L’Italia ha chiuso tutti i suoi porti a profughi e
migranti. In base al decreto firmato dai ministri delle infrastrutture, degli
esteri, dell’interno e della sanità, nessun naufrago salvato in mare al di
fuori della zona Sar italiana potrà essere sbarcato e dunque accolto.
Il provvedimento è stato emanato proprio mentre in
mare, in attesa della indicazione di un porto di sbarco, c’è la nave Alan
Kurdi, della Ong Sea Eye, con 150 profughi tratti in salvo in due distinte
operazioni al largo della Libia, in un tratto di mare dove il “porto sicuro più
vicino” è senza dubbio Lampedusa. Nelle stesse ore due battelli carichi di
migranti sono arrivati con i propri mezzi a Lampedusa e sulle coste del
Trapanese mentre altri due, con oltre 150 persone, sono stati segnalati alla deriva da qualche parte nel Mediterraneo.
E’ la dimostrazione che i flussi in fuga dall’inferno della Libia sono tutt’altro
che in diminuzione ed anzi si prospetta un aumento a fronte del prevedibile,
ulteriore aggravarsi della già difficilissima situazione. Basti ricordare che,
nonostante tutto, continuano ad arrivare in Libia da tutta l’Africa
subsahariana numerosi disperati, costretti ad abbandonare la propria terra da
guerre, persecuzioni, dittature, carestia e fame endemica: solo tra la fine di
marzo e l’inizio di aprile la polizia libica ne ha bloccati a centinaia in
prossimità della linea di confine meridionale, in pieno Sahara.
A fronte di questo esodo tuttora in crescita, l’Italia
– sbocco naturale della via di fuga del Mediterraneo centrale dall’Africa –
chiude i suoi porti. La giustificazione addotta è lo stato d’emergenza
sanitaria dichiarato il 31 gennaio dal Consiglio dei ministri per la pandemia
di Coronavirus: si afferma, in sostanza, che gli approdi italiani non
assicurerebbero i requisiti necessari per la classificazione e la definizione
di “porto sicuro” (place of safety) proprio a causa della pandemia in corso. Ma,
a fronte degli arrivi “spontanei” che non possono ovviamente essere bloccati e
del fatto che il divieto non vale (né può valere, del resto) per le navi
italiane, è di tutta evidenza che il decreto e la conseguente “dichiarazione di
non sicurezza” per tutti gli approdi italiani, sono misure di fatto rivolte
esclusivamente contro le navi delle Ong, le uniche che ancora operano o
intendono operare per interventi di ricerca e soccorso in una realtà sempre più
difficile e densa di rischi mortali. Ne consegue che il provvedimento, nel suo
complesso, ha tutta l’aria, in realtà, di essere quasi una misura punitiva rivolta
specificamente contro chi ancora va per mare nel tentativo di salvare vite,
quasi a concludere la lunga catena di altri dolorosi, incomprensibili
provvedimenti analoghi, dettati ormai dalla politica di chiusura e
respingimento adottata ormai da anni da parte del Nord nei confronti dei
disperati in fuga dal Sud del mondo. A prescindere dalla sorte a cui questi
disperati vengono condannati.
Non solo. A conferma di come questo decreto sia a dir
poco incomprensibile, va ricordato che l’eventuale rischio di contagio da parte
di profughi sbarcati in Italia è stato già affrontato e risolto fin dall’inizio
dell’emergenza, alla fine di gennaio, decidendo di prescrivere la quarantena per
tutti i migranti accolti e gli stessi equipaggi delle navi Ong che li hanno
soccorsi in mare.
Un secondo punto da considerare
è che la pandemia non riguarda ovviamente soltanto l’Italia. Nella stessa,
identica, difficile situazione si trovano tutti gli altri Stati europei del
Mediterraneo. Applicando il principio posto alla base del decreto, i
profughi/migranti dovrebbero trovare ovunque le porte chiuse e, dunque, essere
respinti Libia. Mandati a morire, cioè, nell’inferno dal quale sono riusciti a
fuggire a prezzo di mille rischi e dove, per quanto possa apparire incredibile,
il coronavirus fa meno paura non solo della guerra in corso ma, soprattutto,
dei lager dove i migranti sono detenuti, delle uccisioni sistematiche, delle
torture, della riduzione in schiavitù, degli stupri e delle violenze di ogni
genere da cui i profughi soccorsi dalle Ong cercano di mettersi in salvo.
E ancora. Pur senza sottovalutare minimamente le
difficoltà del momento, che non solo l’Italia ma l’intera Europa ed anzi
l’intero pianeta si trovano ad affrontare, occorre avere la forza e la
coscienza di non dimenticare mai quel caposaldo della nostra società e della
nostra democrazia che si concretizza nel rispetto rigoroso, irrinunciabile, dei
principi di solidarietà e di soccorso nei confronti di persone in pericolo di
vita, previsti dal diritto internazionale e dalla Costituzione italiana.
Principi che non possono in alcun modo essere messi in discussione – neanche in
una situazione grave come la pandemia in corso – se non rinunciando a quel
“restare umani” che è vitale per il nostro “stare insieme” e proprio perciò
essenziale non solo per affrontare le difficoltà attuali ma per avere la forza
di ricominciare e ricostruire. Perché la sfida è proprio questa: sarà la sorte
riservata ai migranti a indicare il modo con cui usciremo da questa crisi: se
cioè ne usciremo cercando di realizzare un futuro diverso e migliore o se
invece avrà prevalso per l’ennesima volta la logica egoista, inumana, di alzare
barriere anche di fronte all’ultima speranza di salvezza di migliaia di
disperati.
Ecco, allora, lo scopo e il significato di questo
appello: revocare totalmente quel decreto e riaprire i porti. Non deve
spaventare se questo ripensamento equivarrà ad ammettere un errore. Anzi, è
proprio degli spiriti forti e intellettualmente onesti saper ammettere i propri
errori.
don Mussie Zerai
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