lunedì 18 febbraio 2019

“L’Eritrea è ancora schiava della dittatura”: la diaspora chiede un confronto con Governo e Parlamento



di Emilio Drudi

“L’Europa e in particolare l’Italia stanno accentuando l’apertura di credito ‘al buio’ nei confronti del regime eritreo basandosi su una finzione: la finzione che la fine della guerra con l’Etiopia starebbe aprendo il paese alla democrazia. Ma altroché apertura alla democrazia. Il problema, in Eritrea, non era la guerra. Il problema era e resta la dittatura, che schiavizza il nostro popolo da oltre vent’anni e che ruba la vita ai nostri giovani. E’ assurdo ostinarsi a non vedere questa realtà. Chiediamo, allora, di essere ascoltati. Chiediamo di avere un confronto con il Governo e il Parlamento italiani e con il Parlamento europeo. Vogliamo capire come mai non sembrano avere più alcun valore i rapporti dell’Onu che hanno sempre descritto quella eritrea come una delle più feroci dittature del mondo. O che almeno abbiano il coraggio di dirci perché non intendono ascoltare le nostre ragioni. Perché viene ignorata, soffocata, la voce della popolazione eritrea, che ha continuato a fuggire in massa anche dopo l’accordo di pace con l’Etiopia”.
Il Coordinamento Eritrea Democratica chiede con forza un confronto con il presidente Giuseppe Conte o il ministro Enzo Moavero e con la Commissione Esteri della Camera. Lo fa da mesi, ma ora rinnova l’appello con determinazione ancora maggiore. “Perché – insiste – mai come adesso bisogna scegliere: o stare al gioco della dittatura, che sta cercando di fare della pace con l’Etiopia l’ennesimo pretesto propagandistico per rafforzarsi; o ascoltare chi si batte per una nuova Eritrea, facendo davvero della pace uno strumento per il ritorno della libertà e della democrazia. E ci rivolgiamo innanzi tutto all’Italia perché è l’Italia che più di altri ha accelerato l’apertura di credito senza condizioni al regime, dall’estate scorsa ad oggi, attraverso tutta una serie di iniziative che sembrano essere tappe ben precise di un programma preordinato. D’intesa con la stessa Asmara”.
“Il via a questa escalation di collaborazione con il governo di Afewerki – rileva sempre il Coordinamento – lo ha dato il viaggio del presidente Conte ad Asmara, presentato con grande enfasi sia in Italia che in Eritrea. Lo abbiamo già detto: è logico che l’Italia, come ogni altro Stato, abbia rapporti anche con una dittatura come quella eritrea. Rientra nel normale contesto delle relazioni di politica internazionale. Il punto è il modo in cui vengono impostate queste relazioni: se cioè al centro resta il rispetto dei diritti umani o se vengono fatti prevalere interessi geostrategici, magari inconfessabili e sulla pelle di milioni di persone. Se valgono sempre o no i valori della democrazia. Alla vigilia della sua partenza per Asmara, abbiamo posto a Conte alcuni quesiti e, in particolare, l’invito a chiedere conto della sorte delle migliaia di prigionieri politici e se è previsto o no il ripristino immediato della costituzione democratica votata nel 1997 e condivisa da tutto il popolo eritreo. Non ci risulta che se ne sia neanche accennato nei colloqui tra le due delegazioni. E’ seguito, nel mese