lunedì 17 novembre 2014

Appello alle autorità Sudanesi. Fermate il Traffico di esseri Umani.



Sos per 15 profughi rapiti

I mercanti di morte controllano la frontiera tra Sudan ed Eritrea


Individuare, combattere, assicurare alla giustizia i trafficanti di uomini che controllano la frontiera tra l’Eritrea e il Sudan e tutto il vasto hinterland lungo le vie di fuga verso i campi profughi sudanesi.

E’ un appello che lanciamo con forza innanzitutto al Governo del Sudan ma, con la stessa determinazione, a tutta la comunità internazionale. In particolare all’Italia, all’Unione Europea, all’Unione Africana e agli Stati del Corno d’Africa che, su iniziativa del viceministro degli esteri italiano Lapo Pistelli, si apprestano a riunirsi a Roma in un confronto sul “Processo di Khartoum”, il protocollo d’intesa che vede al primo punto proprio il problema dell’emigrazione e che non può dunque ignorare il lucroso mercato di morte costruito sulla sofferenza e la disperazione di migliaia e migliaia di uomini e donne, spesso giovanissimi.

I trafficanti che operano lungo centinaia di chilometri della frontiera Sudan-Eritreaappartengono alle stesse bande di predoni, legate a organizzazioni internazionali del crimine, che per anni, nel Sinai, hanno sequestrato, ricattato, torturato e non di rado portato alla morte migliaia di migranti che, costretti a fuggire dai loro paesi nel Corno d’Africa o dell’Africa sub sahariana, tentavano di raggiungere e varcare il confine tra Egitto ed Israele. La loro presenza ai margini del confine settentrionale eritreo è ora la prosecuzione dello stesso business mafioso, giocato sulla vita di chi non ha altra alternativa che la fuga dal proprio paese per sottrarsi a guerre, persecuzioni, galera, torture. L’unica differenza è che adesso le basi operative delle varie bande sono in Sudan e non più nel deserto del Sinai. E che alle vecchie bande di predoni si sono aggiunti probabilmente gruppi di terroristi che fanno del traffico di uomini una lucrosa fonte di finanziamento.

Gli indizi di questo trasferimento “operativo” sono emersi sempre più numerosi e concreti negli ultimi tempi. Una spinta decisiva è sicuramente arrivata dalla costruzione della barriera pressoché insuperabile e lunga centinaia di chilometri, che ha blindato nel deserto la frontiera israeliana, ma non ha certamente posto fine al flusso crescente di profughi: lo ha solo spostato altrove e i trafficanti hanno seguito questo spostamento. I primi segnali si sono avuti con la presenza sempre piùnumerosa di emissari dei mercanti di morte intorno o addirittura all’interno dei campi profughi in Sudan: personaggi senza scrupoli che si propongono come intermediari per la traversata del Sahara verso la Libia o addirittura rapiscono direttamente nei campi stessi le loro vittime, per venderle poi alle varie bandeorganizzate. Ora si ha la certezza che questo sistema criminale si è insediato e ramificato in tutta la zona intorno ai confini con l’Etiopia e controlla di fatto sia la frontiera che il suo retroterra, intercettando e sequestrando un numero crescente di profughi. Senza che la polizia sudanese ne sappia nulla o che comunque intervenga.

L’ultima conferma viene da un episodio di questi giorni: almeno 15 ragazzi, di età compresa tra i 20 e i 23 anni, sono stati catturati da predoni armati in varie fasi, a pochi chilometri dal confine, mentre tentavano di raggiungere il campo di Shakarabo di proseguire il cammino verso Khartoum. “Almeno 15” perché ci sono forti indiziche altre decine di giovani eritrei siano finiti nelle mani dei predoni, anche se i familiari non hanno ancora potuto o voluto dare l’allarme. Le notizie dei rapimenti, infatti, filtrano sempre attraverso parenti o amici dei giovani sequestrati. E’ accaduto così anche per i 15 presi in questi giorni: la loro sorte è stata segnalata all’agenzia Habeshia dalla famiglia di uno del gruppo, un ventenne che, come i suoi compagni, ha disertato dall’esercito di Isaias Afewerki. Una famiglia poverissima. Il padre è morto combattendo per l’indipendenza dell’Eritrea contro l’Etiopia. La madre è stata costretta a scappare anni fa ed ora è rifugiata in Uganda. Prima di essere arruolato, lui viveva con una zia e alcuni cugini. Ed è stata proprio questa zia a mettersi in contatto con Habeshia. Ha raccontato che il nipote l’ha chiamata con il cellulare che gli hanno messo a disposizione i rapitori per chiedere il riscatto ai familiari: 15 mila dollari. Una cifra enorme che lei non è assolutamente in grado di racimolare, neanche facendo ricorso all’aiuto di altri congiunti. “Piangeva e urlava di dolore – ha raccontato la donna – perché durante la telefonata lo picchiavano e lo torturavano per rendere più ‘convincenti’ le sue parole. Per farmi capire che non esiteranno a ucciderlo…”.
E’ stato lui a raccontare alla zia come lo hanno preso e che erano ormai una quindicina, incatenati l’uno all’altro e chiusi in una piccola casa in muratura, da qualche parte in mezzo al deserto. Se la famiglia non riuscirà a pagare la sua liberazione, i predoni lo venderanno ad un’altra banda e poi magari ad un’altra ancora. E ad ogni passaggio il prezzo del riscatto salirà, con la minaccia finale dimetterlo a disposizione per il traffico di organi per i trapianti clandestini. Un destino analogo si profila per i suoi compagni.

E’ una logica di morte alla quale bisogna porre fine al più presto e con tutti i mezzi, “bonificando” dai trafficanti la fascia di confine con l’Eritrea, il suo hinterland e le zone limitrofe ai campi profughi. Ecco perché chiediamo con forza al Sudan, all’Italia, all’Unione Europea, all’Unione Africana, alla comunità internazionale, di intervenire al più presto per individuare e assicurare alla giustizia queste organizzazioni criminali. E’ già tardi: episodi come questo dei 15 ragazzi rapiti nei giorni scorsi confermano che le bande si sono radicate nel Sudan. Nella riunione convocata alla metà di ottobre a Khartoum tra gli Stati del Corno d’Africa, con il viceministro Lapo Pistelliper discutere di emigrazione, non risulta che si siaparlato di questa nuova catastrofe umanitaria. Eppure già allora i sintomi di quanto sta accadendo erano evidenti. Nei prossimi giorni, del “Processo di Khartoum” si tornerà a dibattere a Roma, sempre sotto l’egida dell’Italia, anche in virtù del semestre di presidenza all’Unione Europea. Occorre che almeno in questa occasione la tragedia dei mercanti di morte che operano al confine tra Sudan ed Eritrea diventi un punto centrale della discussione, individuando subito tutti i possibili interventi – politici, diplomatici, militari, di polizia, di intelligence e giudiziari – da mettere in campo a livello nazionale e internazionale.
E’ un passaggio essenziale: se verrà trascurato o anche solo sottaciuto il “Processo di Khartoum” non avrà alcun senso.


            don Mussie Zerai

         presidente dell’agenzia Habeshia

Nessun commento: