di Emilio Drudi
“L’Europa e in
particolare l’Italia stanno accentuando l’apertura di credito ‘al buio’ nei
confronti del regime eritreo basandosi su una finzione: la finzione che la fine
della guerra con l’Etiopia starebbe aprendo il paese alla democrazia. Ma
altroché apertura alla democrazia. Il problema, in Eritrea, non era la guerra.
Il problema era e resta la dittatura, che schiavizza il nostro popolo da oltre
vent’anni e che ruba la vita ai nostri giovani. E’ assurdo ostinarsi a non
vedere questa realtà. Chiediamo, allora, di essere ascoltati. Chiediamo di
avere un confronto con il Governo e il Parlamento italiani e con il Parlamento
europeo. Vogliamo capire come mai non sembrano avere più alcun valore i
rapporti dell’Onu che hanno sempre descritto quella eritrea come una delle più
feroci dittature del mondo. O che almeno abbiano il coraggio di dirci perché
non intendono ascoltare le nostre ragioni. Perché viene ignorata, soffocata, la
voce della popolazione eritrea, che ha continuato a fuggire in massa anche dopo
l’accordo di pace con l’Etiopia”.
Il Coordinamento
Eritrea Democratica chiede con forza un confronto con il presidente Giuseppe
Conte o il ministro Enzo Moavero e con la Commissione Esteri della Camera. Lo
fa da mesi, ma ora rinnova l’appello con determinazione ancora maggiore. “Perché
– insiste – mai come adesso bisogna scegliere: o stare al gioco della
dittatura, che sta cercando di fare della pace con l’Etiopia l’ennesimo
pretesto propagandistico per rafforzarsi; o ascoltare chi si batte per una
nuova Eritrea, facendo davvero della pace uno strumento per il ritorno della
libertà e della democrazia. E ci rivolgiamo innanzi tutto all’Italia perché è
l’Italia che più di altri ha accelerato l’apertura di credito senza condizioni
al regime, dall’estate scorsa ad oggi, attraverso tutta una serie di iniziative
che sembrano essere tappe ben precise di un programma preordinato. D’intesa con
la stessa Asmara”.
“Il via a questa
escalation di collaborazione con il governo di Afewerki – rileva sempre il
Coordinamento – lo ha dato il viaggio del presidente Conte ad Asmara,
presentato con grande enfasi sia in Italia che in Eritrea. Lo abbiamo già
detto: è logico che l’Italia, come ogni altro Stato, abbia rapporti anche con
una dittatura come quella eritrea. Rientra nel normale contesto delle relazioni
di politica internazionale. Il punto è il modo in cui vengono impostate queste
relazioni: se cioè al centro resta il rispetto dei diritti umani o se vengono
fatti prevalere interessi geostrategici, magari inconfessabili e sulla pelle di
milioni di persone. Se valgono sempre o no i valori della democrazia. Alla
vigilia della sua partenza per Asmara, abbiamo posto a Conte alcuni quesiti e,
in particolare, l’invito a chiedere conto della sorte delle migliaia di
prigionieri politici e se è previsto o no il ripristino immediato della
costituzione democratica votata nel 1997 e condivisa da tutto il popolo eritreo.
Non ci risulta che se ne sia neanche accennato nei colloqui tra le due
delegazioni. E’ seguito, nel mese di settembre 2018, un importante convegno
economico a Bari, che ha prospettato ‘buone possibilità’ di investimenti per le
imprese italiane nel Corno d’Africa ma soprattutto in Eritrea, ancora una volta
ignorando quali sono, in Eritrea, le reali condizioni di lavoro. Poco dopo, nel
mese di dicembre, c’è stato il viaggio ad Asmara della viceministra agli
esteri, Emanuela Del Re, accompagnata dai rappresentanti di un’ottantina di
aziende che avrebbero manifestato interesse a insediarsi o comunque a fare
affari nel nostro paese. Il 2019, poi, si è aperto con l’impegno del Governo
italiano di finanziare o comunque di farsi carico del progetto di fattibilità
di una ferrovia che colleghi Addis Abeba con i porti eritrei di Massawa e
Assab. Ora, infine, è prevista la visita in Eritrea del ministro Moavero. Il
tutto, senza il minimo accenno, senza una sola parola, sulla realtà del regime.
Realtà che resta quella terribile evidenziata dai rapporti pubblicati dall’Onu
nel 2015 e nel 2016. E che proprio in virtù di quelle denunce nessuno può dire
di ignorare. Né in Italia, né in Europa”.
Ecco, l’Europa. L’Unione
Europea sembra aver imboccato la “via
italiana” nei confronti di Asmara: è di questi giorni la notizia che Bruxelles,
attraverso il Fondo Fiduciario per l’Africa, finanzierà un primo progetto da 20
milioni di euro per la ricostruzione delle strade che collegano l’area di
confine con l’Etiopia ai porti di Massawa e Assab. Lo ha comunicato il
commissario Ue per la cooperazione internazionale, Neven Mimica, incontrando
prima il premier etiope Abyi Ahmes ad Addis Abeba e poi il presidente Isaias
Afewerki ad Asmara. “L’unione Europea – ha specificato Mimica, come riferiscono
vari organi di stampa etiopici – è impegnata a sostenere Eritrea ed Etiopia nel
mettere in atto il loro storico accordo di pace, che ha messo fine a venti anni
di conflitto. Per farlo siamo pronti a lanciare un programma da 20 milioni di
euro per costruire le strade che collegano i due Paesi. Questo consentirà di
rafforzare i commerci, di consolidare la stabilità e di portare chiari benefici
ai cittadini di entrambi i Paesi con la creazione di una crescita stabile e di
posti di lavoro”.
Per migliaia di
esuli eritrei rifugiati in tutta Europa, anche questo impegno appare l’ennesima
dimostrazione di come la Ue sia portata sempre più spesso a ignorare quale sia,
al di là della propaganda, la situazione in Eritrea anche dopo l’accordo con
l’Etiopia. Del loro pensiero si è resa interprete l’agenzia Habeshia di don
Mussie Zerai: “Va da sé che è da considerare positivo ed, anzi, una conquista,
tutto quello che va nella direzione di rafforzare la pace, dopo una guerra
disastrosa, costata tra 80 e 100 mila morti. Ma è difficile pensare a una vera
pace, in Eritrea, senza componenti essenziali, vitali, come il rispetto pieno
della libertà e dei diritti, Senza, cioè, una vasta operazione di verità e
giustizia su quanto è accaduto negli ultimi vent’anni nel paese: una sorta di
resa dei conti pacifica ma radicale, che evidenzi le gravi responsabilità del
regime e ne consenta il superamento. Perché, anche dopo la firma della pace con
l’Etiopia, il regime non ha mosso un solo passo verso la democrazia ma, anzi,
ha presentato la fine della guerra come
una propria vittoria, traendone elementi per rafforzarsi. Senza cambiare
nulla. Senza, cioè, che nulla sia cambiato nella vita del popolo eritreo”.
Il rischio è,
insomma, secondo la diaspora, che la politica di “apertura di fiducia al buio”
condotta sempre più spesso dall’Unione Europea, in nome di un cambiamento che
in realtà non c’è, finisca per rinsaldare il regime di Asmara. Con il pericolo,
in particolare, che se non saranno vincolati a precise, attente garanzie, vadano
nella stessa direzione anche progetti come quello annunciato dal commissario
Neven Mimica: un favore al regime, che ne trarrà forza e legittimazione.
“Con questo – tiene però
a specificare don Zerai – non si vuole affermare, ovviamente, che i progetti
proposti non debbano essere attuati. Al contrario. Il punto è il “come”. Si dice
che questi progetti annunciati potranno ‘creare una crescita stabile e posti di
lavoro’. In Eritrea, però, per lavori di questo genere – cantieri stradali,
edilizia, miniere, ecc. – vengono impiegati i soldati di leva e i fondi, di
fatto, incassati dal regime. E’ lo Stato stesso, cioè, a fornire la manodopera
con i soldati del cosiddetto Servizio Nazionale. Teoricamente dovrebbero
percepire un salario di circa 4 mila nakfa al mese (poco più di 200 euro) ed è
questa, in effetti, la cifra teorica che compare sulle buste-paga che i
militari sono costretti a firmare. In concreto, invece, quella cifra si riduce
a soli 400 nakfa, appena il 10 per cento. Il resto lo trattiene lo Stato.
L’Unione Europea, allora, se non vigilerà attentamente su come verranno gestiti
i cantieri e la manodopera, rischia di rendersi complice di uno sfruttamento
che rasenta il lavoro schiavo”.
L’agenzia Habeshia,
allora, chiede che per il progetto annunciato dal commissario Neven Mimica e
per eventuali altri progetti simili, sia l’Unione Europea stessa a disporre
continui, rigidi controlli, con propri ispettori autonomi, sia sulla conduzione
dei cantieri e l’avanzamento dei lavori, sia sulla scelta, la gestione e il trattamento
del personale e della manodopera a tutti i livelli. Ispettori liberi di
muoversi e incontrare chiunque vogliano, con la massima riservatezza e la
massima tutela delle persone eventualmente contattate. E con la inderogabile
condizione della libertà da ogni obbligo militare per tutto il personale
impiegato nella progettazione e nei cantieri (tecnici, operai, manovalanza, ecc.).
“Quello annunciato,
con 20 milioni di investimenti – conclude don Zerai – ha una valenza economica
tutto sommato non di grande portata. Ma può diventare un capitolo importante
per mettere alla prova il regime e cominciare davvero a muovere qualche passo
verso la libertà e il rispetto dei diritti in Eritrea. Qualche primo passo
verso quel cambiamento di cui finora non si è vista traccia e che in realtà il
regime non vuole, conscio com’è che ogni passo verso il cambiamento ne accelera
la fine. Sta all’Unione Europea decidere se vuol stare al gioco delle finte
aperture mostrate dalla dittatura o se invece vuole schierarsi con quella ‘nuova
Eritrea’ a cui guardano milioni di donne e uomini, dentro e fuori dal paese”.