domenica 2 settembre 2018

Una risposta al senatore Mauro Colorti


Come si vive in Eritrea

 Una risposta al senatore Mauro Colorti

a cura di Emilio Drudi

“In Eritrea non ci sono situazioni aperte di conflitto ed anzi le condizioni di vita non sono così male. C’è lavoro per tutti anche se c’è molta povertà, ma nessuno muore di fame”. Con queste motivazioni il senatore Mauro Colorti, del Movimento 5 Stelle, arriva alla conclusione che le migliaia di giovani che continuano a fuggire dal paese non vanno accolti come profughi o rifugiati politici ma considerati “migranti economici” attirati dall’idea “di fare la bella vita” (dunque eventualmente da respingere: ndr). Di conseguenza, dice, non sarebbero altro che “sciacalli” coloro che contestano il Governo di Asmara. Sciacalli, aggiunge, che “magari sono gli stessi che hanno avallato anni di politiche di rapina verso il terzo mondo”, dimenticano “che anche in Italia ci sono tanti poveri” e “su questi problemi girano il volto dall’altra parte”.

“In Eritrea ci ho lavorato”: così dice fin dalla premessa il senatore Colorti, lasciando intendere che la sua analisi ha forza perché si basa su elementi di conoscenza diretti molto concreti. Non c’è motivo di dubitare che in effetti Colorti abbia lavorato in Eritrea, anche molto a lungo. C’è da chiedersi però se, vivendo nel paese, si sia guardato un po’ intorno, al di là delle “vetrine” del regime. Sembra quasi di sentire, infatti, certi giudizi “basati sull’esperienza diretta” espressi a suo tempo sulla Germania di Hitler o l’Italia di Mussolini. Anche allora si diceva che tedeschi e italiani non vivevano male: che, anzi, disponevano di tutto il necessario e, specie i tedeschi, molto di più, senza tener conto però che era soffocata ogni forma di libertà. Ecco, è qui il punto. Ammesso pure – e non è certamente così – che in Eritrea la gente, ogni singola famiglia, abbia davvero il necessario per vivere dignitosamente, il punto è che l’Eritrea è la tomba dei diritti e della libertà. Il paese è da oltre vent’anni sotto il giogo di una dittatura feroce che, attraverso una militarizzazione sistematica e totale, lo ha trasformato in una enorme prigione, rubando la vita al suo popolo e in particolare ai giovani. Ecco perché si scappa dall’Eritrea. E, al contrario di quanto si vorrebbe far credere, non è cambiato nulla neanche dopo la recente firma che ha sancito la fine della lunghissima guerra contro l’Etiopia.

Altroché “sciacalli”, allora: chi contesta il regime non fa altro che dipingere la realtà. E sono tanti gli elementi che questa realtà aiutano a conoscerla davvero: basta non voltarsi dall’altra parte. Sarà sufficiente citarne alcuni

– Guerra permanente. Conclusa la trentennale lotta per l’indipendenza dall’Etiopia nel 1991, il regime ha trascinato l’Eritrea in una serie ininterrotta di conflitti già all’indomani dell’indipendenza (proclamata nel 1993), dal 1994 fino ad oggi, contro quasi tutti gli Stati vicini (prima il Sudan, poi lo Yemen, Gibuti e infine l’Etiopia, in questo caso addirittura dal 1998 sino a poche settimane fa), costruendosi così l’alibi del “nemico alle porte” per militarizzare completamente il paese, con una ferma di leva obbligatoria, il cosiddetto “servizio nazionale”, che può durare quasi tutta la vita.

– Costituzione soffocata. Con il pretesto della guerra, la Costituzione democratica varata nel 1997, fortemente voluta da tutti gli eritrei e considerata una delle più avanzate dell’Africa, non è mai entrata in vigore ed è stata in pratica cancellata. Soffocata spesso nel sangue di chi si batteva per la sua attuazione

 – Abolita la magistratura. La magistratura in pratica non esiste più: il regime l’ha sostituita nel 1996, durante la guerra contro Gibuti, con Corti Militari che rispondono solo al Governo e i cui giudizi sono inappellabili

