martedì 15 giugno 2010
C.A.R.A. Italia: vite sospese in attesa di un permesso
di FLORE MURARD-YOVANOVITCH
Un “centro d’accoglienza per i rifugiati e richiedenti asilo”, un C.A.R.A.: non è una prigione, dicono. Ma che cos’è un luogo che toglie ai migranti appena approdati ogni possibilità di vita vera, sociale e umana? Come nominare un luogo dove vieni rinchiuso, per mesi, in un vuoto kafkiano ad aspettare un pezzo di carta da una burocrazia lenta e indifferente?
Vite sospese e appese a permessi di soggiorno che in realtà non danno né integrazione né accoglienza: all’uscita del C.A.R.A. ti ritroverai a Termini, luogo di tutti gli approdi, dimensione comune di tutte le storie di migranti. Per Hassan e Abubaker, i due profughi somali che all’uscita dal centro di Castelnuovo di Porto cercheranno un posto per dormire ci sarà la strada...
Su questa immagine si chiude (per aprire future storie) il documentario C.A.R.A. Italia di Dagmawi Ymer, già co-autore di Come un uomo sulla terra, impegnato, da quando ha preso per la prima volta in mano una camera, a dare ai migranti una voce. E a risvegliare una cieca e buia Italia. Un bunker al neon, i pasti gestiti da militari. Sei parcheggiato. Come si farebbe con un oggetto. Tra una strada di periferia deserta e un’autostrada, dove passano rari autobus che ti chiudono i battenti in faccia. Sei nero. Eritreo, etiope, somalo. Hai già capito che questo Paese, che del tuo ha fatto una colonia nel passato, che ti ha imposto il proprio dio, il proprio cibo, che persino ha invaso i tuoi sogni di questo illusorio nome “Italia”, ora non ti vuole.
E ti rinchiude; fino alla tanto attesa quanto improbabile riunione della “Commissione territoriale per lo status di rifugiato”... In clandestinità e con rapporti diretti, la camera empatica di Dagmawi si addentra nel quotidiano del vuoto; te lo fa toccare “a pelle”. Corridoi vuoti, luce artificiale gelata. Rari bambini, qua e là, quelli nati nel centro; come unico svago, una bicicletta. Ma anche la musica, i ricordi delle serate africane, i gesti caldi tra compagni, unici affetti in questo luogo senza vita; la lingua che si impara dal Garzanti, per non impazzire. Come succede a tanti. Lì in un angolo c’è uno che non ha retto e mima la propria auto-crocefissione, come Gesù.
Impazzito. Per la libertà sospesa, i soli bisogni primari e l’assenza di sogni. Qui si apre una storia ancora tutta da raccontare, quella della psiche che si ammala in questi non luoghi disumani: la realtà delle numerose patologie mentali riscontrate nei giovanissimi migranti. Nell’atelier “geografia migrante” della scuola interculturale Asinitas, dove ogni allievo è invitato a rappresentare il proprio luogo di origine e quello presente, questi centri li coloreranno di nero. Come una assenza. A volte si rifiuteranno persino di disegnarlo, tanto l’esperienza è stata traumatica: esperienza, sulla propria pelle, di un terribile odierno annullamento europeo dell’identità umana dei migranti.
Eppure questi rifugiati, a grande maggioranza politici, avevano e hanno il diritto all’asilo. Negato. Dag ci rivela quello che tutti nel profondo delle nostre coscienze sappiamo, ma che fino a questo magnifico film non avevamo visto con precisione: cosa significa “parcheggiare” altri esseri umani in una folle e anacronistica “disparità”, derubandoli della loro vita. E quale nome la storia darà a tutto questo? Nei loro disegni (che si possono vedere in questi giorni nella mostra “Geografie extravaganti” alla “Città Altra Economia” di Roma), la scuola d’italiano è blu mare o verde, come un’oasi umana; dove ogni giorno approdare per tessere rapporti. Per vivere.
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