sabato 4 febbraio 2017

Profughi: un piano studiato per tenerli lontano, ad ogni costo

di Emilio Drudi

Ora è operativo. Dal pomeriggio del 2 febbraio, con la firma congiunta del premier Gentiloni e del presidente del Governo di Alleanza di Tripoli, Fayez Serraj, è entrato in vigore a tutti gli effetti il piano sull’immigrazione concordato tra Italia e Libia dal ministro Minniti all’inizio di gennaio. Lo hanno chiamato memorandum sui migranti. Gentiloni lo ha presentato come “una svolta nella lotta al traffico degli esseri umani”, sollecitando il sostegno politico e finanziario dell’Unione Europea. In realtà è un piano di respingimento e deportazione, da attuare in più fasi e in modi diversi, a seconda delle condizioni e delle circostanze: l’ultima di tutta  una serie di barriere messe su da Roma e da Bruxelles, negli ultimi dieci anni, per esternalizzare le frontiere della Fortezza Europa, spostandole il più a sud possibile e affidandone la sorveglianza a Stati “terzi” come, appunto, la Libia. Sorveglianza remunerata con milioni di euro, ben inteso: milioni per affidare ad altri il lavoro sporco di bloccare i profughi, non importa come, prima che raggiungano il Mediterraneo e, ancora, di “riprendersi” quelli respinti dall’Europa, con l’obiettivo, poi, di convincerli in qualche modo a ritornare “volontariamente” nel paese d’origine. A prescindere se il “paese d’origine” è sconvolto da guerre, terrorismo, dittature e persecuzioni, miseria e fame endemiche, carestia.
E’ proprio qui il punto: alzare un muro ad ogni costo. Non a caso, nel memorandum, c’è l’impegno, da parte dell’Italia, ad assicurare (articolo 1) il massimo sostegno “alle istituzioni di sicurezza e militari al fine di arginare i flussi di migranti illegali” e fornire “supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina e che sono rappresentati dalla guardia di frontiera e dalla guardia costiera del Ministero della Difesa e dagli organi e dipartimenti competenti presso il Ministero dell’Interno”. Tutto ciò in vista di un’azione a tappeto che riesca a blindare le frontiere libiche, sia in mare, a nord, che di terra, nel Sahara. Più avanti, nell’articolo 2, c’è infatti l’impegno italiano ad assicurare anche “il completamento del sistema di controllo dei confini terrestri del sud della Libia”. Il che, fuori dalle nebbie del linguaggio politico/burocratico, significa che l’Italia fornirà – anzi, ha già cominciato a fornire – addestramento tecnico a poliziotti e militari ma, soprattutto, fondi e mezzi: motovedette e pattugliatori per il controllo delle acque territoriali, autoblindo e fuoristrada per sbarrare il confine meridionale, in pieno deserto. Di più. La Libia già dispone di un sofisticato sistema radar e a infrarossi realizzato da Finmeccanica per controllare tutta la linea di frontiera nel Sahara: è stato consegnato a Tripoli da Roma ai tempi di Gheddafi e non è mai stato installato ma – ha dichiarato Pier Francesco Guarguaglini, ex presidente di Finmeccanica – è pronto per essere montato ed entrare in funzione, basterà fornire il supporto tecnico. Una volta a regime, quel “muro elettronico” segnalerà in tempo reale ogni movimento e ogni tentativo di infiltrazione e la polizia potrà intervenire immediatamente grazie ai “mezzi terrestri” di cui prevede la consegna il nuovo trattato.
A ben vedere, si tratta di più di quanto ci fosse nel piano firmato da Berlusconi e Gheddafi nel 2008/2009, che suscitò un mare di critiche nelle fila del Pd ma che ora Gentiloni e Minniti hanno preso a modello e che peraltro è stato replicato nel 2012 dal governo Letta, anche se il precipitare degli eventi in Libia ne ha poi impedito l’attuazione.
Al punto due del memorandum c’è anche un paragrafo dedicato ai poli d’accoglienza in Libia dove ospitare i migranti. L’Italia si impegna “ad adeguare e finanziare i centri già attivi, nel rispetto delle norme pertinenti” con finanziamenti nazionali ed europei, a fornire medicinali e attrezzature mediche, a soddisfare le esigenze di assistenza sanitaria, a formare il personale e a sostenere “i centri di ricerca libici che operano nel settore, in modo che possano contribuire all’individuazione dei metodi più adeguati per affrontare il fenomeno dell’immigrazione clandestina e la tratta degli esseri umani”. E qui sembra davvero di sognare. Si dice: “…nel rispetto delle norme pertinenti”. Ma quali norme? I “centri già attivi” sono come carceri. “Anche le strutture in migliori condizioni non rispettano gli standard stabiliti dal diritto internazionale sull’asilo… Le persone sono detenute in condizioni inumane. Senza luce o ventilazione, scarso accesso all’acqua potabile e spazi altamente sovraffollati. L’assenza di dignità è sconvolgente”, denuncia Medici Senza