di Michela A. G. Iaccarino
LA SPERANZA – il viaggio
Il
viaggio è una cosa che tutti noi abbiamo in testa fin da quando siamo nati.
Ognuno ha amici e parenti che l’hanno fatto. Nessuno sa quanto può durare. Se
si è fortunati due mesi, se si è sfortunati anche un anno, o due. E fin da
quando siamo bambini il viaggio è uno degli argomenti preferiti di
conversazione. Tutti hanno racconti di parenti giunti a destinazione in Italia,
Germania, Svezia o Inghilterra. E poi i numeri dei viaggiatori che muoiono nel
tratto più difficile, la traversata del mediterraneo, dalla Libia all’Italia.
Chi dice decine di migliaia, chi dice centinaia di migliaia. Fin da quando
siamo nati siamo abituati a questi numeri senza fondamento. Perché chi arriva,
quando chiama a casa dice sempre la stessa cosa: non riesco a descrivere come è
stato il viaggio. È stato terribile, questo è certo ma non so dirlo a parole.
Ecco perché è sempre più avvolto nel mistero. Mia sorella Hodan come tutti
quelli che partono sapeva soltanto che sarebbe arrivata nel nord Europa.
Avrebbe trovato un bravo ragazzo, si sarebbe sposata e avrebbe vissuto una vita
felice. Ogni mese avrebbe mandato dei soldi a casa e avrebbe aspettato di
essere abbastanza inserita per poter pagare il viaggio anche a noi. Questo era
quello che tutti facevano e questo sapeva lei, questo le era dato di sapere.
PRIMO VIAGGIO – Attraversata
dell'Africa
Dove
trovare i trafficanti di uomini era facile, lo sapevano tutti i somali. Il
luogo d’incontro era un garage, quando sono arrivata erano tutti li ad
aspettare, ho sempre immaginato che saremmo stati in pochi invece ho contato:
eravamo settantadue. Dopo un’ora la saracinesca si è aperta ed è arrivata la Land
Rover, con sei uomini. Senza darci il tempo di ragionare ci è stato ordinato di
ammassare in un angolo tutto ciò che avevamo, era consentito solo un piccolo
sacchetto di plastica. Dopo mezz'ora siamo finalmente partiti, ma in quelle
condizioni qualcuno ha cominciato a star male, a me mancava il respiro e dovevo
fare uno sforzo sovrumano per alzarmi di qualche centimetro e prendere un po’
d’aria. Verso le undici di sera, dopo dieci ore di macchina finalmente ci siamo
fermati. Ci hanno detto che dovevamo dormire in un capannone, hanno portato
dentro la jeep e hanno chiuso il cancello, prima di spegnere la luce ci hanno
distribuito delle barrette di cereali e ci hanno raccomandato di riposare. Il
secondo giorno è stato ancora peggio, i dolori erano lancinanti, stare seduti,
compressi faceva diventare pazzi. Quella sera ci hanno detto che eravamo
arrivati, hanno fermato la jeep e ci hanno ordinato di rimanere a bordo. Subito
qualcuno ha cominciato a gioire e a fare chiasso, credeva che c’è l’avessimo
fatta. Si sbagliava. Presto uno dei trafficanti ci ha comunicato che non
eravamo a Khartoum ma ci trovavamo a due chilometri da al Qadarif, dopo il
confine con il Sudan e se a qualcuno non andava bene poteva continuare a piedi.
In un attimo i due trafficanti sono tornati nella jeep. Ci hanno portato di nuovo dentro un garage e ci hanno
consegnati a un altro gruppo di trafficanti. Quando siamo entrati nel garage ci
siamo trovati di fronte alla stessa scena della partenza. Una jeep e sei uomini
che si muovevano nervosi. Eravamo stati imbrogliati e presto abbiamo capito che
servivano altri duecento dollari per arrivare a Khartoum. Chi aveva i soldi
poteva pagare subito, gli altri dovevano trovarsi un lavoro o farsi spedire del denaro dai
parenti. Ho dormito per una settimana in una piccolissima stanza e dopo una
settimana siamo ripartiti. Eravamo un po’ meno questa volta, quarantotto. Si
stava un po’ più larghi anche se tutti sapevano che il peggio del viaggio
doveva ancora venire: l’attraversamento del deserto del Sahara. Dopo venti ore
di macchina ci siamo fermati di nuovo, questa volta davanti ad una costruzione
in mattoni. Presto abbiamo capito che non eravamo a Khartoum. I trafficanti ci
hanno detto che ci siamo fermati perché la jeep aveva avuto un imprevisto ed eravamo
stati costretti a fermarci. Siamo rimasti per dieci giorni in quella casa di
mattoni con due litri d’acqua ogni ventiquattr'ore, e due porzioni di cibo e
per arrivare a Khartoum servivano duecento dollari. Il terzo giorno ho chiamato
mia sorella Hodan in Finlandia e le ho confessato che ero partita, lei non s’è
l’aspettava e le ho detto che avevo bisogno di soldi per continuare il viaggio.
