sabato 5 gennaio 2008
Condizioni di vita di rifugiati
Da Lampedusa ai ghetti della periferia di Roma
Reportage dall'ex sede dell'Università Tor Vergata, a Roma, occupata da 250 rifugiati del Corno d’Africa. Vivono al buio, senza corrente né riscaldamento. Tra loro almeno 30 bambini, la più piccola, Rahima, ha otto mesi e in Italia è arrivata imbarcandosi da Zuwarah con la madre, questa estate. Il Comune ha dichiarato l'occupazione abusiva. E adesso, rischiano tutti lo sgombero
ROMA, 3 gennaio 2008 - Che fine fanno i rifugiati dopo Lampedusa? Alcuni vengono accolti dai servizi dello Sprar, ma gli altri finiscono nelle periferie delle nostre città, in palazzi occupati o per strada. Redattore Sociale ha visitato l'ex sede dell"Università Tor Vergata, a Roma, occupata da 250 rifugiati del Corno d’Africa. Sotto sgombero da luglio, il 26 novembre un incendio ha devastato una delle abitazioni. Da allora vivono al buio, senza corrente né riscaldamento. Tra loro ci sono almeno 30 bambini. La più piccola, Rahima, ha otto mesi ed è arrivata a Lampedusa a Settembre. È nata durante il viaggio della madre, fuggita dai ranghi dell’esercito eritreo e scappata prima in Sudan e da lì, attraverso il deserto in Libia. A soli cinque mesi ha attraversato il Canale di Sicilia. Oggi gioca con un orsetto di peluche in una camera tappezzata di tricolori eritrei, crocifissi, madonne e santini. L’unica finestra si affaccia al quarto piano del palazzo di via Cavaglieri 6/8, a Roma. Siamo a due passi dall’Autostrada del Grande Raccordo Anulare. Periferia est di Roma. Il sole si specchia sui sette piani di vetri neri e parabole di quella che fino a pochi anni fa era una sede dell’Università Tor Vergata.
Lo stabile venne occupato nel dicembre del 2005, con il supporto di Action. Dopo un primo sgombero, la trattativa del Comune di Roma con la proprietà, Enasarco (Ente nazionale di assistenza per gli agenti e i rappresentanti di commercio) portò alla firma di un contratto di locazione il 28 febbraio 2006. Il Comune ha pagato l’affitto fino al 30 giugno 2007. Il tempo necessario per trovare tre strutture nel V e VIII municipio per accogliere i 360 residenti censiti in un primo momento.. Una per i nuclei familiari in mini appartamenti. E due per i singoli, la maggioranza, in stanze con massimo 4 letti, uso cucina e servizi in comune, sotto gestione di una cooperativa sociale. Era il 9 luglio 2007 e i rifugiati di Romanina dissero no. Musé, eritreo, oggi ci è tornato a spiegare perché: "I rifugiati hanno diritto ad un minimo di assistenza, il Comune non può offrirci soluzioni di 4 o 6 mesi, oppure dormitori con stanze con i letti a castello, orari di ingresso e di uscita. La gente è stanca. O l’Italia riceve i rifugiati e li accoglie oppure non dovrebbe riceverli”. Molti sarebbero grati all’Italia se le autorità cancellassero le loro impronte digitali dagli archivi elettronici di Eurodac, il sistema informatico che identifica la prima frontiera dove il richiedente asilo è entrato nell’Unione europea. Un marchio indelebile, che grazie alla Convenzione di Dublino, affida al primo Paese di ingresso la presa in carico della richiesta d’asilo. Lo sanno bene alcuni dei rifugiati rispediti in Italia da Londra o da Stoccolma, in base alla predetta Convenzione. Alcuni di loro sono ospitati al primo piano del palazzo.
Uno stanzone dove sono ammucchiati materassi e coperte e che funziona da foresteria per chi è appena arrivato a Roma, o per amici e parenti che si fermano nella capitale per brevi periodi. Al piano terra non potrebbero stare. I pavimenti sono completamente allagati. Piove acqua dai tubi rotti del soffitto. I fogli di intonaco si sono accartocciati sui muri a causa delle infiltrazioni. Eppure bagnandosi i piedi nei cinque centimetri d’acqua che allagano i corridoi, si entra nelle stanze di alcune famiglie che nonostante tutto continuano a vivere qui. In una camera ci sono biciclette e giocattoli. E sul tavolo accanto la cera di decine di candele attaccata a un vassoio di legno sul comodino. Perché dopo le cinque del pomeriggio e fino al mattino, fa buio. E fa freddo.
