La
Chiesa, nel continuare il suo servizio al suo Signore, non può non interessarsi
anche dei problemi e delle necessità dell’uomo (salute, istruzione, etc.),
perché vi è un preciso comandamento di Gesù Cristo, secondo il quale non basta
amare e onorare Dio: è altrettanto doveroso amare il prossimo, tutti gli uomini,
e fare loro del bene. Il servizio che la Chiesa offre agli uomini e alle donne
per mezzo dei suoi figli e figlie non ha finalità di proselitismo religioso: molto
semplicemente esse vanno incontro alle necessità degli uomini e delle donne di
ogni tempo perché ciò fa parte integrale
della sua fede. Infatti “la fede senza le opere è morta” (Gc 2,26).
Con riferimento alla recente
nazionalizzazione delle cliniche cattoliche da parte del governo eritreo, in
queste settimane abbiamo registrato alcuni commenti e dichiarazioni palesemente
erronei e fuorvianti, a cui riteniamo di dover offrire essenziali
chiarificazioni per chi ha interesse di conoscere la verità dei fatti.
1.-
Le recenti misure adottate dal governo eritreo, si dice, sarebbero un’applicazione
del proclama del 1995!
Quando fu emanato quel Proclama, la
Chiesa Cattolica in Eritrea consegnò alle più alte autorità statali una chiara
ed articolata riflessione/risposta sui punti centrali del documento, con lo
scopo di facilitare una reciproca comprensione e suggerire modifiche e correzioni
al medesimo testo. Si partiva dalla premessa che non era possibile tacere
quando ci si trovasse di fronte a problemi ed approcci che toccavano la propria
identità, i propri diritti e doveri. Per questo si proponeva al Governo un
dialogo, in quanto ciò costituiva parte della sostanza della libertà, la quale
a sua volta avrebbe permesso alla Chiesa di autodefinirsi e di illustrare la propria
identità, i propri diritti, missione e servizi. Più specificatamente, nella sua
riposta, la Chiesa chiarì, puntualizzò e corresse gli errori e le imprecisioni
contenute nel Proclama relativamente a quelle specifiche tematiche.
Tutto ciò premesso, la nostra risposta ribadì
che ogni servizio che la Chiesa svolge a favore dell’uomo e della donna non
solo non ha nulla di incompatibile con le leggi e con la legalità, ma si propone
di sostenere i principi che lo stato, qualsiasi stato, afferma di volere
promuovere per la vera e autentica crescita e maturità della società umana. In
termini di tempo è di spazio, la Chiesa ha perseguito tali finalità per duemila
anni e in tutti le latitudini del mondo. Ad essa non bastano chiese e cappelle
per esplicitare la sua identità religiosa e celebrare la sua fede. Le occorrono
luoghi e strutture anche per attuare quella componente integrale del suo credo
religioso che è l’amore per il prossimo. La Chiesa non obbliga nessuno ad
avvalersi delle sue attività socio-caritative; è semmai essa stessa obbligata,
e ne ha il diritto, di adempiere tutti i suoi doveri verso chi sceglie di ricorrere
ai suoi ministeri di carità: poiché, lo ribadiamo ancora una volta, ciò fa parte
essenziale della sua fede, e senza di esso questa perde il suo significato.
Perciò guai, se per inerzia o pigrizia della Chiesa, tali opere venissero a
mancare fra i suoi ministeri! D’altra parte, se per intervento di forze esterne
le venisse impedito di svolgere le opere di carità, verrebbe violato il suo
diritto al libero esercizio della fede.
2.-
Le istituzioni caritative gestite dalla Chiesa, si afferma, non apparterrebbero
né ad essa, né agli istituti religiosi ivi impegnati, e nemmeno li riguardano, in
quanto sono donazioni di enti di beneficenza.
a. Gli aiuti erogati ai bisognosi che ricorrono
alle nostre strutture non sono donazioni di un non meglio specificato e definito,
sedicente benefattore, bensì l’espressione di un’organica e programmata cooperazione
inter-ecclesiale, cioè fra le comunità cattoliche sparse nel mondo da una
parte, e le chiese viventi ed operanti in mezzo alle popolazioni in via di
progresso, dall’altra. Gli enti di beneficenza che, in tale contesto, ci offrono
i loro aiuti, lo fanno con la deliberata e dichiarata intenzione che siano a
nostra completa disposizione, affinché tramite noi raggiungano i bisognosi. A
tale fine, gli aiuti ci vengono consegnati in base ad una comprovata e
consolidata fiducia nei nostri confronti. Altrimenti, perché mai i nostri
partner non li avrebbero consegnati alle istituzioni statali? D’altro canto
forse che gli stessi governi non ricevono aiuti destinati al popolo e alla nazione
da parte di enti e istituzioni che anch’essi chiamano “sostenitori” o
“partner”?
b. Le istituzioni di beneficenza sono
libere, nel rispetto della legge, di fare gestire i loro aiuti da chi vogliono.