Quando sono arrivata a Khartoum sono rimasta per due
settimane in un minuscolo appartamento alla periferia sud della città. Ho
dovuto chiamare di nuovo mia sorella e farmi mandare altri cinquecento dollari
per un viaggio che doveva essere fino a Tripoli. Alla partenza ci hanno
schiacciati tutti dentro, solo che questa volta eravamo ottantasei. Verso le
due del mattino ci fermavamo in un punto qualunque tra quelle distese di
sabbia. Dopo due giorni di marcia, la jeep si è rotta ma per davvero questa
volta. Siamo scesi tutti, i trafficanti hanno chiamato i soccorsi comunicando
le coordinate al GPS. Dopo tre ore sono arrivati i soccorsi e la sera abbiamo
ripreso il viaggio. Il 12 ottobre ci hanno lasciati al confine con la Libia.
Dopo qualche ora abbiamo ripreso il viaggio questa volta erano dei trafficanti
Libici. Ci hanno caricato sul furgone e ci hanno condotti a Kufra. Un posto
dove rischiavi di rimanerci per settimane se non avevi i soldi che ti
chiedevano. Al termine del secondo giorno sono tornati e ci hanno chiesto mille
dollari per Tripoli. Mia sorella ha impiegato ventotto giorni per farmi
arrivare i soldi e finalmente potevo lasciare Kufra. Dopo una settimana di
viaggio invece che portarci a Tripoli ci hanno portato in un'altra prigione
l’ennesima truffa. Per andarsene servivano millecinquecento dollari. Sono stata
lì quasi due mesi. Dopo una settimana ero finalmente a Tripoli. Il 15 dicembre
2011 esattamente cinque mesi dopo la mia partenza ero libera. A Tripoli ho
vissuto per lunghi mesi. Il 2 ottobre 2013 i trafficanti ci hanno detto che la
barca era pronta e potevamo partire.
SECONDO VIAGGIO – Attraversata
del Mediterraneo
Prima
dell’alba, ci hanno portato in auto fino alla costa e ci hanno traghettato su
una barca lunga una ventina di metri. Hanno stipato più di cinquecento persone
sul ponte, in coperta e nelle cabine. Agli scafisti non piaceva molto come si
presentava la barca, così bassa, pesante e vecchia. Ma hanno detto: “Se Dio
vorrà, sarete fortunati”. La barca è partita. Abbiamo mandato donne e bambini
sotto coperta per farli stare più comodi. Alcuni si sono scritti il numero di
telefono delle loro famiglie sui vestiti. In una cabina affollata una donna ha
scritto sul muro un numero. Era quello di un prete cattolico, abba Mussie
Zerai, padre Mosè. Il suo numero è scritto sulle pareti delle carceri in Libia.
Credevamo che potesse far arrivare una nave con i soccorsi dovunque ci
trovassimo in mezzo al mare. Il capitano era tunisino e non parlava la nostra
lingua. Ha tenuto il motore acceso fino a dopo il tramonto. Alle tre di notte
del 3 ottobre, il motore si è fermato. Eravamo abbastanza vicini da vedere le
luci sulla costa. Lampedusa. Aspettavamo che il motore ripartisse. La nave ha
cominciato a imbarcare acqua. Il capitano ha preso qualcosa in mano e l’ha
strappata: poteva essere un lenzuolo, un pezzo di stoffa o una coperta. L’ha
bagnato nel carburante e poi gli ha dato fuoco per segnalare che avevamo
bisogno d’aiuto. Alla vista delle fiamme alcuni
sono stati presi dal panico e si sono precipitati verso la prua, che è
affondata per il peso. La nave si è capovolta e siamo finiti in acqua. Ci siamo
detti: “Tentiamo la sorte”. Poi è arrivata la barca italiana e da questa viene
presa la decisione di buttare delle corde in mare, delle persone iniziano a
buttarsi in mare. Io guardo il mare, il mio mare e senza preavviso mi butto.
