stravolta la durissima realtà dell’Eritrea
Nessun diritto di
asilo politico per gli eritrei nel Regno Unito. Il Governo inglese sembra
orientato a cambiare totalmente la sua linea politica nei confronti dei
profughi che fuggono dalla dittatura di Asmara. La notizia viene da fonti
vicine all’Home Office, il Ministero degli Interni, sulla scia di una visita
fatta da una commissione britannica in Eritrea, nel dicembre 2014, per
verificare la situazione del paese. Visita in seguito alla quale sono stati
pubblicati due documenti ufficiali che riguardano in particolare l’immigrazione
clandestina e il servizio militare. Due problemi strettamente connessi: è
proprio il servizio di leva, praticamente a tempo indeterminato, uno degli
strumenti principali della totale militarizzazione della società eritrea e, di
conseguenza, uno dei fattori che più spingono i giovani, ragazzi e ragazze, a
fuggire oltreconfine, per non vedersi rubare dal regime ogni speranza di futuro
e, anzi, la vita stessa. “Per non essere – come ha dichiarato una diciottenne
arrivata in Italia circa un anno fa – schiavi della dittatura”.
La commissione inviata
da Londra è arrivata a conclusioni diverse, addirittura opposte al quadro
tremendo descritto da migliaia di profughi e denunciato da anni da parte di
organizzazioni internazionali come Amnesty, Human Rights Watch, Reporter senza
Frontiere e dalla stessa Unhcr, la Commissione dell’Onu per i rifugiati. Il
rapporto redatto al rientro da Asmara insiste in particolare su tre punti:
– Il servizio
militare non rappresenta una persecuzione, un trattamento degradante o un
lavoro forzato e non ha durata indefinita, ma va da un minimo di 18 mesi a un
massimo di 4 anni, quindi alle persone che fuggono per evitarlo non sarà
concesso lo status di rifugiato in Gran Bretagna.
– Coloro che
rifiutano di intraprendere il servizio militare non sono visti in Eritrea come
traditori o oppositori politici e di conseguenza è improbabile che queste
persone vengano arrestate al loro ritorno. Il provvedimento più probabile è
l’obbligo di tornare a prestare il servizio militare.
– Una legge del
governo eritreo prevede che coloro i quali sono emigrati e vivono all’estero
debbano pagare un’imposta del 2 per cento sul loro reddito al paese d’origine.
Questo è considerato un requisito ragionevole, a condizione che la richiesta
venga fatta senza minaccia di violenza e in ogni caso il rifiuto o il mancato
rispetto di tale volontà non può dar luogo di per sé a un fondato timore di
persecuzione in caso di ritorno.
La conclusione è che
“solo coloro che sono stati politicamente attivi e molto esposti, quindi
facilmente identificabili, nell’opposizione al governo eritreo, possono essere
considerati a rischio nel loro paese”.
Sulla stessa
lunghezza d’onda di Londra si sono poste la Danimarca e, secondo alcuni organi
di stampa, anche la Norvegia. L’atteggiamento norvegese appare, in verità, più
soft e anzi per molti versi differente, quasi opposto. Oslo non ha chiuso le
frontiere ai profughi eritrei, ma da quest’anno ha adottato criteri più
restrittivi nell’esame delle domande di asilo, tanto che il tasso dei rifiuti è
passato dal 13 per cento del 2014 al 23 per cento dei primi sei mesi del 2015.
La maggior parte dei “no”, tuttavia, riguarda persone ritenute in realtà vicine
o comunque non ostili al regime, che tentano di “camuffarsi” da profughi. Anzi,
secondo fonti vicine alla diaspora, si conducono accertamenti proprio su chi
accetta di pagare l’imposta del 2 per cento o partecipa e sostiene
manifestazioni pro regime di vario tipo, pur essendosi presentato come esule.
La Danimarca,
invece, si basa su un rapporto analogo a quello inglese, pubblicato dalle
autorità per l’immigrazione nell’ottobre del 2014, nel quale si afferma, in
buona sostanza, che la situazione in Eritrea sarebbe grossomodo normale, senza
pericoli particolari per i ragazzi fuggiti dal paese, anche se sono soggetti
alla leva e, dunque, considerati “disertori” in tempo di guerra, visto il
perdurare del conflitto con l’Etiopia. All’indomani della pubblicazione, questo
rapporto ha fatto scalpore, anche perché si era nel pieno di una serie di
critiche e denunce da parte della diaspora in seguito al Processo di Khartoum,
l’accordo per il controllo dell’immigrazione firmato dall’Unione Europea e da
dieci Stati dell’Africa Orientale. Ma le asserzioni contenute nel documento
posto a fondamento della nuova politica di “chiusura” nei confronti dei
profughi eritrei da parte di Copenaghen, sono state presto smontate da uno dei
principali esperti citati dalle autorità danesi, il professor Gaim Kibreab, uno
dei massimi esperti di studi sull’immigrazione, docente alla London’s South
Bank University, il quale ha dichiarato senza mezzi termini che le sue
affermazioni erano state mistificate o quanto meno riferite in modo erroneo nel
rapporto, precisando di non avere dubbi che i giovani che lasciano l’Eritrea
sono considerati traditori, imprigionati e sottoposto a torture, nel caso
ritornino in patria.