In tale contesto esse scelgono di avvalersi delle congregazioni religiose
cattoliche e consegnano ad esse i loro contributi, in quanto le ritengono
competenti e dirette conoscitrici delle necessità e dei problemi delle nostre
popolazioni.
c. In quanto persona giuridica, anche la
Chiesa ha il diritto nativo di acquisire e di possedere: tale diritto afferisce
alla sua identità, alla sua fede e ai suoi servizi.
d. Non vediamo nessun ragionevole motivo
perché l’esercizio di un simile diritto possa essere vietato, fintantoché rimane
immune da reati o da azioni a questi riconducibili. Anzi, tale esercizio è reso
inderogabile dai bisogni e dalle necessità delle persone. Con coscienza
tranquilla possiamo riaffermare l’integrità morale e la trasparenza deli nostri
servizi, ieri come oggi, così come la loro utilità per gli uomini e le donne del
nostro paese. E’ quanto può essere attestato da tutti, amici e meno amici, nella
stessa misura.
e. In considerazione dei punti di cui
sopra, le competenti autorità ministeriali e governative stesse hanno sempre
riconosciuto quanto veniva in nostro possesso, attraverso un processo di
ricognizione e registrazione legale, con relativa documentazione e sotto il
nostro nome.
3.
Le cliniche e le scuole gestite dalla chiesa, secondo qualche isolata voce, opererebbero
solo in aree cattoliche!
a. Se non fosse che c’è sempre qualche incurabile
ingenuo in giro pronto ad abboccare all’amo, e che non sarebbe giusto lasciare che
gli ingannatori per hobby o per professione scorrazzino liberamente nei media,
la falsità dell’addebito è talmente evidente, che non ci sarebbe nemmeno
bisogno di soffermarvisi. L’lato numero e
la diffusione nel mondo di eritrei, istruiti e curati nella scuole e nelle
cliniche cattoliche senza distinzione di
razza, di religione, di cultura, sono una vivente testimonianza
dell’universalismo delle nostre opere. Siccome tali opere, lungi dall’essere
come dei segni sulla sabbia, sono riccamente documentate, archiviate, e
riportate nei più svariati curricula e certificati, sarebbe estremamente
agevole, per chi se ne curasse, conoscere chi ha studiato dove, e chi si è
curato dove! Basterebbe una scorsa ai registri conservati nelle nostre
strutture e nei competenti ministeri governativi.
b. Un altro punto che non richiede né
studi approfonditi, né analisi, è la distribuzione delle nostre attività
caritative e di promozione sociale nell’intero territorio nazionale: basterebbe
aprire bene gli occhi e dare uno sguardo alla collocazione geografica delle nostri
strutture da una parte, e le aree di insediamento delle comunità cattoliche
dall’altra: così la grossolana falsità dell’addebito salterebbe da sola agli
occhi!
c. L’accusa che la selezione dei
destinatari delle nostre opere obbedirebbe a criteri etnici, religiosi, ecc… è
platealmente smentita da un altro dato di fatto: non solo le persone che
beneficiano dei nostri servizi, ma perfino quelle che erogano tali servizi –
dal portinaio, agli insegnanti, agli, infermieri e ai medici - appartengono alle più diversificate
provenienze religiose, culturali, etniche!
5.
Le strutture caritative, così l’ennesima bufala, sarebbero strumenti di
proselitismo religioso!
a. I propagatori di questa falsità in
genere si ricollegano a quella riportata al n.3 e, inevitabilmente, l’accusa gli
si sfarina in mano: se queste strutture servono solo quanti appartengono già
alla Chiesa cattolica, come è possibile che le medesime siano strumenti di
proselitismo cattolico?
b. Possiamo lanciare una sfida? Se c’è
qualcuno o qualcuna - fra le centinaia di migliaia di persone passate per le
nostre strutture - a cui è stato chiesto di accettare il Cattolicesimo come
precondizione per essere curati o istruiti,
può per favore farsi avanti e alzare la mano a conferma di tale
illazione? Siamo certi che i propagandisti
si sarebbero trovati davanti a una smentita senza appello! Più semplicemente è
nel modus operandi e nella missione della Chiesa non sfruttare la povertà degli
individui per ingrossare le file dei suoi membri e, ugualmente, non accogliere chiunque,
spinto o ingannato da interessi materiali, chiedesse di fare parte delle sue
comunità di fedeli. Infatti la parola di Gesù è esplicita a tal proposito: “voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché
avete mangiato di quei pani e vi siete saziati” (Gv 6,26).
c. Ben diverso è invece il discorso di
chi liberamente e spontaneamente chiede di unirsi alla Chiesa cattolica, perché
edificato dalla testimonianza di vita e dalla totale dedizione a Dio e ai
fratelli di quanti e quante operano nelle nostre strutture. Ma ciò, lungi dal privare di un diritto il richiedente, è
semmai motivo di onore per tutte la parti in gioco: per coloro che con la loro
vita e il loro disinteressato servizio incarnano una testimonianza viva e
credibile, come per quelli che con piena cognizione di causa, maturo
discernimento e libera scelta, lasciandosi ispirare dalla testimonianza delle
persone con cui vengono a contatto, decidono di unirsi alla Chiesa cattolica.
Tale scelta è frutto della libertà e della lucida riflessione personale;[1]
contestualmente, ogni persona ha il diritto inalienabile, radicato nella legge
naturale e riconosciuto dalla leggi internazionali, di fare le proprie scelte religiose, senza
condizionamenti e senza coercizioni.
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