Corno d’Africa
In fuga da guerre senza nome
Gentile signor
Daniel Sillas,
forse dovrebbe
ascoltare con più attenzione l’intervento di don Mussie Zerai in questa videoregistrazione
della conferenza a cui fa riferimento. Basta leggere la dottrina sociale della
Chiesa Cattolica per capire qual è il ruolo, meglio ancora, il compito, di un
sacerdote cattolico e fin dove può arrivare. Ecco: lei ha citato il Beato
Scalabrini. Allora saprà bene che il vescovo Scalabrini chiedeva ai suoi preti
di non rimanere nel chiuso delle sacrestie ma di uscire “in strada”, per
difendere i più bisognosi. Come, appunto, oggi i migranti…
https://www.youtube.com/watch?v=W53M77ohWIo
https://www.youtube.com/watch?v=W53M77ohWIo
Già, il servizio
pastorale di un sacerdote cattolico comprende anche la difesa dei diritti umani
e dei diritti civili. Ma – può starne tranquillo – questo non significa che don
Zerai sia interessato a “diventare presidente” o a ricoprire altri ruoli
politici nella futura Eritrea libera dalla tirannia. Significa solo che è
deciso a riempire di contenuti concreti il suo ruolo di prete, dando voce a
quegli “ultimi tra gli ultimi” che nessuno sembra voler ascoltare e accogliendo
il monito ad “andare verso le periferie” che papa Francesco ha lanciato fin dal
suo insediamento. Nulla di più, nulla di meno. Quello di costruire la nuova
Eritrea libera e democratica e di scegliere un nuovo presidente liberamente
eletto è compito esclusivo del popolo eritreo. Di tutti gli eritrei: credenti,
laici o addirittura atei, al di là di ogni differenza di idee politiche,
religione, etnia, cultura e via dicendo.
E’ singolare quella
sua ipotesi sulla “corsa alla presidenza”. Come si evince dal video, a fronte
dell’affermazione del professor Calchi Novati che ha definito “cristiano”
l’attuale governo di Asmara, don Zerai si è limitato a precisare che si tratta
in realtà di un governo laico o, ancora più precisamente, ateista. Scambiare
questa precisazione per un’autocandidatura alla guida del Paese ha il sapore, a
dir poco, della fantapolitica. Mentre l’interesse di don Zerai per l’Eritrea,
il suo Paese, è ben diverso e molto più concreto: vuole solo che il popolo
eritreo sia libero ed abbia il diritto di scegliere con il voto chi lo deve
governare, con una costituzione condivisa che regoli la vita politica, sociale,
civile, economica.
E’ un’aspirazione
ormai antica della stragrande maggioranza degli eritrei. Dopo 30 anni di
guerra, il popolo sognava di aver raggiunto l’indipendenza ma, soprattutto, la
libertà, la democrazia, il rispetto dei diritti fondamentali, l’equità e la
giustizia. Non certamente quello che oggi è sotto gli occhi di tutti: un regime
dispotico che soffoca il popolo, perseguita ogni forma di dissenso, nega la
libertà di coscienza, di idee, di pensiero, di religione, di stampa, di
associazione, persino di movimento.
Le forme di tortura in Eritrea disegnate da un rifugiato che ha testimoniato.
Le forme di tortura in Eritrea disegnate da un rifugiato che ha testimoniato.
L’ultima, pesante
denuncia di tutto questo viene dal recente rapporto dell’Onu, frutto di oltre
un anno di indagine e delle testimonianze di tantissimi eritrei in fuga dal
proprio Paese. Una fuga per la vita. Già, una “fuga per la vita”, perché in
Eritrea non è più possibile vivere. Forse, anzi, sarebbe opportuno a questo
proposito che lei facesse un giro, ad esempio a Roma (ma vale lo stesso per
qualsiasi altra grande città italiana od europea), tra i tantissimi ragazzi
costretti a scappare dal regime che lei difende. Giovani e giovanissimi che
hanno sfidato i rischi mortali della traversata di mezza Africa, del deserto e
del Mediterraneo, per chiedere asilo in Europa. Tutti denunciano le condizioni
di schiavitù in cui sono costretti a servire la gerarchia militare al potere.
Rifletta, se avrà la pazienza di ascoltarli, su quanto hanno da raccontare e
denunciare. Su quanti loro coetanei, amici, familiari, fratelli hanno perso la
vita sotto tortura nei campi militari di addestramento a Sawa, quanti sono
morti nel buio di una galera, quanti sono tuttora rinchiusi nei campi di
detenzione, quanti sono stati arrestati senza neanche capirne il motivo,
gettati in una cella per mesi, a volte per anni, senza poter comunicare con
nessuno e senza neanche un’accusa specifica e dunque nella impossibilità
persino di abbozzare una forma di difesa. O, ancora, quanti sono stati uccisi
dalla sete, dall’inedia, dalla sofferenza atroce dentro un container
arroventato dal sole, soltanto perché appartenevano a gruppi religiosi non
accettati dal regime: pentecostali, testimoni di Geova, minoranze islamiche…
Quanti ministri, militari, funzionari, politici, giornalisti, leader religiosi,
obiettori di coscienza sono finiti in carcere senza processo, anzi, senza mai
comparire di fronte a un giudice, tutti accomunati da arresti arbitrari, per i
quali non è mai stata specificata alcuna imputazione. Fatti sparire e basta:
gli stessi familiari non solo non possono contattarli neanche saltuariamente,
ma nemmeno sanno dove siano finiti o addirittura se siano ancora in vita.
http://www.ohchr.org/EN/HRBodies/HRC/CoIEritrea/Pages/ReportCoIEritrea.aspx
http://www.ohchr.org/EN/HRBodies/HRC/CoIEritrea/Pages/ReportCoIEritrea.aspx
Lei dice di essere
un padre. Ebbene, a chi si devono rivolgere, di fronte a chi devono piangere
figli, madri, padri per trovare una risposta a tutto quello che sta accadendo
in Eritrea? A questa catastrofe che sta travolgendo il Paese e il suo popolo?
Cosa devono fare per trovare un minimo di ascolto in lei e nel regime che lei
difende? La invito a fare una ricerca tra quanti usano applaudire il regime.
Vedrà che la maggioranza di loro, forse addirittura il 90 per cento, ha fatto
fuggire dall’Eritrea il proprio figlio, nipote, cugino… E, alla luce di questo,
torno a chiederle: i figli di chi devono essere gli schiavi del regime? O,
viceversa, i sedicenti sostenitori dell’attuale governo – tra cui anche lei
stesso, a quanto sembra di capire – perché non tornano in Eritrea a
“ricostruire il Paese”, a dare il proprio contributo per lo sviluppo? La realtà
è che nessuno scappa da un paese pieno di latte e miele, per cercare un tozzo
di pane salato altrove. Non servono a nulla impossibili difese d’ufficio.
Cerchi di ascoltare e capire, piuttosto, la disperazione dei tantissimi giovani
e giovanissimi in fuga da quello che da anni è diventato un inferno.
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