di settembre 2018, un importante convegno economico a Bari, che ha prospettato ‘buone possibilità’ di investimenti per le imprese italiane nel Corno d’Africa ma soprattutto in Eritrea, ancora una volta ignorando quali sono, in Eritrea, le reali condizioni di lavoro. Poco dopo, nel mese di dicembre, c’è stato il viaggio ad Asmara della viceministra agli esteri, Emanuela Del Re, accompagnata dai rappresentanti di un’ottantina di aziende che avrebbero manifestato interesse a insediarsi o comunque a fare affari nel nostro paese. Il 2019, poi, si è aperto con l’impegno del Governo italiano di finanziare o comunque di farsi carico del progetto di fattibilità di una ferrovia che colleghi Addis Abeba con i porti eritrei di Massawa e Assab. Ora, infine, è prevista la visita in Eritrea del ministro Moavero. Il tutto, senza il minimo accenno, senza una sola parola, sulla realtà del regime. Realtà che resta quella terribile evidenziata dai rapporti pubblicati dall’Onu nel 2015 e nel 2016. E che proprio in virtù di quelle denunce nessuno può dire di ignorare. Né in Italia, né in Europa”.
Ecco, l’Europa. L’Unione Europea sembra aver  imboccato la “via italiana” nei confronti di Asmara: è di questi giorni la notizia che Bruxelles, attraverso il Fondo Fiduciario per l’Africa, finanzierà un primo progetto da 20 milioni di euro per la ricostruzione delle strade che collegano l’area di confine con l’Etiopia ai porti di Massawa e Assab. Lo ha comunicato il commissario Ue per la cooperazione internazionale, Neven Mimica, incontrando prima il premier etiope Abyi Ahmes ad Addis Abeba e poi il presidente Isaias Afewerki ad Asmara. “L’unione Europea – ha specificato Mimica, come riferiscono vari organi di stampa etiopici – è impegnata a sostenere Eritrea ed Etiopia nel mettere in atto il loro storico accordo di pace, che ha messo fine a venti anni di conflitto. Per farlo siamo pronti a lanciare un programma da 20 milioni di euro per costruire le strade che collegano i due Paesi. Questo consentirà di rafforzare i commerci, di consolidare la stabilità e di portare chiari benefici ai cittadini di entrambi i Paesi con la creazione di una crescita stabile e di posti di lavoro”.
Per migliaia di esuli eritrei rifugiati in tutta Europa, anche questo impegno appare l’ennesima dimostrazione di come la Ue sia portata sempre più spesso a ignorare quale sia, al di là della propaganda, la situazione in Eritrea anche dopo l’accordo con l’Etiopia. Del loro pensiero si è resa interprete l’agenzia Habeshia di don Mussie Zerai: “Va da sé che è da considerare positivo ed, anzi, una conquista, tutto quello che va nella direzione di rafforzare la pace, dopo una guerra disastrosa, costata tra 80 e 100 mila morti. Ma è difficile pensare a una vera pace, in Eritrea, senza componenti essenziali, vitali, come il rispetto pieno della libertà e dei diritti, Senza, cioè, una vasta operazione di verità e giustizia su quanto è accaduto negli ultimi vent’anni nel paese: una sorta di resa dei conti pacifica ma radicale, che evidenzi le gravi responsabilità del regime e ne consenta il superamento. Perché, anche dopo la firma della pace con l’Etiopia, il regime non ha mosso un solo passo verso la democrazia ma, anzi, ha presentato la fine della guerra come  una propria vittoria, traendone elementi per rafforzarsi. Senza cambiare nulla. Senza, cioè, che nulla sia cambiato nella vita del popolo eritreo”.