Inizio a cercare le funi dell’imbarcazione italiana, ma non ci riesco. Abbiamo
cominciato a nuotare. Vedevamo mani pronte a tirarci giù, ma le abbiamo
schivate. Dagli oblò vedevamo l’interno delle cabine. Alcuni hanno visto
all’interno i figli e le mogli, e hanno scelto di annegare con loro, altri sono
annegati cercando di salvarsi. Alcuni urlavano il loro nome e quello del loro
villaggio perché la notizia della loro morte potesse arrivare a terra.
A
Friburgo, verso le nove di mattina del 3 ottobre, il telefono di padre Mussie
Zerai ha cominciato a squillare ripetutamente.
Nato
sotto il pugno della dittatura etiope, nella mia terra eritrea, sono arrivato
in Italia nel 1992. Non in barca, ma seduto comodamente in aereo: me ne sono
andato con visto regolare. Mentre si accentrava il potere nelle mani di pochi e
si alimentava il sospetto reciproco negli occhi di molti, io, ammonito da quel
presagio di una guerra che cominciava dalla scia di cenere di un’altra, con la
fortuna in tasca e un padre in Italia, ho deciso di provare a vedere cos’è il
destino degli uomini liberi. Ho lasciato un’Eritrea e ne ho trovate un milione
e mezzo lontano da Asmara. Hanno attraversato il deserto a piedi, il mare su
gommoni fatiscenti, nel mirino di mitraglie sempre pronte a sparare. I
fuggitivi scappano da un regime che con una mano li incatena, con l’altra li
accompagna verso la frontiera del paese. Ci sono pezzi del governo eritreo
coinvolti nel traffico di esseri umani. I loro nomi sono stati messi nero su
bianco dall’ONU, forse nessuno li ha letti. Oggi in Eritrea se tuo figlio è
scappato, o paghi o vai in carcere. Se non pratichi la religione ufficiale, o
paghi o vai in carcere. Se sei un dissidente, vai in carcere. Se sei un
obiettore di coscienza, rimani in carcere. Il regime finanzia e addestra anche
shabab somali in territorio eritreo. L'Onu l'hanno messo nero su bianco in un
dossier, forse nessuno l'ha mai letto. A volte mi fanno domande quelli che
dovrebbero darmi una risposta. Ho detto al Governo Italiano, smettetela di dare
cittadinanza ai morti, date diritti ai vivi. Smettetela di fare salam halek
davanti a un governo sanguinario”.
Zerai è
nato ad Asmara nel 1975. Asmara è la capitale dell'Eritrea ma nell'epoca la
città era sotto il controllo marxista dell'Etiopia. Quando aveva cinque anni,
sua madre morì di parto e, insieme ai suoi sette fratelli, venne cresciuto da
sua nonna Kudusan. Da ragazzo Zerai cercava rifugio in chiesa perchè capì, essendo cresciuto senza
genitori, che i sacerdoti potevano vivere come in una famiglia allargata e a 14
disse alla nonna che voleva diventare prete. Quando Zerai lasciò l'Eritrea nei
primi anni 90', il paese aveva conquistato l'indipendenza dopo 30 anni di
guerra. Zerai partì per Roma, senza l'aiuto del padre che ormai si era
risposato. Conobbe un prete britannico che lavorava in un ufficio alla stazione
di Roma, che aiutava i minori non accompagnati a presentare richiesta d'asilo.
