di Emilio Drudi
Sono centinaia di
giovani coppie. Fuggite dall’Eritrea. Coppie divise. Lui è in Italia, dove è
arrivato come profugo, quasi sempre dopo aver percorso tutte le tappe della
stessa lunga odissea dei tanti migranti costretti ad affidarsi ai trafficanti
di uomini: la marcia attraverso il Sahara, dove la morte è sempre in agguato;
mesi di terribile carcerazione in uno dei centri di detenzione della Libia, lager
in balia di miliziani fanatici o di militari corrotti; l’avventurosa traversata
del Mediterraneo, stipato insieme ad altri disperati come lui su un “barcone a
perdere”, che galleggiava a stento; la lunga, umiliante permanenza in uno dei
centri di accoglienza italiani e, infine, mesi di vita da “invisibile”,
abbandonato da tutti, prima di riuscire in qualche modo a inserirsi. Lei,
magari con un bambino piccolo, è in Etiopia oppure in Sudan o in Uganda,
relegata in un campo per rifugiati zeppo di fuggiaschi. Non possono
ricongiungersi nonostante il nulla osta della Prefettura della provincia di
residenza di lui. A opporsi, negando il visto finale, sono le ambasciate
italiane. In particolare quella di Addis Abeba. E accade soltanto a loro: i
migranti etiopi, ad esempio, non incontrano grossi problemi.
Si ripete la vicenda
già emersa in Sudan alcuni mesi fa. Sembrava una questione ormai risolta e
invece si ripropone. In modo ancora più grave. La ha segnalata, come prima nel
caso di Khartoum, l’agenzia Habeshia. La denuncia è stata fatta propria
dall’onorevole Lia Quartapelle (Pd), la quale, oltre a interessare il ministero
degli esteri, ha preso contatto direttamente con gli uffici diplomatici italiani
di Addis Abeba. La risposta dell’ambasciata non si è fatta attendere: “Non si è
certi della validità del matrimonio”. E, come riferisce sempre Lia Quartapelle,
si precisa in particolare che “non vengono accettate le domande di visto
presentate da persone eritree che contraggono matrimonio fuori dall’Eritrea”.
Mancherebbe, cioè, una documentazione adeguata a dimostrare che si tratta
effettivamente di coppie sposate o, peggio, si lascia intendere che ci si
potrebbe trovare di fronte a un falso: un sotterfugio per aggirare le norme
sull’emigrazione. C’è da chiedersi, allora, perché il ministero degli interni,
attraverso le prefetture, adotti un criterio diverso, ignorando quei sospetti e
considerando valide le “carte” presentate.
Già, se non c’è un
abuso c’è quanto meno una evidente contraddizione: lo Stato smentisce se
stesso. La parlamentare del Pd lo ha esplicitamente contestato all’ambasciata
di Addis Abeba, sollecitando chiarimenti urgenti sia alla Farnesina che ai
funzionari dell’ambasciata stessa: “Se ci sono dei dubbi, come mai il ministero
degli interni ha concesso il nulla osta?”. Don Mussie Zerai, presidente
dell’agenzia Habeshia, è molto più esplicito: “Si sta giocando con la vita di
centinaia di giovani fuggiti da dittatura e galera, da guerra e persecuzione.
Ragazzi che, non di rado, hanno cominciato a costruirsi un futuro diverso
proprio partendo dal matrimonio contratto fuori dall’Eritrea, in esilio. Il
primo passo verso una nuova vita. Con la speranza di poter prima o poi anche tornare
a casa”. E aggiunge: “La giustificazione addotta per il blocco dei visti è
pretestuosa. Peggio: è assurda e assolutamente illegittima. Equivale a
stabilire, infatti, che un rifugiato non possa sposarsi fuori dal paese
d’origine. In questo caso in Etiopia, appunto, dove sono migliaia i profughi
che arrivano ogni mese dall’Eritrea. La verità è che con questa decisione si
lede il diritto e la libertà dei profughi eritrei di formarsi una famiglia
nella diaspora. Questi giovani non possono rientrare in patria per sposarsi: se
ritornano in Eritrea rischiano anni di carcere o anche peggio, non appena
varcano il confine, con l’accusa di emigrazione clandestina o addirittura di
diserzione dall’esercito. Si tratta talvolta di ragazzi e ragazze che si conoscevano e hanno
deciso di fuggire insieme oppure sono riusciti a ritrovarsi dopo essere
scappati in momenti diversi. O, magari, si sono incontrati proprio nei campi
profughi, dopo l’espatrio. In uno dei cinque enormi campi esistenti in Etiopia,
durante i lunghi mesi, spesso anni, che sono costretti ad aspettare prima di
ottenere una forma di protezione internazionale. Lo stesso vale, ovviamente,
per il Sudan, l’Uganda o il Kenya”.
E’ questo il punto.
Il blocco dei visti deciso dall’ambasciata di Addis Abeba dimostra che si
continua ad ignorare – o a fingere di ignorare – qual è la situazione in
Eritrea. E finisce per diventare l’ennesimo incentivo ad affidarsi ai
trafficati di uomini per tentare comunque di arrivare in Europa. Anche a
rischio di rimetterci la vita. “Perché – come hanno dichiarato più volte
diversi giovani fuggiaschi – è meglio morire nel tentativo di conquistare un
futuro piuttosto che spegnersi dentro a poco a poco nel nulla di un campo
profughi, dove tutti i giorni sono uguali, dove le ore non passano mai e dove svanisce
persino la speranza”.
“Io e mia moglie eravamo
fidanzati quando siamo scappati insieme dalla zona di Asmara – racconta un
giovane profugo che chiede per ovvi motivi di non citare il suo nome – Ci siamo
sposati in Etiopia pochi mesi dopo. In Eritrea non avevamo avuto modo di farlo.
Poi io sono riuscito ad arrivare in Italia, dove sono stato accolto come
rifugiato. Ormai sono quasi due anni che vivo qui. Mi sono procurato un lavoro
ed ho una casa. Sembrava fatta. Quando mi hanno consegnato il visto per mia
moglie mi pareva di sognare: ancora poche settimane e avremmo potuto
riabbracciarci. E invece lei è ancora bloccata nel campo di Mai Ayni. Io ho
seguito tutte le procedure che mi erano state richieste. Cos’altro devo fare?
Ce ne sono tanti di giovani nelle nostre condizioni. Non riusciamo a capire quale
logica ci sia in tutto questo. Io non voglio che mia moglie corra gli stessi
pericoli e affronti le stesse sofferenze che ho patito io arrivando in Italia
attraverso le rotte clandestine gestite da criminali senza scrupoli e da
militari corrotti. Ma se adesso non vale più neanche il nulla osta per il
ricongiungimento rilasciato dal ministero degli interni, non c’è via d’uscita:
è come consegnarci di fatto ai mercanti di morte…”.
Già, è proprio
questo il rischio. Salvo poi gridare all’emergenza per gli sbarchi in costante
aumento. Inorridire di fronte ai racconti di soprusi, stupri, torture,
uccisioni durante i viaggi della disperazione e nei lager libici. Piangere le
vittime dei sempre più frequenti naufragi. Come è accaduto per le due tragedie
dell’ottobre scorso. Come accade anche in questi giorni con le ultime due
stragi nel Canale di Sicilia, tra la costa africana e Lampedusa.
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