– Al bando ogni dissenso. Ogni forma di opposizione o anche solo di dissenso è perseguita. Ci sono almeno 10 mila prigionieri politici, molti dei quali non si sa nemmeno che fine abbiano fatto. La svolta finale si è avuta a partire dal settembre 2001, quando c’è stata la prima ondata di arresti di massa contro parlamentari e personaggi dell’apparato statale e politico (spesso eroi della guerra d’indipendenza) contrari alla linea del presidente Isaias Afewerki, giornalisti, scrittori, editori, insegnanti. Arresti seguiti dalla chiusura di tutti i giornali liberi e dell’università di Asmara. Sono pratica abituale i fermi arbitrari di polizia, senza alcuna accusa specifica, seguiti spesso da sparizioni misteriose. Quasi mai i familiari sanno in quale carcere si trovino gli arrestati. Meno che mai possono andarli a trovare. L’opposizione parla anche di casi di uccisione mirati

– Stato-prigione. Che l’Eritrea sia uno stato-prigione lo dimostra il numero stesso delle carceri: oltre 300 (ma secondo alcune fonti della diaspora addirittura 350), da quelle locali o di commissariato a quelle speciali gestite dai servizi di sicurezza.  Oltre 300 carceri in un paese che conta circa 5,5 milioni di abitanti: nel Lazio, che ha grossomodo lo stesso numero di residenti, le prigioni sono 12 più quella militare. Le condizioni di detenzione vengono descritte come terribili, fino alla pratica di torture sistematiche, denunciate e descritte nei particolari, in vari rapporti, grazie a notizie filtrate nonostante lo strettissimo segreto di stato e riprese da diverse Ong od organi istituzionali internazionali..

– Sparare a vista per uccidere. Fuggire da questo stato-prigione è considerato un reato. La polizia (finanziata anche con fondi europei dopo la firma del Processo di Khartoum, nel 2014) ha l’ordine di sparare a vista, mirando a uccidere, contro chiunque tenti di varcare la frontiera senza permesso. Si contano così numerose vittime. L’episodio più drammatico risale alla fine di settembre 2014, quando una quindicina di ragazzi tra i 15 e i 18 anni furono massacrati al confine con il Sudan e  poi fatti sparire in una fossa comune. I giovani fuggiti all’estero, se ricondotti in Eritrea, vengono incriminati per l’espatrio clandestino e, soprattutto, per diserzione, di fronte alle Corti Militari, essendo tutti soggetti alla leva.

– Negata la libertà di religione. Non c’è libertà religiosa. Anche le confessioni consentite (ad esempio il cristianesimo copto di rito ortodosso o cattolico, alcune chiese protestanti, l’islam sunnita) vengono in realtà combattute o addirittura perseguitate con l’accusa di “interferenza” nella politica del regime. Lo dimostra, ad esempio, l'arresto domiciliare del patriarca Abune Antonios, l'arresto arbitrario di gruppi pentecostali, evangelisti, testimoni di Geova, la recente chiusura forzata di 8 cliniche cattoliche e alcune scuole cattoliche e islamiche. Ha suscitato grande clamore, in particolare, il caso dell’ultima scuola islamica di Asmara, sfociato in una grande protesta, seguita da numerosi arresti, tra cui quello di Hajji Musa Mohammednur, fondatore dell’istituto, un intellettuale islamico di grande prestigio, noto anche fuori dai confini, poi morto in carcere nel marzo scorso

– Nessuna libertà di stampa. La libertà di stampa, abolita nel settembre 2011 con la chiusura di tutti i giornali indipendenti, non è mai stata ripristinata. Nelle graduatorie su scala mondiale, redatte annualmente da Reporter Senza frontiere, il paese risulta costantemente negli ultimissimi posti e molto spesso proprio all’ultimo

– Situazione economica. Non è vero che tutti gli eritrei hanno comunque di che vivere. Molti riescono a sopravvivere soltanto grazie all’aiuto e alle rimesse (quasi sempre non ufficiali) che comunque gli esuli, i profughi fuggiti all’estero, cercano di far arrivare ai familiari rimasti in patria. E questo genere di aiuto diventa di per sé una denuncia della situazione reale vissuta dalla popolazione, anche se nel paese quasi nessuno è disponibile a raccontarlo, per paura della repressione poliziesca e di delazioni che porterebbero inesorabilmente all’arresto. Anzi, la paura è tale che quasi tutti i rapporti quotidiani sono guidati dalla diffidenza e da una sorta di “mascheramento”, specie con gli estranei e gli stranieri. “Tutti hanno un lavoro”, si dice. Peccato che questo lavoro, svolto in genere come militari attraverso il servizio nazionale, sia quasi gratuito (mediamente non più di 15-20 euro al mese) e accompagnato spesso anche da servizi in armi ausiliari (pattugliamenti, ispezioni, ecc.). La verità “economica”, insomma, è che la politica del regime ha trasformato l’Eritrea in uno Stato-paria: ne ha fatto uno dei luoghi più poveri del mondo, nonostante le ottime potenzialità. Per di più, la fuga a cui sono costretti i suoi giovani sta svuotando il paese delle sue energie migliori, privandolo persino del futuro.

