di Emilio Drudi
E’ stata una morte
annunciata. La morte di un giovane fuggito dalla guerra e dalla persecuzione in
Eritrea per cercare la libertà e un domani migliore in Italia. Ma che in Italia
ha trovato invece incomprensione, chiusura, ostilità: la negazione dei diritti
propri di ogni essere umano. Così si è arreso e ha deciso di farla finita.
E’ la storia di un
ragazzo di 32 anni arrivato, come migliaia di altri disperati, su una carretta
carica di umanità e spinta attraverso il canale di Sicilia più dalla buona
sorte che dalla forza dei suoi motori malandati. Una volta sbarcato, ha seguito
il calvario burocratico di accertamenti infiniti, sino a finire nel campo
profughi di Crotone Sant’Anna, uno dei centri di accoglienza italiani più
contestati dalle organizzazioni umanitarie, dove ci sono state numerose rivolte
e dove gli episodi di disperazione e autolesionismo tra gli ospiti sono
frequenti. E’ rimasto lì per mesi. Un numero tra tantissimi altri numeri,
abbandonato in un limbo di incertezza crudele, senza alcuna forma di
inserimento e senza che qualcuno lo aiutasse almeno a sperare. Poi, finalmente,
la sua domanda di protezione internazionale è stata esaminata ed accolta: ha
ottenuto lo status di rifugiato ed è potuto uscire. Varcati i cancelli,
tuttavia, si è trovato di fronte il vuoto. Un vuoto enorme, che si è rivelato
incolmabile. Fatto di totale mancanza di prospettive: emarginazione, nessuna possibilità
di lavoro, niente casa (tanto da figurare ufficialmente un “senza fissa dimora”)
se non il rifugio di fortuna che era riuscito a procurarsi, insieme ad altri
profughi, ad Isola Capo Rizzuto, poco lontano dal centro di accoglienza. Ma un
vuoto, soprattutto, nel profondo del cuore, con il crollo di ogni fiducia nel
futuro. In un Paese che quelli come lui magari li accoglie, ma poi non gli
consente nulla.
E’ lo stesso vuoto che
vela lo sguardo di migliaia di altri protagonisti di fughe disperate dal Sud
del mondo, “invisibili” dei quali lo Stato italiano si è dimenticato,
abbandonandoli per strada, nel momento stesso in cui ha consegnato loro i
documenti di soggiorno. “Non persone” che, per avere almeno un tetto, sono
costrette ad occupare palazzi vuoti e cadenti nelle periferie urbane o a
popolare bidonville e baraccopoli ai margini delle città, lungo gli argini dei
fiumi, negli sterrati polverosi. Disperati senza diritti, ignorati da tutti, salvo
a ricordarsene quando servono braccia in nero da ingaggiare a buon mercato attraverso
caporali e sfruttatori.
Quel ragazzo non ha
lasciato messaggi per spiegare il suo gesto. Neanche una parola di protesta o
di accusa. Se ne è andato e basta, scegliendo di morire in silenzio, poco
lontano dal campo profughi dal quale era uscito da poco. Ma il suo è un
silenzio assordante. Urla che ad ucciderlo è stato proprio quel vuoto che in
tanti hanno contribuito a creare. Ad
esempio, la burocrazia che lo ha considerato sempre e solo un numero anziché una
persona. L’ostilità di fondo di una politica di accoglienza ipocrita:
costosissima ma inefficace e sorda alle esigenze reali e ai diritti di chi
dovrebbe giovarsene. La gente che non si indigna di fronte a un dramma così
evidente ed anzi guarda spesso a questi disperati con fastidio, sospetto,
inimicizia. E non vuole ascoltarli. Lo ha ucciso, in una parola, l’indifferenza
in cui si perde il grido d’aiuto che sale dal Sud del mondo con la voce e le
storie di questo ragazzo eritreo e di altre migliaia e migliaia di giovani come
lui, uomini e donne.
Nei giorni scorsi il
governo italiano ha aggiunto un capitolo a questa storia di indifferenza
decretando la fine ufficiale della crisi dichiarata nella primavera del 2011,
quando bisognava fronteggiare l’esodo di una folla enorme di profughi dal Nord
Africa, sconvolto da guerre e rivoluzioni. La conseguenza è il “fuori tutti”
dai centri di accoglienza aperti circa due anni fa. Così, dopo che sono stati
dissipati un miliardo e 300 milioni per parcheggiare i rifugiati in alberghi,
pensioni, case alloggio, strutture improvvisate, il problema resta aperto. Almeno
13 mila migranti sono stati buttati per strada: uomini, donne, a volte intere
famiglie con i bambini, che avrebbero dovuto seguire percorsi formativi e di
inserimento, imparare l’italiano, andare a scuola, acquisire gli “strumenti”
per integrarsi nella società. E che,
invece, sono stati per lo più costretti a “vegetare”, senza riuscire a
costruirsi alcuna prospettiva di vita. Dall’inizio alla fine, insomma, solo e
sempre numeri. Disponibili per ogni forma di sfruttamento. Un “fastidio” che lo
Stato pensa di risolvere con un permesso di soggiorno umanitario valido per un
anno, una “buonuscita” di 500 euro una tantum e un ticket di viaggio. Ma molti
non sanno nemmeno dove andare, tanto più che, trattandosi nella grande
maggioranza di perseguitati politici, la via del rimpatrio è addirittura
impensabile. A meno di non volerli consegnare alla galera e alla morte. Con il
risultato, in definitiva, di ingrossare ulteriormente la massa degli
“invisibili” che affollano le baraccopoli e i palazzi occupati abusivamente
nelle periferie. Non a caso Soumahoro Aboubakar, il responsabile nazionale
immigrazione dell’Unione Sindacale di Base si aspetta “giorni di terrore per i
profughi e i richiedenti asilo in Italia” e, in una dichiarazione al quotidiano
La Stampa, ha annunciato “il rifiuto
dei 500 euro per protesta contro una politica che non tutela chi fugge da
guerre e miseria”.
La terribile fine di
quel ragazzo eritreo a Crotone denuncia tutta questa enorme emergenza
umanitaria inascoltata. Ed è significativo che, proprio prendendo spunto dalla
sua tragedia, Laurens Jolles, delegato per il Sud Europa del Commissariato ONU per i rifugiati, abbia invitato a riflettere “sul ripetersi, nelle ultime
settimane, di drammatici gesti di disperazione da parte di persone in cerca di
protezione in Italia”. Ed ha aggiunto: “Migliaia di persone, pur avendo
ottenuto una protezione internazionale, vivono in Italia in condizioni di
disagio e degrado. Per questo l’Agenzia per i rifugiati auspica che il prossimo
governo italiano abbia la forza politica e morale per affrontare i problemi
relativi all'assistenza e all'integrazione garantendo alle persone che fuggono
da guerre e persecuzioni l’effettivo godimenti dei loro diritti”.
Perché non ci siano
mai più tombe di ragazzi sulle quali dover scrivere: “Ucciso dall'indifferenza”. Ma nell'agenda politica di tutti i gruppi parlamentari appena
eletti la difesa dei diritti non ha trovato posto. O, al più, occupa capitoli
secondari, che non infiammano il dibattito e l’attenzione della gente.
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