Il nuovo rapporto
inglese ora ricalca quello danese, nonostante la smentita del professor Gaim
Kibreab. E arriva a conclusioni a dir poco discutibili. Non ha senso, ad
esempio, dire che fuggire per non finire “preda” dell’esercito non è un motivo
sufficiente per ottenere lo status di rifugiato, perché “il servizio militare
non rappresenta una persecuzione, un trattamento degradante o un lavoro
forzato”. Non voler servire in armi o come lavoratori-schiavi il regime, non si
sa per quanto tempo, è di per sé un atto di opposizione politica. Ed è assurdo
sostenere che sia una cosa tutto sommato normale l’obbligo, per tutti gli
eritrei che vivono all’estero, di pagare ad Asmara il 2 per cento sul reddito:
il regime, al di là del grosso flusso di denaro che incamera e che gli serve
per rinforzare il proprio potere, usa questa imposta come strumento di
pressione e ricatto nei confronti dei migranti e dei loro familiari rimasti in
Eritrea. Una sorta di minaccia “sotterranea” che serve anche a individuare
“amici” e “nemici”.
Ma, al di là di
queste considerazioni, una netta smentita alle rosee affermazioni del Governo
inglese arriva dalla fonte più insospettabile: la Commissione delle Nazioni
Unite che ha indagato per oltre otto mesi sulla violazione dei diritti umani in
Eritrea, pubblicando un rapporto reso noto verso la fine di giugno, proprio
quando cioè la notizia sulla volontà di “chiusura” di Londra cominciava a
circolare. Un rapporto che non lascia adito a dubbi su quello che accade in
Eritrea: sulla situazione generale e, in particolare, proprio su alcuni dei
punti che sono alla base della presa di posizione britannica.
Non c’è una sola delle
centinaia di pagine della relazione che non suoni come un pesante atto
d’accusa, a cominciare dal fatto che il paese è soggetto a un “governo del
terrore”, improntato sulla “regola della paura”. Scendendo più nel dettaglio,
le contestazioni sono numerosissime e pesantissime: cancellata la Costituzione
democratica del 1997; perseguitata ogni forma di dissenso o di opposizione;
incarcerazioni arbitrarie e immotivate; centinaia, migliaia di persone gettate
in prigione senza alcuna accusa; prigionieri fatti sparire nel nulla, tanto che
non si sa neppure se siano ancora in vita o no, inclusi i parlamentari del
G-15, arrestati nel 2001 insieme a giornalisti, militari invisi al potere,
sacerdoti e rappresentanti di gruppi religiosi; violenze, torture, uccisioni. E
un servizio militare infinito, durante il quale, specie alle ragazze, può
accadere di tutto. Un quadro orrendo, “tanto da poter parlare di crimini contro
l’umanità”.
Ecco perché tanti
giovani eritrei – ormai 5 mila al mese, secondo i dati Unhcr – sono costretti a
scappare. Altroché “migranti economici”. L’atto d’accusa dell’Onu è la conferma
totale delle denunce che la diaspora fa da anni. C’è da chiedersi, allora, da
dove nasca questa presa di posizione inglese, che ha l’aria di una nuova
apertura nei confronti del regime di Isaias Afewerki. Tutto lascia credere che
abbia origine dagli stessi principi e dagli stessi interessi che hanno portato
al Processo di Khartoum, l’accordo che coinvolge direttamente l’Eritrea
(insieme ad altre dittature come quelle di Al Bashir in Sudan e di Al Sisi in
Egitto) nel controllo dell’immigrazione: in pratica, si chiede ad Asmara di
sbarrare totalmente le sue frontiere, accentuando ancora di più l’attuale
situazione di stato-prigione in cambio di soldi. Tanti soldi: oltre 310 milioni
di euro, che l’Unione Europea ha già promesso e che il commissario per
l’immigrazione, Costantin Avramopoulos ha già giustificato, asserendo che per
bloccare i flussi di migranti la Ue può accordarsi e collaborare anche con i
dittatori.
A guidare questa
politica, insieme a Londra, c’è Roma. Anzi, Roma più di Londra: alla base del
Processo di Khartoum e della promessa dei 310 milioni di euro ci sono
soprattutto “pressioni” del Governo italiano. Sempre con la “giustificazione”
ufficiale che, nonostante tutto, si cerca di trattare con dittature come quella
eritrea nella speranza di cambiare la situazione. E’ fin troppo facile
ribattere che, in questo modo, si legittima in realtà, senza alcuna
contropartita e senza porre alcuna condizione, il potere assoluto di Afewerki,
a scapito innanzi tutto proprio delle migliaia di giovani che perseguita e
costringe a scappare. Ma è la stessa Commissione Onu a smantellare quella
“giustificazione”. Basta leggere una delle conclusioni del rapporto
sull’Eritrea: “Nessuna forma di aiuto economico o di cooperazione servirà a
migliorare la situazione fino a quando non sarà avviato un serio percorso di
democrazia e rispetto delle libertà fondamentali”.
E’ esattamente
quello che dicono da anni, inascoltati, gli eritrei della diaspora. Sono parole
che dovrebbero far riflettere Roma, Londra e quanti altri Governi europei ed
occidentali meditano di adottare la stessa politica di “apertura” nei confronti
di Afewerki. In ogni caso, ora, dopo il rapporto delle Nazioni Unite, nessuno
potrà dire di “non sapere”.
http://www.ohchr.org/EN/HRBodies/HRC/CoIEritrea/Pages/ReportCoIEritrea.aspx
http://www.ohchr.org/EN/HRBodies/HRC/CoIEritrea/Pages/ReportCoIEritrea.aspx
Agenzia Habeshia
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