di Emilio Drudi
“Rintracciare cittadini
nigeriani in posizione irregolare sul territorio nazionale”: è l’ordine emanato
dal Viminale, alla fine di gennaio, con un telegramma urgente indirizzato a
tutte le questure italiane. L’obiettivo è riempire un volo charter di rimpatrio
verso la Nigeria entro la fine di febbraio. Perché proprio la Nigeria? Perché
tra Roma e Abuja è stato appena perfezionato un patto bilaterale di
respingimento. La “caccia al nigeriano”, dunque, può considerarsi una specie di
prova generale. Si cercano, in tutto, circa 100 “rimpatriandi”: 95, per
l’esattezza. Nel dispaccio della direzione centrale dell’immigrazione si fa il
conto preciso, con tanto di posti riservati nei Cie in attesa dell’imbarco:
“Cinquanta per donne nel Cie di Roma, 25 per uomini a Torino, 10 a Brindisi e
10 a Caltanissetta”. E’, in sostanza, la fotocopia di quanto è avvenuto
nell’agosto 2016 con il Sudan, anche in questo caso all’indomani di un patto
bilaterale di polizia. Ancora una volta, cioè, una espulsione di massa. “Una
espulsione vietata dalla legge, fatta sulla base della nazionalità e quindi
discriminatoria, a prescindere dalle condizioni e dalla storia delle singole
persone”, ha denunciato Filippo Miraglia, vicepresidente dell’Arci,
interpretando il pensiero di tutte le principali Ong che si occupano della
tutela dei diritti dei rifugiati e dei migranti.
Il caso Nigeria.
La giustificazione del Viminale è che si tratta di “irregolari”. Ma in passato
è accaduto più volte che i migranti espulsi fossero tutt’altro che “irregolari”,
tanto da provocare l’intervento e la conseguente condanna, nei confronti
dell’Italia, da parte della Corte europea per i diritti dell’uomo. Ma, condanne
a parte, che significa “irregolari”? C’è da chiedersi, ad esempio, se scappare
dalla morte, dalla fame, dalle sofferenze provocate dalla carestia significa
essere “irregolari”. Perché anche questo sta accadendo in Nigeria, in aggiunta
al terrore e alle stragi seminate dalle milizie jihadiste di Boko Haram. I
rapporti stilati dall’Onu nell’ultimo anno sono eloquenti: a parte i fattori
legati al cambiamento climatico, la guerra civile in corso nel nord est ha
spopolato le campagne e impedisce le coltivazioni, spingendo gran parte del
paese verso lo spettro della sotto alimentazione endemica. Le ultime
segnalazioni, dal luglio 2016 a oggi, parlano di circa 14 milioni di persone
che non riescono a soddisfare i bisogni alimentari elementari. Di queste, oltre
2,5 milioni sono alla fame e la carestia più dura colpisce già almeno 400 mila
bambini. Con effetti devastanti: si calcola che 75 mila di loro rischiano di
morire entro i primi mesi di quest’anno, al ritmo di 200 al giorno. E l’Unicef
ha più volte denunciato che gli aiuti messi in campo dalla comunità
internazionale, per affrontare questa tragedia, sono largamente insufficienti.
Ecco perché si scappa dalla
Nigeria. Però difficilmente i nigeriani vengono accolti come rifugiati o
comunque con una forma di tutela internazionale: il più delle volte sono
marchiati come “irregolari” da respingere.
Il
Corno d’Africa. La carestia che
investe la Nigeria non è isolata: ne è travolta mezza Africa. Solo in tre dei
paesi del Corno – Somalia, Etiopia e Kenya – Save the Children ha stimato nel
suo ultimo rapporto (27 gennaio 2017) che, a causa della siccità da cui è
tormentata la regione, rischiano di morire di fame 6 milioni e mezzo di bambini.
Anzi, quasi mezzo milione “è già affetto da gravi forme di malnutrizione
acuta”. Più in generale, la crescente scarsità di piogge ha portato “a pesanti
carenze d’acqua e alla morte del bestiame, lasciando quasi 15 milioni di
persone con un urgente bisogno di assistenza”. E il
futuro si presenta ancora più oscuro. “Per la prossima stagione delle piogge –
ha denunciato John Graham, direttore di Save the Children in Etiopia – sono
previste precipitazioni sotto la media. Questo significa che la situazione già
disperata dei bambini e delle famiglie in Somalia, Etiopia e Kenya non può che
peggiorare, portando milioni di uomini e donne a rischiare la fame e persino la
vita”. E ogni pagina del rapporto è più pesante di un macigno: “Con quasi la
metà della popolazione (5 milioni di persone) costretta ad affrontare gravi
carenze di acqua e di cibo, la Somalia è oggi sull’orlo di una profonda
carestia. I tassi di malnutrizione hanno già raggiunto livelli critici e si
prevede un peggioramento. Migliaia di famiglie si spostano per sopravvivere.
