di Emilio Drudi
Ancora una condanna per
l’Italia, da parte della Corte Europea di Strasburgo, dopo quella subita il 21
ottobre scorso per il respingimento di 35 profughi verso la Grecia. Questa
volta in forma indiretta, perché il “processo” ha riguardato innanzi tutto la
Svizzera. L’argomento però è lo stesso: il trattamento riservato ai richiedenti
asilo e l’applicazione del trattato di Dublino, in base al quale i migranti
vanno presi in carico dal primo paese in cui arrivano e chiedono protezione. E
la Corte ha stabilito, in sostanza, che Roma non garantisce un’accoglienza
dignitosa ai rifugiati, nel rispetto dei diritti umani.
Tutto nasce dalla vicenda di
una famiglia afghana giunta in Italia nel 2011. Otto persone in tutto: padre,
madre, cinque figli nati tra il 1999 e il 2010 e un sesto venuto alla luce già
esule, nel 2012. Fuggiti inizialmente in Iran dalla guerra che insanguina l’Afghanistan
da anni, i due coniugi e i loro bambini sono sbarcati in Calabria, ma poche settimane
dopo hanno preferito trasferirsi in Austria e poi in Svizzera, dove hanno
chiesto asilo e vivono attualmente. Richiamandosi al regolamento di Dublino,
Berna ha respinto la loro istanza ed ha deciso di espellerli verso l’Italia. Falliti
tutti i ricorsi, in un estremo tentativo di annullare il decreto delle autorità
elvetiche, moglie e marito si sono rivolti alla Corte di Strasburgo,
specificando di aver lasciato la penisola perché, come profughi, non vi avevano
trovato condizioni di vita dignitose, specie per i bambini. E i giudici hanno
accolto queste ragioni: con la sentenza pronunciata il 4 novembre scorso la
Svizzera è stata diffidata – per non incorrere in una condanna formale – dal
costringere l’intera famiglia a ritornare in Italia senza prima aver ricevuto
da Roma precise informazioni su come e dove verrebbe alloggiata. In mancanza di
garanzie in questo senso – dicono i magistrati – sarebbe violato il diritto inalienabile
di non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti.
Ne consegue che, secondo la
Corte, il trattato di Dublino non può essere applicato se nel paese di prima
accoglienza manca un sistema di reinsediamento accettabile, specie per i
minorenni. E l’Italia, secondo i giudici, rientra tra in paesi a rischio. In
particolare per il problema della casa, che è il primo, fondamentale passo nel
percorso di una concreta inclusione sociale. Prima ancora del lavoro. “Non è
infondato ritenere – si legge infatti nella sentenza – che i richiedenti asilo
rinviati adesso in Italia da altri Paesi europei, in base al regolamento di
Dublino, corrano il pericolo di restare senza un luogo dove abitare o che siano
alloggiati in strutture insalubri e dove si verificano episodi di violenza”.
E’ lo stesso principio che
il 21 ottobre ha indotto la Corte di Strasburgo a condannare l’Italia per il
caso dei 35 profughi, anche loro in gran parte afghani, respinti nel 2009 verso
Patrasso dai porti di Ancona, Venezia e Bari. Il verdetto ha contestato infatti
a Roma di aver applicato i respingimenti-espulsione, applicando rigidamente i
criteri dell’accordo di Dublino, nonostante fosse ben a conoscenza del duro
trattamento riservato in Grecia a profughi e migranti e delle pesanti
condizioni di vita nei centri di raccolta per stranieri. Atene, a sua volta, è
stata condannata appunto per la sua politica nei confronti degli immigrati,
inclusa la prospettiva-minaccia di rimpatrio forzato nei paesi d’origine. Non
manca, anzi, un precedente ancora più significativo, noto come “caso dei dubliners”: dei rifugiati,
cioè, vittime del trattato di Dublino. Nel 2011 ben 41 corti di giustizia
tedesche hanno sospeso temporaneamente tutte le espulsioni verso l’Italia dei
richiedenti asilo che avevano fatto ricorso contro il decreto. Si tratta di
alcuni dei principali tribunali della Germania, tra cui Weimar, Francoforte,
Friburgo, Colonia, Darmstad, Hannover, Dresda, Gelsekirchen. Alla base delle
varie sentenze è stato posto proprio il trattamento riservato dall’Italia ai
rifugiati. Trattamento documentato in un dossier costruito “sul campo” da parte
di due avvocati difensori dei dubliners,
dopo un viaggio fatto in varie città della penisola per rendersi conto di
persona della situazione e raccogliere una lunga serie di testimonianze, tutte
concordi nell’asserire che Roma si limita ad assicurare solo formalmente lo
status di rifugiato o altre forme di tutela internazionale, perché nel sistema
di accoglienza mancano quasi totalmente programmi in grado di condurre a un
reale processo di integrazione e reinsediamento.
La nuova sentenza della
Corte di Strasburgo, rafforzata dai due casi che l’hanno preceduta, appare
estremamente significativa anche perché arriva in un momento particolare e
molto difficile per i profughi in Europa. In Svizzera, in contrasto con la
disponibilità ottenuta finora, ci sono centinaia, migliaia di immigrati, in
gran parte eritrei, che vivono nella paura di essere scacciati verso l’Italia.
