Al prof. Giusepep Conte,
presidente del Consiglio
p.c. on. Luigi Di Maio,
Ministro degli Esteri
Gentile presidente,
torniamo a scriverle, a nome
dell’agenzia Habeshia, dopo la lettera-appello che le abbiamo
inviato alla vigilia del suo viaggio ad Asmara, un anno fa. Un altro
anno di gravi sofferenze e soprusi subiti dal popolo eritreo. E di
grande delusione – l’ennesima delusione – per chi sperava che
la firma del trattato di pace con l’Etiopia, dopo vent’anni di
guerra, avviasse finalmente il nostro Paese sulla strada della
libertà e della democrazia.
Vogliamo partire da un
episodio accaduto proprio in questi giorni. Come certamente sa, il
regime ha chiuso e preso possesso di sette scuola gestite da
organizzazioni religiose, in maggioranza cattoliche ma anche
cristiane protestanti e islamiche. Scuole completamente gratuite,
frequentate dai ragazzi delle famiglie più povere ed emarginate e
che operavano in diverse città, scelte con il criterio di
intervenire lì dove la necessità è maggiore. Il Governo ha
giustificato il provvedimento con la legge del 1995 che assegna alla
esclusiva competenza dello Stato ogni forma di attività sociale e di
assistenza. Ma che questa legge sia soltanto un pretesto emerge dal
fatto che in realtà quegli istituti hanno operato per anni, senza
che lo Stato si sia mai intromesso. C’è da credere, allora, che si
tratti di una ritorsione contro la Chiesa Cattolica eritrea la quale,
attraverso i suoi vescovi, ha sollecitato una concreta politica di
riforme, l’attuazione della Costituzione approvata nel 1997 ma mai
entrata in vigore, la convocazione di libere elezioni.
E’ – questo delle scuole –
solo l’ultimo anello di una lunga catena di vicende che dimostrano
come dalla firma della pace in poi, nel luglio del 2018, in Eritrea
in realtà non sia cambiato nulla. Prima ancora delle scuole, nel
mese di luglio, sono stati progressivamente chiusi ben 21 ospedali o
centri medici, anche questi gestiti da organizzazioni religiose,
anche questi completamente gratuiti, anche questi unico, essenziale
punto di riferimento per migliaia di persone delle classi più
svantaggiate. Anche questi dislocati nelle zone dove sono più
evidenti il bisogno, il disagio, la povertà. E queste prepotenze,
pur colpendo di fatto, in primo luogo, proprio il popolo in nome del
quale la dittatura dice di governare, per certi versi sono ancora il
meno, perché non sono mai cessate persecuzioni molto più dirette,
fatte di soppressione di ogni forma di dissenso, arresti, sparizioni
forzate, carcerazioni senza alcuna accusa, galera, angherie e minacce
anche nei confronti dei dissidenti della diaspora che cercano di
combattere o comunque non esitano a denunciare il regime dall’esilio.
La realtà, in Eritrea, è
cristallizzata a un anno e più fa: non è stato liberato uno solo
delle migliaia di prigionieri politici (detenuti in condizioni
inumane e quasi sempre in località segrete e inaccessibili) ma anzi
altri se ne sono aggiunti; la Costituzione del 1997, “congelata”
prima ancora che entrasse in vigore con il pretesto della guerra
contro l’Etiopia, resta lettera morta; continua, nonostante non ci
sia più neanche il pretesto del “nemico alle porte”, la
militarizzazione totale della popolazione, attraverso quel servizio
di leva a tempo indefinito che ha trasformato il paese una enorme
caserma/prigione, fornendo al regime sia soldati in armi che
manodopera a bassissimo costo per un lavoro che rasenta la schiavitù.
Che nulla sia cambiato lo
dimostrano non solo le voci delle migliaia di ragazzi che continuano
a scappare, svuotando l’Eritrea delle sue energie migliori, ma
anche la recente relazione di Human Rights Watch e soprattutto il
rapporto dell’Onu che nel luglio scorso (a un anno esatto dalla
“pace”) ha confermato il mandato alla Commissione d’inchiesta
sulla violazione dei diritti umani. O, peggio, se qualcosa c’è di
nuovo, questo “nuovo” è solo un incredibile rafforzamento della
dittatura, grazie all’apertura di credito “al buio” concessa al
regime da parte della comunità internazionale e, in particolare,
proprio dall’Italia, all’indomani della riconciliazione con
l’Etiopia. Un rafforzamento, cioè, di quello che è il nodo
cruciale: l’Eritrea è quello che è stata in tutti questi anni ed
è tuttora – spingendo centinaia di migliaia di persone ad
abbandonarla – non perché ci fosse la guerra con l’Etiopia, ma
perché ad Asmara è al potere una delle più feroci dittature del
mondo.
Un anno fa, partendo per
Asmara, lei tenne più volte a sottolineare il fatto che l’Italia
era il primo Stato occidentale a recarsi in visita ufficiale in
Eritrea dopo la firma della pace. Una visita che – si disse –
avrebbe inaugurato una sorta di “nuovo corso”. A quel suo viaggio
hanno fatto seguito diverse altre importanti “aperture”, come la
missione ad Asmara dell’allora viceministro degli esteri Emanuela
Del Re, con al seguito decine di imprenditori italiani, o l’impego
a finanziare una serie di opere e infrastrutture nel paese. Ecco, a
un anno di distanza, ribadiamo con ancora più forza l’appello che
le abbiamo lanciato allora. Comprendiamo bene che un Governo, uno
Stato, deve avere rapporti anche con dittature come quella di Asmara.
E’ nell’ordine logico della politica internazionale. Il punto,
però, è “come” vengono impostati questi rapporti. Si può fare
finta di nulla, chiudendo gli occhi di fronte alla realtà, in nome
di interessi geostrategici ed economici. Oppure si può partire
proprio da quella realtà, per impostare ed aprire i rapporti ponendo
precise condizioni preliminari: tenendo ben ferma, cioè, la
questione del rispetto dei diritti umani come requisito
irrinunciabile e invalicabile, anteposto ad ogni altro genere di
interessi.
La cosiddetta “realpolitik”
liquida o addirittura bolla il tipo di scelta che suggeriamo come del
tutto teorica e non percorribile. In una parola, “roba da sognatori
idealisti”. Noi ci limitiamo a ricordare che le innumerevoli
situazioni di crisi che stanno sconvolgendo in questi anni l’Africa
e più in generale il Sud del mondo, sono quasi sempre frutto proprio
della “realpolitik”. E che la vera sfida, se si vuole trovare una
soluzione a queste “crisi” disastrose che alimentano la fuga di
milioni di persone, è avere il coraggio di adottare una politica
diversa, più vicina agli interessi veri delle popolazioni e più
attenta alle realtà in cui ci si trova ad operare.
Questo discorso vale anche per
l’Eritrea, dove è la “realpolitik”, appunto, a contribuire a
tenere in piedi la dittatura che è al potere ormai da vent’anni,
contro il suo stesso popolo. Costituendo il nuovo esecutivo, lei ha
voluto precisare che sarà “un governo di svolta”. Ecco, alla
luce di quello che anche in quest’ultimo anno si è rivelata
l’Eritrea, chiediamo a lei e al nuovo ministro degli esteri, Luigi
Di Maio, di segnare una immediata, decisa discontinuità nei rapporti
stabiliti dall’Italia nei confronti di Asmara. Un cambiamento
netto, anzi, l’abbandono, in buona sostanza, di quella politica di
progressivo riavvicinamento e “recupero” o addirittura di
rivalutazione della dittatura di Isaias Afewerki, che è iniziata sul
finire del 2013 ma che ha progressivamente segnato una accelerazione
negli ultimi anni, fino a raggiungere il culmine nei mesi del suo
precedente Governo.
Si tratta di scegliere tra
l’attuale sistema di potere e la stragrande maggioranza della
popolo eritreo che ne è schiavizzato. E i popoli non dimenticano mai
chi si schiera al loro fianco. Di più: con questa scelta l’Italia
può lanciare un segnale importante all’Unione Europea, inaugurando
e guidando un modo diverso di porsi da parte del Nord nei confronti
del Sud del mondo.
Confidiamo che vorrà tener
conto di queste nostre considerazioni e nel ringraziarla comunque per
l’attenzione che vorrà dedicarci, le inviamo i nostri più
cordiali saluti,
don Mussie Zerai
presidente dell’agenzia
Habeshia
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