di Emilio Drudi
Li hanno bloccati a
Ventimiglia nel centro accoglienza della Croce Rossa, portati a Torino dopo un
accertamento sommario, caricati sotto scorta su un aereo e rimpatriati, contro
al loro volontà, in Sudan, il paese da cui erano scappati per sottrarsi al
regime di Omar Al Bashir, il dittatore colpito da un ordine di cattura
internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità in seguito ai massacri
nella martoriata regione del Darfur.
Erano in 40, quasi tutti in fuga proprio dal Darfur. Di molti di loro si sono perse
le tracce dopo lo sbarco a Khartoum. Almeno cinque, però, non si sono arresi ed
hanno deciso di trascinare l’Italia di fronte alla Corte Europea per i Diritti Umani.
Al loro fianco si è schierato il Tavolo Nazionale Asilo, di cui fanno parte
organizzazioni come il Centro Astalli, l’Asgi, la Caritas, l’Arci, la
Federazione delle Chiese Evangeliche, Amnesty. Il procedimento è seguito dagli
avvocati Salvatore Fachile e Dario Belluccio, che il 13 febbraio hanno
depositato un esposto presso la cancelleria della Corte, a Strasburgo.
Il ricorso, al di là
del fatto specifico, mette sotto accusa tutta la politica italiana ed europea
di respingimento nei confronti di richiedenti asilo e migranti. In particolare,
anzi, è nel mirino il patto di polizia tra Italia e Sudan firmato in segreto a
Roma il 3 agosto 2016 e utilizzato dal Viminale per procedere al rimpatrio
forzato il 28 agosto successivo. Un patto che, come numerosi altri analoghi, è
uno dei “pilastri” delle barriere che l’Italia e l’Unione Europea stanno
erigendo per bloccare e rimandare indietro i profughi a qualsiasi costo e a
prescindere dalla sorte che li attende. Pur essendo ben a conoscenza che questa
procedura – come rilevano numerose sentenze – è in contrasto con il diritto
internazionale e con la stessa Costituzione della Repubblica.
L’avvocato Salvatore
Fachile non ha dubbi che si tratti di una violazione voluta. “Il provvedimento
– ha dichiarato a Repubblica – si
inserisce in un piano preciso dell’Unione Europea, che chiede a Italia e Grecia
di violare i trattati internazionali per fermare l’arrivo di persone via mare,
trasformando il nostro paese in una enorme frontiera, dotata di centri di espulsione”.
Ora si ha fiducia che il percorso a Strasburgo sia spedito. Anche per la
sicurezza dei cinque giovani che hanno avuto il coraggio di uscire allo
scoperto. “Siamo stati costretti a lavorare in condizioni difficili per noi e
pericolose per i nostri assistiti”, ha sottolineato infatti Fachile. Non ha
aggiunto altri particolari, salvo che il mandato per rivolgersi alla Corte
Europea è stato raccolto durante la visita fatta in Sudan, nel dicembre 2016,
da una delegazione di parlamentari Ue, del gruppo Sinistra Unitaria (Sue). Una
visita ufficiale di rappresentanti di Bruxelles. Eppure le conversazioni fra
gli avvocati e i ricorrenti sarebbero state ascoltate dai servizi segreti del
regime e gli stessi avvocati sono stati poi interrogati a lungo dalla polizia.
“Possiamo solo dire – hanno spiegato Salvatore Fachile e Dario Bellucci – che
ai nostri assistiti è stato intimato un divieto di espatrio per cinque anni e
che ora vivono nascosti da qualche parte, nei dintorni di Khartoum: non
vogliono e non possono ritornare nel Darfur, dove rischiano di subire le
persecuzioni dalle quali sono fuggiti”.
In caso di condanna,
per l’Italia non sarebbe la prima volta. Negli ultimi sei anni è finita alla
sbarra ed è stata poi condannata per ben otto volte dal “tribunale” di
Strasburgo o da altre corti di giustizia europee. La sentenza più clamorosa è
stata quella per i respingimenti in mare verso la Libia, nel febbraio 2012, ma
non sono meno significative, anche se meno note, le altre sette.
Bruxelles, 28 aprile 2011. Bocciato il reato di
clandestinità
Bocciate dalla Corte
di Giustizia dell’Unione Europea la norme sul reato di clandestinità introdotto
nell’ordinamento italiano nel 2008 con il “pacchetto sicurezza” deciso dal Governo
Berlusconi. Punire la clandestinità con la reclusione, secondo i giudici, era
in contrasto con la direttiva europea sui rimpatri dei migranti irregolari.
Roberto Maroni, allora ministro dell’interno e autore del “pacchetto sicurezza”,
ha contestato il verdetto come “discriminatorio” nei confronti dell’Italia,
dimenticando però che già la Corte Costituzionale italiana aveva dichiarato
illegittima la condizione di clandestinità come “aggravante” di altri reati
(tanto da determinare un aumento di pena fino a un terzo), introdotta nel 2008
con un altro “decreto sicurezza”.
