di Emilio Drudi
In seguito alle
indagini iniziate mentre ancora si contavano le vittime, ci sono stati due
arresti: un tunisino accusato di essere lo scafista, l’uomo al timone del barcone;
e un somalo poco più che ventenne, sospettato di far parte dell’organizzazione
di trafficanti che sfruttano a caro prezzo la disperazione di migliaia di
uomini e donne, in fuga da guerre e dittature, persecuzioni e galera, torture e
soprusi in Eritrea, nel Sudan, in Etiopia, in Somalia. Al giovane somalo, in
particolare, vengono attribuiti anche stupri e violenze di cui si sarebbe reso
responsabile proprio alla vigilia della partenza del barcone della morte. Una
volta sbarcato insieme ai naufraghi, avrebbe cercato di mimetizzarsi tra i
richiedenti asilo del campo di Lampedusa, ma è stato riconosciuto e denunciato
da alcuni dei superstiti.
Dei quindici
testimoni costretti a restare sull’isola, undici i magistrati intendono
sentirli in relazione allo scafista; gli altri quattro sul caso più difficile e
delicato del presunto trafficante. Quasi tutti, inoltre, hanno raccontato a don
Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia, l’episodio delle due navi
rimaste sconosciute, della stazza di una motovedetta o di un moderno
peschereccio d’altura, le quali – secondo quanto è stato riferito – hanno
avvistato il barcone in difficoltà a 800 metri dalla riva ma non sono
intervenute in soccorso né hanno dato l’allarme. Una, anzi, avrebbe addirittura
compiuto un largo giro intorno al natante dei profughi, come per identificarlo,
salvo poi riprendere la navigazione in coppia con l’altra, sempre senza
informare nessuno dei presidi di sicurezza presenti a Lampedusa: Guardia
Costiera, Finanza, Carabinieri, Polizia. E proprio questa manovra potrebbe
essere stata la causa indiretta del naufragio, perché l’incendio che ha
scatenato il panico a bordo, provocando il ribaltamento e il conseguente
affondamento, pare sia stato originato dal telone intriso di gasolio e dato
alle fiamme per attirare l’attenzione di quella nave che, dopo aver girato in
circolo senza avvicinarsi, stava puntando verso il largo.
Su tutta questa
vicenda l’agenzia Habeshia sta compilando un dossier. Alcuni media ne hanno già
parlato, ma non risulta che la Procura se ne stia interessando. Di sicuro
nessun magistrato né alcun funzionario di polizia ha ascoltato i ragazzi che la
hanno raccontata a don Zerai. Le inchieste riguardano solo il tunisino ritenuto
lo scafista e il presunto trafficante somalo: tutto tace, invece, a quanto
pare, sulla dinamica precisa del naufragio e su quelle due navi fantasma. A
maggior ragione appare strano, allora, che quei 15 testimoni, le cui
dichiarazioni sono già state verbalizzate, siano stati separati dai compagni
sopravvissuti e debbano restare a Lampedusa non si sa fino a quando, costretti
nel campo di raccolta dell’isola, che assomiglia più a un carcere che a un
centro di accoglienza per rifugiati. Sono già 45 giorni che va avanti questa
situazione assurda. Loro la vivono come una reclusione e una violenza. Peggio:
quasi una “punizione” per essersi fatti avanti.
Don Zerai si è
rivolto sia alla Prefettura che alla Procura di Agrigento. Alla sua voce si è
aggiunta quella di Lia Quartapelle, giovane parlamentare del Pd, componente
della commissione esteri della Camera, mentre si starebbero muovendo anche
alcuni esponenti di Amnesty. “Secondo la legge – dichiara don Zerai, ripetendo
quanto ha già scritto al prefetto, la dottoressa Ferrandino, e al sostituto
procuratore Maggioni – questi profughi non dovrebbero restare più di 72 ore nel
centro di accoglienza. Sono lì, invece, praticamente prigionieri, da più di 40
giorni. Al punto che tanti, quasi tutti, mi hanno detto di essersi pentiti
della loro scelta di testimoniare. Vivono la condizione attuale come una
punizione. Sono molto preoccupato del loro stato psicofisico: qualcuno ha detto
persino di essere deciso a suicidarsi nel caso sia costretto a restare ancora a
lungo a Lampedusa. E’ una tortura psicologica che non sono più in grado di
sopportare: bisogna trasferirli tutti e subito. A Roma, dove sono i loro
compagni. Tra l’altro, non si capisce come mai, se sono già stati ascoltati
dalla Procura, debbano restare sull’isola. Nessuno ha fornito spiegazioni
plausibili. Se i magistrati avranno bisogno di sentirli di nuovo, potranno
andare a interrogarli a Roma”.
Già, una volta
verbalizzate le loro prime dichiarazioni, la Procura avrebbe potuto benissimo
dare il nulla osta per affidarli al Campidoglio come gli altri superstiti,
salvo andare di nuovo a interrogarli a Roma o a convocarli ad Agrigento in caso
di necessità. In aereo, Roma non è molto più lontana di Lampedusa da Agrigento.
E non c’è sicuramente alcun pericolo che quei giovani, dopo essersi fatti
avanti, decidano di “sparire”. Semmai il rischio di ripensamenti potrebbe farsi
strada proprio a causa di come sono stati trattati finora.
Sorprende anche il
fatto che non risultino indagini più approfondite sul naufragio, con
un’attenzione particolare per quelle due navi fantasma. Si è dato grande risalto,
invece, agli arresti dello “scafista” e del “trafficante”: secondo quanto hanno
dichiarato vari politici e diverse istituzioni a tutti i livelli, trovando una
vasta eco nei media, sarebbero la conferma dell’efficacia e della determinazione
con cui l’Italia intende condurre la lotta contro il “traffico di disperati” in
fuga dall’Africa. Ma, nei fatti, tanta enfasi desta il sospetto che serva solo
a coprire carenze e scelte quanto meno discutibili. Quanto alla lotta alla
“tratta degli schiavi”, ad esempio, nonostante le ripetute sollecitazioni,
mancano quasi del tutto indagini coordinate a livello internazionale, anche
tramite l’Interpol e con il coinvolgimento attivo di tutti i paesi di transito
e di arrivo dei profughi, per individuare la rete criminale che, secondo i
racconti di numerosi fuggiaschi, si gioverebbe di complicità diffuse anche in
vasti settori corrotti dell’apparato pubblico di varie realtà: Libia, Sudan,
Sinai. Oppure, ancora, si fingono di ignorare gli effetti dell’intesa
bilaterale tra Italia e Libia che, nel tentativo di blindare e di spostare il
più a sud possibile il confine italiano ed europeo, consegna ai lager di
Tripoli migliaia di perseguitati che hanno diritto all’asilo e alla protezione
internazionale, costringendoli così a rivolgersi ai trafficanti di uomini per
tentare di sfuggire al vortice infernale in cui sono precipitati. A quegli
stessi trafficanti di uomini che l’Italia e l’Europa giurano di voler
combattere.
Se davvero si vuole
mettere fine a questo mercato di morte, forse bisogna partire dal superamento
immediato di contraddizioni come queste, impostando al più presto una nuova
politica dell’accoglienza in tutta l’Unione Europea. Non basta gettare in
carcere una pedina della “tratta” o uno scafista. Tanto più che, come si è
scoperto in vari casi, capita ormai non di rado che giovani disperati e
fuggiaschi come i profughi che traghettano dall’Africa, si piegano a fare i
Caronte attraverso il Mediterraneo perché non hanno i due, tre, o anche
quattromila dollari da versare ai trafficanti per pagarsi il ticket della
traversata.
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