Il rischio è, insomma, secondo la diaspora, che la politica di “apertura di fiducia al buio” condotta sempre più spesso dall’Unione Europea, in nome di un cambiamento che in realtà non c’è, finisca per rinsaldare il regime di Asmara. Con il pericolo, in particolare, che se non saranno vincolati a precise, attente garanzie, vadano nella stessa direzione anche progetti come quello annunciato dal commissario Neven Mimica: un favore al regime, che ne trarrà forza e legittimazione.
“Con questo – tiene però a specificare don Zerai – non si vuole affermare, ovviamente, che i progetti proposti non debbano essere attuati. Al contrario. Il punto è il “come”. Si dice che questi progetti annunciati potranno ‘creare una crescita stabile e posti di lavoro’. In Eritrea, però, per lavori di questo genere – cantieri stradali, edilizia, miniere, ecc. – vengono impiegati i soldati di leva e i fondi, di fatto, incassati dal regime. E’ lo Stato stesso, cioè, a fornire la manodopera con i soldati del cosiddetto Servizio Nazionale. Teoricamente dovrebbero percepire un salario di circa 4 mila nakfa al mese (poco più di 200 euro) ed è questa, in effetti, la cifra teorica che compare sulle buste-paga che i militari sono costretti a firmare. In concreto, invece, quella cifra si riduce a soli 400 nakfa, appena il 10 per cento. Il resto lo trattiene lo Stato. L’Unione Europea, allora, se non vigilerà attentamente su come verranno gestiti i cantieri e la manodopera, rischia di rendersi complice di uno sfruttamento che rasenta il lavoro schiavo”.
L’agenzia Habeshia, allora, chiede che per il progetto annunciato dal commissario Neven Mimica e per eventuali altri progetti simili, sia l’Unione Europea stessa a disporre continui, rigidi controlli, con propri ispettori autonomi, sia sulla conduzione dei cantieri e l’avanzamento dei lavori, sia sulla scelta, la gestione e il trattamento del personale e della manodopera a tutti i livelli. Ispettori liberi di muoversi e incontrare chiunque vogliano, con la massima riservatezza e la massima tutela delle persone eventualmente contattate. E con la inderogabile condizione della libertà da ogni obbligo militare per tutto il personale impiegato nella progettazione e nei cantieri (tecnici, operai, manovalanza, ecc.).
“Quello annunciato, con 20 milioni di investimenti – conclude don Zerai – ha una valenza economica tutto sommato non di grande portata. Ma può diventare un capitolo importante per mettere alla prova il regime e cominciare davvero a muovere qualche passo verso la libertà e il rispetto dei diritti in Eritrea. Qualche primo passo verso quel cambiamento di cui finora non si è vista traccia e che in realtà il regime non vuole, conscio com’è che ogni passo verso il cambiamento ne accelera la fine. Sta all’Unione Europea decidere se vuol stare al gioco delle finte aperture mostrate dalla dittatura o se invece vuole schierarsi con quella ‘nuova Eritrea’ a cui guardano milioni di donne e uomini, dentro e fuori dal paese”.

