di Emilio Drudi
Ancora migranti
morti, inghiottiti dal Mediterraneo. Uomini, donne e bambini spariti in mare, senza
una tomba e, assai spesso, senza neanche un nome. Sembra di rivivere le tragedie
di Lampedusa e di Malta dell’ottobre scorso. Sono almeno 70 le vittime degli
ultimi naufragi di barconi carichi di disperati: una cinquantina nelle acque
libiche l’undici maggio e 17 a cento miglia a sud di Lampedusa il giorno dopo.
Oltre a circa 200 dispersi, per i quali si è persa ormai ogni speranza. Ma
sulla terraferma, in Libia, per i profughi forse va anche peggio. La vita non
conta nulla: può dipendere dal capriccio di un miliziano fanatico o di un
militare ubriaco. Da una crudeltà gratuita o da un gioco perverso. Come è
accaduto nel centro di detenzione situato nei sobborghi di Gharyan, una città
del distretto di Jabal al Garbi, nel nord ovest, famosa per la resistenza
contro gli italiani nel 1911 e per la battaglia tra i ribelli e l’esercito di
Gheddafi durante la rivoluzione del 2011. E’ uno dei campi profughi maggiori
del paese, con più di 450 prigionieri: 400 eritrei, 30 provenienti da vari
paesi dell’Africa Occidentale, 10 etiopi, 2 somali e una quindicina di
sudanesi. Dipende formalmente dal ministero degli interni e, nei documenti
ufficiali, è definito “sicuro”. Altroché sicuro, però. Qualche notte fa è
diventato un girone dantesco. Con i detenuti terrorizzati, in balia dei
miliziani di guardia che sparavano all’impazzata nel mucchio. Per ore.
La vicenda è stata
ricostruita dall’agenzia Habeshia sulla base dei racconti di alcuni rifugiati
che sono riusciti a mettersi in comunicazione con un cellulare, eludendo la
sorveglianza. “E’ iniziato tutto la sera del 10 maggio – afferma don Mussie
Zerai, riferendo le telefonate ricevute – Sembrava una serata come le altre. I
profughi si stavano preparando a trascorrere la notte alla meglio, nel
capannone dove erano ammassati, quando alcuni militari hanno incendiato
numerosi pneumatici cosparsi di benzina, lanciandoli poi in tutto lo stanzone
centrale, in mezzo alla massa di gente. Le fiamme si sono propagate
rapidamente. Un’azione assurda, condotta a freddo, senza alcun motivo. Forse per
disprezzo o addirittura per divertimento. La prima reazione dei detenuti, nel
caos che si è scatenato, è stata quella di cercare di salvarsi dal rogo e dal
fumo acre che soffocava, correndo verso le parti più defilate del locale. Ma
era soltanto l’inizio. Molti hanno tentato di raggiungere il portone d’uscita e
le finestre, ma i miliziani li aspettavano al varco, sparando contro tutti
quelli che si facevano avanti. Come in una gara di tiro al bersaglio. Solo che
i bersagli erano uomini e donne inermi. Secondo le testimonianze, almeno cinque
sono stati feriti gravemente. Altri di striscio. Una scena infernale, con il
buio squarciato dal riverbero delle fiamme e dalle vampate dei colpi di fucile.
Non basta. Quando hanno smesso di sparare e l’aria è diventata più respirabile,
squadracce di miliziani hanno fatto irruzione nel capannone, pestando
sistematicamente tutti i profughi che trovavano”.
E’ stata una specie
di mattanza senza fine: la voce di don Zerai è cupa mentre ne ricostruisce le
ultime fasi. “Il mattino dopo – conclude – i cinque feriti più gravi sono stati
portati via. Si spera in qualche ospedale o almeno in un’infermeria. Gli altri,
le vittime del pestaggio e i feriti leggeri, sono rimasti lì: visi e occhi
pesti, denti rotti, lividi, teste spaccate, ragazzi in stato di semi
incoscienza. Molti, come mi hanno riferito, non riuscivano quasi a muoversi. Ci
hanno messo ore per riprendersi un po’. Ecco, la Libia oggi è tutto questo: un
paese senza governo e senza regole, dove qualsiasi gruppo di militari armati
può decidere la sorte di centinaia di esseri umani, colpevoli solo di essere
dei profughi”.