– La presunta “congiura internazionale”. Il regime ha sempre giustificato le gravissime difficoltà economiche con le sanzioni e il blocco internazionale, che avrebbero isolato ed anzi ghettizzato l’Eritrea per ragioni politiche. La comunità internazionale, sotto la spinta degli Stati Uniti e dell’Europa, avrebbe cioè ordito una sorta di congiura perché Asmara, pressoché da sola, si sottrarrebbe alla logica di dominio imperialista dell’Occidente sul Sud del mondo: una sorta di David che ha il coraggio di combattere, quasi del tutto isolato, il Golia del capitalismo e del liberismo più sfrenati. Poi però, nel 2003, Asmara ha aderito alla “coalizione dei volenterosi” che ha sostenuto la guerra americana voluta dal presidente Bush junior contro l’Iraq: proprio quella guerra che come poche altre obbediva a criteri di dominio e spartizione imperialista. E, a ben vedere, il regime non ha mai abbandonato questa linea, come dimostrano le basi militari concesse ad Israele sulle isola Dahlak e sulla costa dell Mar Rosso e, in tempi ancora più recenti, le basi da cui gli aerei dell’aviazione militare degli Emirati Arabi e della coalizione a guida saudita decollano ogni giorno per bombardare lo Yemen (colpendo indiscriminatamente sempre più spesso anche obiettivi civili), in una guerra pure di stampo imperialista, per il controllo e il dominio politico e strategico della regione mediorientale

– Le inchieste dell’Onu. Ben due inchieste della Commissione Diritti Umani delle Nazioni Unite (pubblicate nel 2015 e nel 2016, dopo anni di indagini) hanno confermato la soppressione di ogni libertà e la violazione sistematica dei più elementari diritti umani, arrivando alla conclusione che in Eritrea il potere si basa sul terrore, fino alla “riduzione in schiavitù”. La seconda inchiesta, prosecuzione naturale della prima, in particolare, ha stabilito che ci sono gli elementi per deferire il presidente Isaias Afewerki e i suoi principali collaboratori alla Corte penale internazionale dell’Aia

– Pace con l’Etiopia: in Eritrea non è cambiato nulla. Nello scorso mese di giugno, Etiopia ed Eritrea hanno firmato la fine dello stato di guerra che durava dal 1998. Una guerra che, dopo le stragi dei primi due anni, fino al cessate il fuoco sancito ad Algeri nel dicembre del 2000, è proseguita con periodici scontri di frontiera, sconfinamenti, provocazioni. Il passo decisivo è stato compiuto dal nuovo primo ministro etiopico Abiy Ahmed, il quale, cogliendo tutti di sorpresa, nel contesto del vasto programma di riforme avviato sia in politica interna che estera, ha accettato tutte le condizioni poste nel 2002 dalla commissione internazionale nominata dall’Onu, dopo la tregua di Algeri, in precedenza sempre rifiutate da Addis Abeba, che poneva come condizione indispensabile l’esame e il conseguente accordo su tutte le controversie di confine simili a quelle sorte per il villaggio di Badme, che hanno portato al lunghissimo conflitto. Di fronte a questa offerta, Afewerki non ha potuto opporre un rifiuto ma, in realtà, il motore della pace è stata l’Etiopia mentre l’Eritrea sembra essere stata trascinata per i capelli a questo passo. Consapevole che proprio “l’arma della pace” può segnarne la fine, smontando l’alibi del “nemico alle porte” posto alla base della militarizzazione totale del paese, il regime sta ora cercando di presentare questo accordo come una propria vittoria, traendone elementi per rafforzarsi e incanalando le notizie come più gli fa comodo. E intanto all’interno non è cambiato nulla.

C’è da pensare che il senatore Colorti, nonostante in Eritrea “ci abbia lavorato”, magari  a lungo, non si sia accorto e dunque ignori tutto questo. Ma, se è così, la sua analisi non ha senso. Oppure, forse ne è a conoscenza, ma allora la conclusione sarebbe che il soffocamento di ogni libertà e la violazione sistematica dei diritti umani non contino granché o non contino affatto. Proprio come mostra di credere il presidente Isaias Afewerki, il quale non a caso ha definito più volte la democrazia una finzione o un inganno.  

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