Per 600 è già stato firmato o è in corso di istruttoria il decreto di
espulsione. Sono disperati. Uno di loro lo era al punto di decidere di farla
finita per sempre piuttosto che essere mandato via: lo hanno trovato impiccato
in una sala del centro di detenzione per stranieri di Aarau, nel cantone di
Argovia. Ma neanche questa tragedia ha fermato la “caccia agli irregolari”. Si
tratta per lo più di giovani, uomini e donne, sbarcati in Italia e che sono poi
riusciti in qualche modo a varcare il confine svizzero per presentare a Berna e
non a Roma la richiesta di asilo. Appare evidente che si è messa in moto una
politica di forte “restringimento” o addirittura di chiusura nei confronti dei
profughi. Lo stesso sta accadendo negli Stati membri dell’Unione Europea. Dalla
Francia in questi ultimi mesi sono stati rimandati in Italia oltre 3 mila
migranti; dall’Austria, dai primi di luglio a metà settembre, almeno 2.100,
mentre sono stati intensificati i controlli al Brennero, al Tarvisio, in tutti
i valichi di frontiera. Iniziative o comunque scelte analoghe sono annunciate
dalla Germania, dove a più riprese e da più fonti si è cominciato a dire che il
Paese non può assorbire altri rifugiati. Una chiusura ancora maggiore manifesta
il Regno Unito e sintomi di “malessere” cominciano ad avvertirsi anche
nell’ospitalissima Svezia.
Forse questa linea dura
adottata da gran parte degli Stati europei vuole essere anche un monito contro
il governo italiano, quasi a contestargli che alla sua apprezzabile, giusta
politica di soccorso in mare nei confronti dei migranti fa poi riscontro una
totale indifferenza verso quegli stessi migranti i quali, una volta portati in
salvo e sbarcati, vengono abbandonati a se stessi, fingendo tra l’altro di non
vedere che moltissimi varcano le Alpi per raggiungere altre nazioni
comunitarie. Il più esplicito in proposito è stato il ministro degli interni
bavarese Joachim Hermann, il quale ha apertamente accusato l’Italia di ignorare
le leggi sui rifugiati per non farsene carico e “permettere loro di chiedere
asilo in un altro paese”. Solo che a restare stritolati in questo braccio di
ferro sono innanzi tutto i rifugiati. La parte più debole e incolpevole. Si
profila così, al di là degli atti formali, una enorme ingiustizia etico-morale
e sostanziale: la consegna di migliaia di disperati a un sistema di
accoglienza, quello italiano, che di fatto condanna sempre più spesso questi
esuli a vivere in una condizione da “invisibili” senza diritti, senza casa,
senza lavoro: braccia consegnate ai caporali e allo sfruttamento.
A fronte di questa
prospettiva si sono levate diverse voci per sollecitare quanto meno una pausa
di riflessione. Lo ha già fatto don Mussie Zerai a nome dell’agenzia Habeshia;
si accingono a farlo il Comitato “Giustizia per i nuovi desaparecidos”, diverse
organizzazioni umanitarie e di assistenza; si stanno muovendo Barbara Spinelli
e altri europarlamentari. L’idea guida, nella prospettiva medio-lunga, è quella
di arrivare a un sistema unico di accoglienza, accettato e condiviso da tutti i
paesi dell’Unione Europea, cancellando al più presto le strettoie del
regolamento di Dublino ed eliminando storture come quella del sistema italiano.
Nell’immediato, intanto, si chiede di sospendere tutti i procedimenti e le
pratiche di espulsione in atto. La sentenza della Corte di Strasburgo dà forza
a questa battaglia. Don Zerai ne è convinto: “Abbiamo spiegato più volte che la
nostra richiesta di sospensiva delle espulsioni trae fondamento dal fatto che
il sistema di accoglienza italiano non garantisce alcun vero processo di
inclusione sociale. Dopo aver ottenuto il diritto di asilo, i profughi vengono
abbandonati a un destino da disperati. Senza prospettive. Senza futuro. Non a
caso tantissimi rifiutano di farsi identificare, non vogliono rilasciare le
proprie impronte digitali né farsi fotografare e cercano in tutti i modi di
fuggire dall’Italia verso paesi dove i programmi di accoglienza sono più umani
e dignitosi. Ora conferma questo stesso quadro anche la Corte di Strasburgo:
l’Italia non offre sufficienti garanzie ai richiedenti asilo, nel rispetto dei
diritti umani. E’ una sentenza che può risultare decisiva in tutta Europa. Se è
vero, infatti, che riguarda un singolo caso sollevato in Svizzera, è
altrettanto vero che stabilisce un principio sui diritti umani che tutti gli
Stati Europei non potranno ignorare. A meno di non volerli calpestare questi
diritti”.
Altrettanto esplicito è
Enrico Calamai, portavoce del Comitato Giustizia per i Nuovi Desaparecidos: “L’ultima
sentenza della Corte di Strasburgo, come del resto quella precedente del 21
ottobre e quelle di ben 41 tribunali della Germania nel 2011, chiama
pesantemente in causa l’Italia, la quale continua a dimostrarsi incapace di
rispettare gli obblighi che le derivano dal diritto internazionale e dalla sua
stessa Costituzione. I giudici evidenziano infatti che, in determinate
condizioni, come appunto quelle italiane, va sospeso o comunque non va applicato
rigidamente il trattato di Dublino, che lega i rifugiati al primo paese Schengen
al quale rivolgono la richiesta di asilo. Va sospesa, cioè, la ‘legge formale’
perché la sua applicazione si risolverebbe in una somma ingiustizia. E’
fondamentale, allora, che d’ora in poi gli Stati europei si ispirino a questo
stesso principio. In nome dell’equità, dell’etica, della vita stessa di
migliaia di giovani. E che il nostro Paese capisca finalmente il significato,
direi anzi la ‘lezione’, di condanne pesanti come questa”.
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