martedì 12 febbraio 2019

Garanzie contro il lavoro schiavo e per un vero cambiamento in Eritrea


Agenzia Habeshia. Comunicato stampa




L’Unione Europea, attraverso il Fondo Fiduciario per l’Africa, finanzierà un primo progetto da 20 milioni di euro per la ricostruzione delle strade che collegano l’area di confine con l’Etiopia ai porti di Massawa e Assab. Lo ha comunicato il commissario Ue per la cooperazione internazionale, Neven Mimica, incontrando prima il premier etiope Abyi Ahmes ad Addis Abeba e poi il presidente Isaias Afewerki ad Asmara.
“L’unione Europea – ha specificato Mimica, secondo quanto riferiscono vari organi di stampa etiopici – è impegnata a sostenere Eritrea ed Etiopia nel mettere in atto il loro storico accordo di pace, che ha messo fine a venti anni di conflitto. Per farlo siamo pronti a lanciare un programma da 20 milioni di euro per costruire le strade che collegano i due Paesi. Questo consentirà di rafforzare i commerci, di consolidare la stabilità e di portare chiari benefici ai cittadini di entrambi i Paesi con la creazione di una crescita stabile e di posti di lavoro”.
Va da sé che è da considerare positivo ed, anzi, una conquista, tutto quello che va nella direzione di rafforzare la pace, dopo una guerra disastrosa, costata tra 80 e 100 mila morti. Ma è difficile pensare a una vera pace, in Eritrea, senza componenti essenziali, vitali, come il rispetto pieno della libertà e dei diritti, Senza, cioè, una vasta operazione di verità e giustizia su quanto è accaduto negli ultimi vent’anni nel paese: una sorta di resa dei conti pacifica ma radicale, che evidenzi le gravi responsabilità del regime e ne consenta il superamento. Perché il vero problema, in Eritrea, prima ancora che la guerra, è sempre stato ed è tuttora il regime. Il quale, anche dopo la firma della pace con l’Etiopia, non ha mosso un solo passo verso la democrazia ma, anzi, ha presentato la fine della guerra come  una propria vittoria, traendone elementi per rafforzarsi. Senza cambiare nulla. Senza, cioè, che nulla sua cambiato nella vita del popolo eritreo.
L’apertura di fiducia “al buio” in atto negli ultimi tempi, nei confronti di Asmara, ad opera di gran parte della comunità internazionale e soprattutto dell’Unione Europea, offre a quella che è sempre stata considerata una delle più feroci dittature del mondo, ulteriori elementi per rafforzarsi e mostrare un cambiamento che in realtà non c’è. Se non saranno vincolati a precise, attente garanzie, rischiano di andare nella stessa direzione anche progetti come quello annunciato dal commissario Neven Mimica: un favore al regime, che ne trarrà forza e legittimazione.
Con questo, non si vuole affermare, ovviamente, che i progetti proposti non debbano essere attuati. Al contrario. Il punto, però è il “come”. Si parla, in particolare, della prospettiva che l’attuazione dei progetti annunciati possa “creare una crescita stabile e posti di lavoro”. In Eritrea, però, per lavori di questo genere – cantieri stradali, edilizia, miniere, ecc. – vengono impiegati i soldati di leva e i fondi, di fatto, sono incassati dal regime. E’ lo Stato stesso, cioè, a fornire la manodopera con i soldati del cosiddetto Servizio Nazionale. Teoricamente dovrebbero percepire un salario di circa 4 mila nakfa al mese (poco più di 200 euro) ed è questa, in effetti, la cifra teorica che compare sulle buste-paga che i militari sono costretti a firmare. Nella realtà, però, quella cifra si riduce a soli 400 nakfa, appena il 10 per cento. Il resto lo trattiene lo Stato. L’Unione Europea, allora, se non vigilerà attentamente su come verranno gestiti i cantieri e la manodopera, rischia di rendersi complice di questo sfruttamento che rasenta il lavoro schiavo.
Ben vengano, allora, questo progetto appena annunciato dal commissario Neven Mimica ed altri progetti simili, ma alla precisa, rigida, radicale condizione che sia l’Unione Europea stessa a controllare, con propri ispettori autonomi, sia la conduzione dei cantieri e l’avanzamento dei lavori, sia la scelta, la gestione e il trattamento del personale e della manodopera a tutti i livelli. Ispettori, ben inteso, liberi di muoversi e incontrare chiunque vogliano, con la massima riservatezza e la massima tutela delle persone eventualmente contattate. Ed appare ovvio, in questo contesto, che la prima, inderogabile condizione da porre è la libertà da ogni obbligo militare per tutto il personale impiegato nella progettazione e nei cantieri (tecnici, operai, manovalanza, ecc.).
Quello annunciato, con 20 milioni di investimenti, ha una valenza economica tutto sommato non di grande portata. Ma può diventare un capitolo importante per mettere alla prova il regime e cominciare davvero a muovere qualche passo verso la libertà e il rispetto dei diritti in Eritrea. Qualche primo passo verso quel cambiamento di cui finora non si è vista traccia e che in realtà il regime non vuole, conscio com’è che ogni passo verso il cambiamento ne accelera la fine. Sta all’Unione Europea decidere se vuol stare al gioco delle finte aperture mostrate dalla dittatura o se invece vuole schierarsi con quella “nuova Eritrea” a cui guardano milioni di donne e uomini, dentro e fuori dal paese.