E’ proprio qui il
punto. Con questa Libia l’Italia ha ribadito, sotto il governo Letta, nel
luglio 2013, il trattato di collaborazione che delega a Tripoli il controllo
dell’emigrazione nel Mediterraneo, dando seguito agli accordi firmati nel 2009
da Berlusconi e Gheddafi e nel 2012 da Monti e dal governo rivoluzionario. Non
risulta che ora il governo Renzi abbia anche solo sfiorato l’idea di rimettere
tutto in discussione e di arrivare a una revoca. Anzi, trovano attuazione proprio
in questi giorni le ulteriori restrizioni sancite nel luglio 2013, che
prevedono di sbarrare ai migranti il confine meridionale del paese, in pieno
Sahara. “Ci è giunta notizia – denuncia don Zerai – che decine di profughi
vengono respinti nel deserto a sud, verso il Niger, il Ciad e il Sudan.
Abbandonati in mezzo al nulla, con la prospettiva di morire di stenti”. Una
morte terribile: sete e fame nel mare di sabbie roventi. E’ già accaduto in
passato: lo testimoniano i corpi disidratati trovati a più riprese lungo le
piste maggiormente battute. Ora le vittime rischiano di moltiplicarsi, ma è una
tragedia che si consuma senza clamori, lontano dall’attenzione dei media e, di
fatto, nell’indifferenza dell’Italia e dell’Europa.
“Almeno le stragi in
mare – riprende un portavoce dell’agenzia Habeshia – sono sotto gli occhi di
tutti. Le torture, i soprusi, le uccisioni nei centri di detenzione libici o le
morti nel Sahara avvengono invece quasi in segreto. Nessuno mostra di saperne
qualcosa. Non se ne parla, non ci sono immagini o riprese televisive e, dunque,
è come se non accadesse. E’ l’effetto perverso del continuo spostare il più a
sud possibile, lontano dall’attenzione dell’opinione pubblica, il ‘confine’
meridionale dell’Europa. Ma l’Europa e le cancellerie occidentali non possono
continuare a defilarsi: devono intervenire e pretendere da Tripoli il rispetto
dei diritti umani e civili dei migranti e dei rifugiati”.
Oltre tutto, mentre
l’Italia e l’Unione Europea tacciono, gli stati africani più duri nei confronti
dei profughi hanno modo di allearsi e collaborare. Come Sudan ed Eritrea. Nei
giorni scorsi il governo di Khartoum ha ordinato una serie di retate, con
arresti e rimpatri forzosi. “Almeno 30 eritrei sono stati riconsegnati all’Asmara
– protesta don Zerai – Si direbbe un ‘omaggio’ fatto dal dittatore Beshir al
regime di Isaias Afewerki, giunto nel paese per stipulare una serie di accordi
bilaterali. Già, per compiacere Afewerki, Khartoum sta mettendo a repentaglio
la sicurezza e la protezione dei rifugiati, costringendo migliaia di loro ad
abbandonare il territorio sudanese per sfuggire alle ricerche della polizia.
Per evitare la deportazione in Eritrea, dove li attendono processi farsa,
condanne e carcere o anche peggio, quasi tutti cercano di raggiungere la Libia.
Per i trafficanti di uomini è un’autentica manna. I fuggiaschi sanno bene a
quali rischi si espongono affidandosi a loro, inclusa la prospettiva di essere
rapiti. Però non hanno alternative: sono stretti tra il rimpatrio forzato e,
dunque, la galera in Eritrea, il ricatto dei mercanti di morte e, non appena
varcano il confine libico, la cattura da parte di bande di miliziani, che ne
dispongono a piacimento nei centri di detenzione o li respingono di nuovo verso
il Sahara”.
L’Europa tace anche
su questo. Tace soprattutto l’Italia, con i suoi tre successivi trattati
bilaterali di collaborazione con Tripoli. Motivi per intervenire ce ne sono in
abbondanza. Nei confronti di Tripoli ma anche di Khartoum che, in totale
violazione della convenzione di Ginevra, sta espellendo i rifugiati e
richiedenti asilo eritrei, pur sapendo bene che rimandarli ad Asmara equivale a
consegnarli alla persecuzione dalla quale hanno cercato scampo con la fuga. Ma
tant’è. All’Europa evidentemente interessa solo bloccare questo flusso di
disperati, senza curarsi della loro sicurezza e protezione. Della loro stessa
vita.
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