La corrente elettrica l’hanno staccata dopo l’incendio del 26 novembre scorso. Manuel ci accompagna su per le scale e ci fa luce con il cellulare nei corridoi bui che attraversiamo. Della sua camera rimane ben poco. Le finestre si sono carbonizzate e crollate. Il rivestimento in plastica del tetto si è fuso. Il materasso è bruciato insieme a tutto l’arredamento, i vestiti, i ricordi. A causare l’incendio è stato un cortocircuito elettrico. Per immaginare l’origine del guasto basta guardare l’acqua che corre sul soffitto gocciolando dai cavi elettrici scoperti. La coppia che vive nella stanza accanto ha dovuto riverniciare le pareti impregnate dell’odore della plastica bruciata. La signora è incinta, chiede di restare nell’anonimato. Ci mostra un fornellino a carbone e un’altro a gas. Li usa per cucinare e per riscaldare l’acqua. Gli scaldabagni sono fuori uso. Ci si lava in camera, con i catini. Cercare casa a Roma è un’impresa. "Con i prezzi che ci sono - dice Musé - e poi quando sentono dalla voce che sei straniero ti dicono che non affittano più..”. In un angolo della stanza c’è una vecchia stufa elettrica. Da quando non c’è più la corrente è inutile. Intanto l’inverno prosegue. Al quarto piano, nella stanza vicino a quella della piccola Rahima, una bambina di un anno e tre mesi è a letto. Ha la febbre, oggi non è andata a scuola. Il padre sbuffa, quando gli chiediamo perché si è ammalata. I bambini sono almeno trenta, ci dice Omar. Vanno tutti a scuola, ma quando ritornano piangono per il freddo e per il buio. Musé, poco dopo, ci dice: “Credevamo che in Europa i diritti fondamentali fossero quelli dei bambini. Ma non è così. Qua ci sono neonati, e vivono come cani”.
Sono fuggiti dall’Eritrea, dalla Somalia, dal Darfur, dall’Etiopia. Hanno lasciato alle spalle la guerra, attraversato il deserto e il mare. Il loro viaggio è finito, ma non sono ancora arrivati nella terra che speravano. Sono quasi tutti rifugiati politici o umanitari. Dopo essere sbarcati a Lampedusa sono stati trasferiti nei centri d’identificazione siciliani e calabresi, e una volta usciti da lì, senza nessun riferimento, sono saliti sul primo treno per Roma. Un fatiscente stabile occupato è l’accoglienza che l’Italia offre loro. Anche se va detto che un circuito di accoglienza esiste, e funziona bene, tanto da essere stato recentemente presentato dall’Unione europea come modello positivo. Lo Spraru (Sistema di protezione richiedenti asilo, rifugiati e umanitari) ha accolto 13.000 rifugiati dal 2001. Nel 2005, le nazionalità più accolte erano quelle del Corno d’Africa: Eritrea (20,5% del totale), Somalia (8,8%), Etiopia (8,3%), Sudan (5,4%). I posti letto disponibili nel 2006 sono stati 2.428 e hanno accolto 5.347 persone in 55 province italiane. Roma ha accolto 1.135 persone solo nel 2006. Numeri importanti, ma da cui molti rimangono esclusi, rispetto alle 9.260 richieste d’asilo esaminate dalla sette Commissioni territoriali per il riconoscimento dello status di rifugiato nel 2006, il 60% delle quali era stato presentato da uomini e donne sbarcati lungo le coste siciliane. Il sistema di accoglienza non regge, in un Paese, l’Italia, dove nel 2006 le domande d’asilo sono diminuite del 3%, a fronte di una diminuzione del 46% nei Paesi Ue
(Le foto sono di Rachele Masci e di Eleonora Camilli; l'immagine del deserto è tratta da "A sud di Lampedusa")
posted by gabriele del grande at 7:19 PM
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