Molti stanno attraversando il confine con l’Etiopia per cercare aiuto. Il 77
per cento dei bambini visitati nel campo di Dollo Ado mostra segni di
malnutrizione”.
Ma nell’Etiopia a cui
chiedono aiuto i somali in fuga, le cose non vanno meglio: “La siccità sta
costringendo molti bambini ad abbandonare la scuola, esponendoli al rischio di
matrimoni precoci o di migrazione forzata. Nonostante il governo abbia lavorato
per mitigare gli effetti della siccità, sono necessari fondi per 948 milioni”.
Lo stesso vale per il Kenya: “Sono più di 1,25 milioni quelli che hanno urgente
bisogno di cibo a causa di una crisi alimentare destinata a crescere nei
prossimi mesi”.
Lo Yemen.
Sull’altra sponda del Mar Rosso, proprio di fronte al Corno d’Africa, nello
Yemen sconvolto da anni di guerra civile, è anche peggio. Non lascia dubbi la
denuncia fatta all’inizio dell’anno, di fronte al Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite, da Stephen O’ Brian, capo delle operazioni umanitarie dell’Onu: “E’
in corso nel paese la più grave crisi alimentare mondiale, con 14 milioni di
persone che non mangiano a sufficienza e due milioni che rischiano di morire se
non si interviene con urgenza”. I più a rischio sono i minori: “Ci sono 2,2
milioni di bambini che soffrono la fame. Ogni dieci minuti muore un bambino
sotto i dieci anni, per cause evitabili come infezione e diarrea causate dalla
malnutrizione e dalla mancanza di medicinali di base”. E ancora una volta, a
parte la siccità naturale, c’entra pesantemente la guerra: “L’assedio e i
bombardamenti anche sui campi coltivati hanno ridotto al minimo le riserve di
cibo e medicinali”, ha scritto Giordano Stabile su La Stampa. Bombardamenti condotti soprattutto dalla coalizione
guidata dall’Arabia Saudita e che – è il caso di ricordarlo – hanno colpito
spesso ospedali, scuole, campi di rifugiati, folle riunite per cerimonie
religiose. E da questo inferno si fa fatica pure a scappare: i profughi sono
tanti, circa 1,6 milioni, ma così poveri e privi di tutto da non riuscire a
mettere insieme il denaro necessario per una “fuga per la vita”. Soltanto pochi
raggiungono l’Oman attraverso il deserto. Qualcuno però in Italia ci è arrivato:
puntando verso l’Europa, è sbarcato proprio in quell’Italia che rifornisce di
bombe gli aerei della coalizione saudita, quasi a denunciare, con il suo grido
d’aiuto, le nostre responsabilità.
Il Sud Sudan.
Lo stesso accade nel Sud Sudan, in guerra
dal dicembre 2013. Scontri continui, violenze, battaglie, razzie, incendi,
distruzioni, stragi hanno costretto migliaia di contadini ad abbandonare le
terre e i villaggi. Si calcola che almeno 2,5 milioni di persone vivano nei
campi profughi o siano fuggite oltre confine. Da tre anni non si fanno più le
semine e quindi non ci sono raccolti: secondo gli ultimi rapporti dell’Onu,
sono a rischio carestia circa 4,5 milioni di uomini e donne, in particolare i
bambini e gli anziani. Ovvero: la sopravvivenza della maggioranza della
popolazione dipende dagli aiuti internazionali, che però faticano ad arrivare, perché
il conflitto in corso non concede tregua e sta anzi assumendo sempre di più la
ferocia di una pulizia etnica, con massacri mirati in base alla tribù di
appartenenza. Eppure anche per chi fugge da questo orrore non è facile essere
accolto in Europa come profugo. Anzi ora, con il nuovo accordo Italia-Libia e
il programma di respingimento deciso a Malta il 3 febbraio dai capi di stato
dell’Unione, non riuscirà più nemmeno a imbarcarsi per tentare di raggiungere
l’Italia.
E’ proprio qui il punto:
anziché istituire canali umanitari per questi milioni di disperati, si
costruiscono muri e si organizzano retate e voli charter per il rimpatrio
forzato, anche verso realtà di crisi estrema. Prevale più che mai, in Italia e
in Europa, una politica di chiusura totale, sempre più stretta, anche di fronte
a una catastrofe umanitaria, in Africa, che si profila persino più grave di
quella della terribile carestia del 2010/2011. Quella carestia che provocò un
numero infinito di profughi e di morti, spopolando intere province, specie nel
Corno, con conseguenze che sono tutt’oggi, dopo più di cinque anni, una ferita sanguinante,
mentre si aprono ferite ancora più dolorose.
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