Berlino, 20 novembre 2011. Italia accusata da 41
Tribunali tedeschi
Roma viene messa
sotto accusa da 41 Tribunali tedeschi, che bloccano l’ordine di espulsione
verso l’Italia deciso nei confronti di numerosi profughi incappati nel
regolamento di Dublino (i cosiddetti “dubliners”),
per non esporli al rischio di precipitarli di nuovo nelle condizioni estreme,
senza servizi né forme di assistenza adeguate, che li avevano spinti a varcare
clandestinamente la frontiera delle Alpi per cercare rifugio in Germania. A
portare di fatto “alla sbarra” il Governo italiano sono stati due avvocati
tedeschi (difensori di alcuni “dubliners”),
che per convincere i giudici di Berlino a sospendere il rimpatrio hanno
presentato un dossier sulle condizioni di vita dei loro assistiti in Italia. Un
dossier raccolto “sul campo” dai due legali, dopo un lungo viaggio nella
penisola per rendersi conto della situazione e mettere insieme tutta una serie
di testimonianze e documenti. Le prove prodotte non solo hanno convinto i
giudici e scandalizzato l’opinione pubblica, ma indotto anche altri tribunali,
fino a un totale di 41, tra i principali della Germania, a sospendere
temporaneamente le espulsioni verso l’Italia. Tra gli altri, i tribunali di Francoforte,
Weimar, Dresda, Friburgo, Colonia, Darmstadt, Hannover, Gelsekirchen.
Strasburgo, 22 febbraio 2012. Respingimenti in mare:
Italia condannata
La Corte di
Strasburgo condanna la politica dei respingimenti in mare adottata dal governo
Berlusconi. I giudici contestano all’Italia di aver violato la Convenzione sui
diritti umani: in particolare l’articolo 3, quello sui trattamenti degradanti e
la tortura. La sentenza riguarda la vicenda di 200 profughi, in maggioranza
eritrei e somali, intercettati il 6 maggio 2009 su un barcone alla deriva nel
Canale di Sicilia, in acque internazionali, da una unità della Marina italiana,
che li ha presi a bordo e riportati in Libia, nonostante le loro proteste,
senza identificarli e senza verificare se avessero i requisiti per ottenere
l’asilo o un’altra forma di tutela internazionale. Consegnati alla polizia di
Tripoli, sono finiti in centri di detenzione, dove molti hanno poi subito
maltrattamenti e violenze. A sollevare il caso di fronte alla Corte per i
diritti umani, sono stati 24 di loro (rintracciati dal Consiglio italiano per i
rifugiati) con un ricorso che ha dato voce a tutte le centinaia di migranti
respinti in mare dalla Marina italiana o catturati dalla Guardia Costiera e
dalla polizia libiche, mettendo così sotto accusa la politica di Roma
sull’immigrazione, per la violazione sistematica, tra l’altro, del protocollo 4
della Convenzione di Ginevra, in base al quale sono proibiti i respingimenti
collettivi.
Strasburgo, 29 marzo 2012. Strage su un gommone:
“colpevole” l’Italia
Il Consiglio
d’Europa pronuncia una sentenza di condanna contro l’Italia ritenendola la
maggiore responsabile della tragica morte di 63 dei 72 migranti abbandonati per
due settimane su un gommone alla deriva nel Canale di Sicilia. Si tratta di uno
degli episodi più drammatici dell’esodo dei profughi in fuga dalla Libia,
durante la rivoluzione contro Gheddafi. Risale alle settimane a cavallo tra i
mesi di marzo e aprile 2011 e oltre all’Italia ha coinvolto Malta e tutte le
forze Nato schierate in mare a sostegno delle milizie anti Gheddafi. Le vittime
sono giovani eritrei e somali, incluse alcune donne e due bambini piccolissimi.
L’inchiesta e la
sentenza del Consiglio d’Europa sono nate dalla denuncia formulata da don
Mussie Zerai, presidente dell’agenzia Habeshia, e diventata un caso
internazionale dopo essere stata ripresa dal Guardian di Londra e dalla Tv Svizzera con una approfondita
indagine giornalistica. La ricostruzione dei fatti è sconvolgente. Il gommone,
partito dalla Libia, è rimasto in balia del mare per un guasto al motore. Il
primo a ricevere un Sos è stato don Zerai, che ha allertato la Guardia Costiera
italiana. Scattate le ricerche su iniziativa dell’Italia, il battello è stato
avvistato da un elicottero, probabilmente maltese, che ne ha segnalato la
posizione esatta ed ha anzi gettato dell’acqua ai migranti. Sembrava la
premessa per un rapido intervento di recupero. Invece, da quel momento quei
disperati sono stati abbandonati a se stessi: nessuno è andato a salvarli, fino
a che il battello è stato sospinto dalle correnti di nuovo in Libia. Ma a quel
punto, dopo 15 giorni, 61 dei migranti a bordo erano morti e altri due sono
spirati poco dopo aver toccato terra. I nove superstiti, inizialmente arrestati
dalla polizia libica, appena liberi si sono rivolti a don Zerai. L’Italia è
stata ritenuta la principale responsabile perché, avendo ricevuto per prima la
richiesta di aiuto, avrebbe dovuto, se non intervenire direttamente, almeno
verificare che i soccorsi venissero organizzati e condotti a termine, tanto più
che era evidente che non si poteva fare affidamento sulla Libia, travolta dalla
guerra civile, pur essendo lo Stato più vicino alla posizione del natante in
difficoltà.
