione “affidabile”. Di più: per vincere la
diffidenza ed, anzi, la decisa, crescente resistenza manifestata dai profughi,
quell’uomo li avrebbe messi in comunicazione, per telefono, con un eritreo il quale a sua volta, parlando in
tigrino, avrebbe confermato che, affidandosi alla persona che li aveva
contattati, si sarebbero potuti imbarcare entro pochi giorni.
Nessuno dei duecento si è
lasciato convincere. Anzi, molti hanno cominciato a protestare e, temendo di
essere costretti a seguire quel libico, hanno segnalato la situazione al
Coordinamento Eritrea. Tra tutti, ma in particolare tra i 90 che non
risulterebbero registrati, è fortissimo il sospetto che si sia messa in moto
una operazione per cederli come lavoratori-schiavi o peggio. “Ci hanno detto –
denunciano – di averci trasferito in un campo controllato dal Governo di
Tripoli per decongestionare l’affollamento enorme di Tarek al Sika. Ma questo
nuovo centro appare fuori controllo. Il personale di guardia non è nemmeno in
divisa e non sembra esserci una struttura operativa organizzata. Chiediamo di
essere riportati dove eravamo prima, a Tarek al Sika. Certo, lì le condizioni
di vita sono durissime, ma almeno è sicuramente una struttura ‘ufficiale’,
gestita da autorità istituzionali. Qui non si capisce bene nemmeno chi siano i
nostri carcerieri. E’ assurdo che quel libico a noi sconosciuto, che sembrava
però in grande familiarità con le guardie, sia potuto entrare liberamente e ci
abbia messo in contatto con un eritreo che ha parlato come un emissario dei
trafficanti di uomini. Lo abbiamo fatto presente a un funzionario arrivato da
Tarek al Sika il 3 agosto, dopo la nostra protesta della notte precedente. Ma
lui non sembra aver dato peso a quanto denunciavamo. Anzi, dopo aver parlato
con alcune guardie, ha ribadito la sua fiducia in quell’uomo, aggiungendo che
starebbe addirittura aiutando la polizia a combattere i clan criminali che
gestiscono il mercato di esseri umani”.
I nuovi casi di Tarek al
Matar e Tarek al Sika si sono verificati proprio all’indomani del respingimento
forzato di 101 migranti (tra cui 5 bambini e 5 donne in stato di gravidanza)
effettuato dalla nave italiana Asso
Ventotto. Trasbordati nel porto di Tripoli su una unità della Guardia
Costiera libica, quel centinaio di disperati sono stati sbarcati nella base
militare di Abu Sitta. Tutti i migranti che arrivano qui, dopo pochi giorni
vengono distribuiti nei centri di detenzione della zona, come Tajoura, Ain Zara
e, appunto, proprio Tarek al Matar e Tarek al Sika. Per il Governo italiano,
però, è tutto “regolare”. “Regolare” che profughi salvati da una nave italiana
(e dunque ormai in territorio italiano e sotto la tutela delle nostre leggi, a
cominciare dalla stessa Costituzione, terzo comma dell’articolo 10) vengano
riportati contro la loro volontà in Libia, uno Stato che non ha mai firmato la
Convenzione di Ginevra sui diritti dei rifugiati e che, soprattutto, non può
assolutamente essere considerato un “porto” ed anzi un paese sicuro: l’Unione
Europea lo ha ribadito con forza appena una decina di giorni fa, specificando
che nessuna nave degli Stati Ue può e deve riportare in Libia i migranti
eventualmente soccorsi in mare. “Regolare”, ancora, che quei profughi finiscano
in gironi infernali come Tarek al Matar e Tarek al Sika, ma anche Tajoura, Ain
Zara, Zuwara, Homs, Gharyan, Bani Walid… Gironi infernali dove decine di
giovani possono essere fatti sparire senza lasciare traccia. Come sembra sia accaduto
ai venti ragazzi portati via da Tarek al Matar la sera del primo agosto.
Da Tempi Moderni
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