Grazie a lui ottenne un permesso di soggiorno. A Roma, Zerai poteva andare
ovunque senza la paura di essere arrestato. Ogni tanto sentiva insulti razzisti
sull'autobus o sul proprio posto di lavoro. Quando gli africani facevano un
errore, i capi li insultavano. Zerai trovò lavoro in una bancarella di frutta,
dove migliorò il suo italiano. Dopo il lavoro aiutava il prete britannico facendo
da interprete e consigliere. Imparò le procedure burocratiche per ottenere
permessi di soggiorno, documenti di identità, tessere sanitarie, pensioni e
modelli fiscali. Don Giampiero gli consigliò di entrare nell'ordine degli
Scalabriniani, noti per aiutare gli immigranti. Imparando a conoscere la vita e
le opere di Scalabrini, Zerai rimase fulminato.
Don
Mussie Zerai con la sua associazione Habeshia, che si occupa di dar voce a chi
scappa dall'Eritrea o dall'Etiopia, è in contatto con molti dei migranti sub-sahariani
detenuti nelle carceri libiche, grazie a cellulari che son riusciti a
nascondere. Dati certi non ce ne sono, ma don Mussie ha censito 21 prigioni;
150 detenuti nel carcere di Hums provenienti dal Ciad, dalla Nigeria, ma
soprattutto dalla Somalia, dall'Etiopia e dall'Eritrea, altrettanti a Tripoli,
oltre 400 a Bengasi.
Gli
africani diretti in Europa si passano il suo numero di telefono per chiamarlo
in caso d'emergenza. Le barche in difficoltà chiamano Zerai con il Telefono
satellitare, lui prende nota delle coordinate e le comunica alle autorità
italiane per organizzare le operazioni di soccorso. Quando i soccorritori non
arrivano, Zerai si rivolge alle radio alle tv italiane, e spedisce email a
liste d'indirizzi per fare i nomi di quelli che ritiene responsabili. Secondo
la guardia costiera italiana, le telefonate di Zerai hanno permesso di salvare
almeno cinquemila vite.
Quello
che ha colpito Zerai nel naufragio del 2013 è stata la vicinanza della barca
alla costa. La morte per annegamento di centinaia di persone a meno di un
chilometro da Lampedusa era la conseguenza emblematica delle politiche europee
sull'immigrazione: un rafforzamento delle frontiere unito a un inquietante
indifferenza per la vita umana. A una agenzia di stampa italiana Zerai ha detto
che quelle morti erano “il frutto di un rapporto malato tra il nord e il sud
del mondo”.
Quel
giorno papa Francesco ha definito il naufragio “una vergogna”.
Dopo il
naufragio del 3 ottobre 2013, Zerai si è chiesto se una tragedia di quelle
proporzioni avrebbe finalmente suscitato una reazione. “I politici parlano,
parlano, parlano” ha detto alzando le spalle, “ma ogni volta è lo stesso. Tra
qualche mese tutti avranno dimenticato. Tranne noi: noi ricordiamo sempre”. Si
è asciugato il sudore sulla fronte con un fazzoletto. “Non è possibile
accettare queste cose come se fossero normali. Non è stato un normale
incidente”.
Zerai fa
il parroco in Svizzera e segue migliaia di cattolici eritrei che vivono nel
paese. Nel tempo libero svolge le sue attività a favore degli immigrati
attraverso l'agenzia Habeshia per la cooperazione allo sviluppo che ha fondato
lui. La bolletta telefonica può arrivare a costargli mille euro al mese. Per un
certo periodo Zerai si è anche impegnato a raccogliere decine di migliaia di euro
necessaria a pagare i riscatti di chi lo chiamava per chiedere aiuto, ma poi si
è reso conto che era come cercare di spegnere un incendio con la benzina. Ha
illustrato i problemi dell'immigrazione dall'Africa a ministri italiani,
commissari dell'Unione europea e a due papi. In cambio ha ricevuto solidarietà,
ma ha ottenuto pochi cambiamenti politici. "Ma La Speranza è l'ultima a morire".
CITAZIONI
“Non sono
un eroe”
“Io non
incoraggio nessuno a venire in Italia o in generale in Europa, queste persone
devono fuggire per salvarsi la vita”
“Si passa
da un telefono all'altro... e in breve tempo il mio numero è diventato
pubblico”
“Quelli
che vedete nel Mediterraneo sono esseri umani non oggetti senza vita”
“Smettetela
di dare cittadinanza ai morti, cominciate a dare diritti ai vivi”
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