Don Zerai chiede un’inchiesta: “Scovare le due navi
che hanno ignorato l’Sos dei profughi”
di Emilio Drudi
“Ci sono oltre 370
vittime che aspettano giustizia. Occorre che la magistratura apra un’inchiesta,
perché molti elementi fanno pensare che quella di Lampedusa non sia stata soltanto
una tragica fatalità. Alla base potrebbe esserci un assurdo, terribile caso di
omissione di soccorso”: don Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia, è
sempre più convinto che siano ancora molti i punti da chiarire sulla strage del
tre ottobre. Negli ultimi giorni ha raccolto indizi, dichiarazioni,
testimonianze e non è escluso che il dossier che sta mettendo insieme possa
diventare la base per un esposto formale alla Procura di Agrigento.
I sospetti si concentrano
sulle due imbarcazioni di cui hanno parlato quasi tutti i superstiti: due
natanti rimasti sconosciuti che – hanno detto in molti – avrebbero avvistato il
barcone carico di uomini, donne e bambini, mentre arrancava verso la spiaggia
dei Conigli, a mezzo miglio dalla costa, ma non si sarebbero fermati per
prestare aiuto. Secondo diverse testimonianze, anzi, l’incendio che ha
scatenato il panico a bordo, provocando il capovolgimento e il conseguente
affondamento della “nave dei profughi”, sarebbe stato causato da un telo
cosparso di gasolio e dato alle fiamme proprio per attirare l’attenzione di
quei due natanti, che si stavano allontanando. Don Zerai, che è appena
rientrato da Lampedusa, ha iniziato la sua indagine proprio partendo dai
racconti di quella notte. Sull’isola ha incontrato un centinaio di superstiti e
a tutti ha chiesto di ricostruire le fasi della tragedia, cercando di ricordare
quanti più particolari possibile. Alla fine, è arrivato alla conclusione che
potrebbero esserci pesanti responsabilità.
“I sopravvissuti con
i quali ho parlato – dice don Zerai, assicurando che sono tutti pronti a
confermare le loro dichiarazioni in qualsiasi sede, sia politica che legale –
mi hanno raccontato di essere stati avvicinati da due natanti abbastanza grandi,
simili a quelli in dotazione alla guardia costiera, quando erano già nelle
acque di Lampedusa, a circa 800 metri dalla riva, tra le 3 e le 3,30 del
mattino. Uno dei due avrebbe anche girato attorno al barcone con a bordo più di
500 persone che gridavano aiuto e facevano segnali con le torce elettriche. Pare
sia stato anche acceso un lampeggiatore o comunque una luce di colore rosso,
per segnalare che erano in difficoltà e avevano bisogno di soccorso, ma i due
natanti, tuttora senza nome, non solo non hanno prestato aiuto, ma pare che non
abbiano neppure comunicato alle autorità competenti la presenza di quel barcone
di disperati”.
Non basta. A questo
punto acquista maggior peso anche un altro interrogativo posto da più parti sin
dall’inizio: come sia stato possibile per quella “carretta” zeppa di profughi arrivare
sino a mezzo miglio da Lampedusa senza essere avvistata. “E’ un mistero
inspiegabile – insiste don Zerai – Se quel barcone ha potuto navigare dalla
Libia alle acque lampedusane senza essere intercettato, c’è da pensare che
tutti i sistemi italiani di difesa e controllo dei confini erano fuori uso.
Ovvero: se si fosse trattato non di rifugiati inermi ma di terroristi o
guerriglieri armati, avrebbero potuto fare quello che volevano. Non ritengo possibile,
insomma, che le forze e le autorità deputate alla difesa della frontiera non si
siano accorte di nulla. E’ quanto meno strano. Per non dire del comportamento
di quelle due imbarcazioni che, a detta dei superstiti, si sarebbero avvicinate
al barcone, lo avrebbero controllato a distanza e poi se ne sarebbero andate,
senza far nulla: nessun aiuto, malgrado le urla e le segnalazioni. Se si
fossero fermate, questa tragedia sarebbe stata evitata e ora non staremmo qui a
piangere centinaia di vite umane”.