Strasburgo, 21 ottobre 2014. Respingimenti: nuova
condanna per l’Italia
La Corte di
Strasburgo condanna l’Italia per una serie di respingimenti di profughi (33
afghani, 2 sudanesi e un eritreo) avvenuti nel 2009 da tre porti dell’Adriatico
(Ancona, Venezia e Bari) verso la Grecia, lo Stato da cui erano arrivati su
traghetti di linea. I magistrati hanno rilevato nel comportamento dell’Italia
una palese violazione dei diritti dell’uomo, essendo ben noto che la Grecia, travolta
in quei mesi da forti sconvolgimenti politici, non era in grado di garantire a
quei profughi, tutti richiedenti asilo, forme di tutela adeguate al loro
status, tanto più che si respirava nel paese, nei confronti degli stranieri, un
diffuso senso di ostilità che ne metteva a rischio in molti casi la sicurezza e
l’incolumità. Senza contare i duri trattamenti denunciati nei campi di raccolta
(in particolare quello di Patrasso, dove erano rinchiusi in buona parte i 35
sbarcati di cui si è occupata la Corte) e soprattutto il rischio di essere
rimpatriati da Atene nei paesi d’origine, venendo così esposti ai pericoli
estremi dai quali erano fuggiti. Per il trattamento riservato a quei profughi è
stata condannata anche la Grecia.
Quattro novembre 2014. “L’Italia non rispetta i
diritti dei rifugiati”
La Corte di
Strasburgo contesta all’Italia di non rispettare i diritti dei rifugiati: un
atto d’accusa scaturito dalla sentenza pronunciata sul caso di una famiglia di
profughi afghani arrivata in Svizzera dopo essere sbarcata a Bari e che Berna
voleva espellere verso l’Italia, in applicazione del regolamento di Dublino. La
Corte ha affermato che, nel caso specifico, le norme di Dublino non potevano
essere applicate perché in Italia non ci sarebbero state sufficienti garanzie
sui diritti umani: in particolare, garanzie sul diritto a un alloggio dignitoso e sicuro, specie in
presenza di bambini piccoli, com’era il caso di quella famiglia. In base a
questo principio, l’ordine di espulsione di Berna è stato bloccato. Lo stesso
principio, in sostanza, adottato nel 2011 da 41 Tribunali tedeschi.
Bruxelles, 15 dicembre 2016. “Violati i diritti di 13
nigeriane”
Il Comitato per la
Prevenzione della Tortura (Cpt) condanna l’Italia per l’espulsione collettiva
di 13 giovani nigeriane detenute nel Cie di Ponte Galeria a Roma, rimpatriate
contro la loro volontà tra il 16 e il 18 dicembre 2015. Secondo la sentenza,
non sono stati rispettati i diritti fondamentali, perché il provvedimento è stato
reso esecutivo nonostante la magistratura lo avesse sospeso. L’inchiesta è nata
in seguito a una visita fatta nella Penisola da una delegazione del Comitato
per monitorare i cosiddetti return
flights, organizzati dall’Italia in collaborazione con l’agenzia Frontex.
Tra l’altro il Comitato ha verificato che le migranti hanno ricevuto la
notifica del rimpatrio il giorno stesso della partenza, senza dunque avere la
possibilità di opporsi in sede giurisdizionale.
Bruxelles, 15 dicembre 2016. Lampedusa, arresti
arbitrari: Italia condannata
La Grande Camera della
Corte per i diritti dell’Uomo contesta all’Italia di aver violato, con una
serie di arresti arbitrari, l’articolo 5 della Convenzione europea sui diritti
umani, che disciplina i casi in cui può avvenire la privazione della libertà.
Il principio è che non si può essere privati della libertà personale come esito
di una prassi della polizia e senza una decisione giurisdizionale: senza cioè
la supervisione e la decisione di un giudice. L’inchiesta è nata dalla vicenda
di un gruppo di migranti detenuti nel centro di prima accoglienza di Lampedusa,
sollevata di fronte alla Corte dall’avvocatessa Francesca Cancellaro.
Tratto da: Tempi Moderni
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