Sono parole che
pesano come macigni. Le autorità italiane, a tutti i livelli, hanno sempre
sostenuto di aver saputo della “nave dei profughi” solo a naufragio avvenuto, dopo
le segnalazioni dei primi soccorritori, diportisti e pescatori che navigavano
per caso in quelle acque, di fronte alla spiaggia dei Conigli. Non c’è motivo
di dubitarne. Del resto, pochi giorni dopo la tragedia, un’altra “carretta” di
profughi è arrivata indisturbata a Lampedusa, senza essere segnalata, ed ha
attraccato direttamente in porto, addirittura all’altezza del molo riservato ai
mezzi navali della Guardia di Finanza. Tuttavia restano i racconti di quella
strana manovra: quel girare intorno al barcone in difficoltà, salvo poi
allontanarsi. Don Zerai assicura che le numerose testimonianze dei superstiti,
da lui stesso raccolte, appaiono univoche e circostanziate in proposito. Non si
capisce allora come mai gli equipaggi di quei due natanti, chiunque fossero,
non abbiano subito avvertito il comando della Guardia Costiera, prima che il
barcone andasse a fondo. Per questo adesso l’agenzia Habeshia e diversi
familiari delle vittime chiedono di aprire un’inchiesta: “Le dichiarazioni
fatte dai superstiti sulle circostanze della tragedia – insistono – non possono
essere ignorate. Se non altro per fare chiarezza e fugare tutti i dubbi”.
“Non comprendiamo –
afferma don Zerai – come mai la magistratura non stia indagando per appurare se
effettivamente ci sia stata una macroscopica omissione di soccorso, alla luce delle
tante, concordi testimonianze di quanti hanno avuto la fortuna di salvarsi. Ma
l’inchiesta della Procura non basta. Dal ministero della difesa ora è lecito
attendersi chiarimenti su come sia stato possibile tutto ciò: occorre
ricostruire nei particolari l’accaduto e soprattutto bisogna dare un nome a
quelle due navi misteriose di cui parlano i sopravvissuti. E il ministero della
giustizia dovrebbe chiarire perché, a quanto se ne sa, non sia stata aperta
un’istruttoria per omissione di soccorso. Non basta incriminare lo scafista
tunisino. Forse le responsabilità sono molto più vaste. Forse c’è chi ha visto
ma non si è fermato, non ha lanciato l’allarme né ha informato chi di dovere.
C’è un’esigenza forte di trasparenza e di giustizia: per le vittime e le loro
famiglie e per gli stessi sopravvissuti, che vivono ancora e continueranno a
vivere ogni giorno l’incubo di questa tragedia per il resto della loro
esistenza”.
Appare una richiesta
legittima. Oltre tutto non si è ancora spenta l’eco di un’altra strage per la
quale l’Italia è stata duramente chiamata in causa: quella del gommone in
avaria, carico di profughi, abbandonato alla deriva nel canale di Sicilia per
due settimane, tra l’ultimo scorcio di marzo e l’inizio di aprile del 2011.
Alla fine, quando le correnti li hanno sospinti di nuovo verso la costa libica
da cui erano partiti, dei 72 disperati che erano a bordo, inclusi due bambini,
ne rimanevano in vita solo 11: tutti gli altri erano morti di sete e di stenti.
E il bilancio è poi salito a 63 vittime perché altri due sono spirati poco dopo
lo sbarco. Fu uno scandalo a livello internazionale, perché nessuno si è mosso
per salvare quei naufraghi per ben 15 giorni di seguito, nonostante il gommone abbia
incrociato diverse navi militari della flotta Nato schierata contro Gheddafi e
addirittura un elicottero si sia avvicinato, uno o due giorni dopo il segnale
di Sos, per gettare un po’ di cibo e qualche bottiglia d’acqua. Sono finiti
sotto accusa per questa tragedia numerosi paesi: Malta, la Spagna, la Francia poiché
le navi incrociate dal gommone battevano quelle bandiere. Ma la maggiore
responsabilità, con tanto di condanna ufficiale da parte del Consiglio
d’Europa, è stata attribuita all’Italia perché, avendo ricevuto per prima la
richiesta di aiuto, avrebbe dovuto farsi carico di organizzare i soccorsi.
Alla sentenza di
Strasburgo è seguita un’istruttoria della Procura Militare, con un processo che
non si è ancora concluso, ma che non riguarda le responsabilità morali e
politiche della strage. Oltre tutto la vicenda sarebbe passata sotto silenzio
se non fosse stata denunciata prima dal Guardian di Londra e poi da altri grandi
media, costringendo le istituzioni italiane ed europee ad occuparsene. Sarebbe
assurdo fare gli stessi errori di indifferenza, inerzia e sottovalutazione per
il disastro del 3 ottobre a Lampedusa.
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