Frontiere. Ed è ancora poco. Altri rapporti – presentati da Amnesty, Human Right Watch, Habeshia – parlano di autentici lager, dove la violenza è pratica abituale, dove gli ospiti sono vittime di ogni genere di sopruso, sequestri, ricatti, lavoro schiavo, stupri, non di rado uccisioni. Non c’è grande differenza tra i centri formalmente dipendenti dal ministero dell’interno e le prigioni dei trafficanti o dei miliziani. Un orrore che l’Onu ha confermato nel rapporto presentato poco prima di Natale, sottolineando tra l’altro che ci sono diffuse complicità con i trafficanti da parte di funzionari statali, poliziotti e militari a tutti i livelli, dal semplice agente di custodia ai vertici più alti. E sembra scontato, proprio per queste complicità e per l’estrema debolezza del governo di Fayez Serraj, che sarà pressoché impossibile, se non forse nel lunghissimo periodo, eliminare lager del genere.
E’ a questo inferno, allora, che in concreto il memorandum consegna i migranti bloccati in Libia, intercettati in mare dalla guardia costiera di Tripoli, fermati dalla polizia di frontiera o riconsegnati dall’Italia alle autorità libiche. Un inferno dal quale non si potrà uscire se non accettando il “rimpatrio volontario” in un altro inferno, quello del paese d’origine da cui i migranti sono fuggiti pur sapendo di dover affrontare un viaggio dolorosissimo e dai rischi enormi, come testimonia il dramma – confermato dall’Onu dopo le prime segnalazioni della Croce Rossa – delle tantissime giovani donne che per mesi, prima di entrare in Libia dal Sudan o dal Niger, assumono dosi massicce di contraccettivi perché, essendo ormai gli stupri una violenza sistematica, mettono nel conto che ne resteranno quasi certamente vittime e sperano allora di evitare almeno una gravidanza. E che quello di “accettare il rimpatrio” sarà l’unico modo per uscire da questi lager lo conferma il fatto che, nel lungo memorandum di Roma, mentre ci si sofferma nei dettagli sulle dotazioni per blindare le frontiere, non c’è una sola parola sulla possibilità di organizzare almeno una via di immigrazione legale, ad esempio un canale umanitario per i richiedenti asilo e le persone più deboli e a rischio: ragazze sole, minorenni, bambini, malati, feriti. Niente: o  indietro o il lager.
Quello della via legale di immigrazione, del resto, non è l’unico problema trascurato nello stilare il trattato. Ci sono almeno due altre grosse “dimenticanze”. La prima è il fatto che la Libia non ha mai riconosciuto e firmato la convenzione di Ginevra sui diritti dei rifugiati. Ne consegue che manca totalmente un sistema di asilo: non c’è alcuna possibilità, per i profughi, di presentare e richiedere l’esame di una domanda di tutela secondo le procedure del diritto internazionale. Era così ai tempi dell’intesa con Gheddafi, era così quando Letta ha rinnovato l’accordo nel 2012, così è ancora oggi. Nel memorandum non si fa minimamente cenno a tutto questo: si finge invece che la Libia sia un paese sicuro, al quale si consegna la sorte, la vita stessa di migliaia di persone, contro la loro volontà e senza nemmeno la copertura formale della garanzia ginevrina.
L’altra “dimenticanza” è la situazione politica. Si parla di “patto con la Libia”. In realtà è un patto con un pezzo della Libia. Nel paese ci sono attualmente addirittura tre governi: quello di Serraj a Tripoli; quello di Tobruk, con il quale è schierato il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte del momento; e quello islamico, che è stato destituito quando si è insediato, per volontà dell’Onu, il Governo di Alleanza guidato appunto da Serraj, ma che è tutt’altro che fuori gioco, come dimostrano i due tentativi di colpo di stato attuati negli ultimi mesi da milizie fedeli all’ex leader Khalifa al Ghwell. E’ vero che Serraj è riconosciuto dalla comunità delle nazioni occidentali, ma è altrettanto vero che in Libia è largamente percepito come un Quisling imposto da potenze straniere. Di sicuro non ha il controllo del territorio: non solo dell’intera Tripolitania e del Sud ma neanche della stessa Tripoli dove, a distanza di dieci mesi dalla presa del potere, ancora non è riuscito a risolvere persino il problema della regolare distribuzione dell’acqua e dell’energia elettrica e dove gli scontri a fuoco tra miliziani di diverse fazioni sono frequenti, quasi quotidiani. Non solo. La scelta di puntare su di lui, senza il consenso popolare e senza il voto del Parlamento di Tobruk, ha destato fin dall’inizio pesanti reazioni, specie proprio da parte di Tobruk, a sua volta tutt’altro che isolata a livello internazionale, perché può contare sull’appoggio molto concreto della Russia, dell’Egitto, degli Emirati e dell’Arabia. Mosca, in particolare – proprio mentre il trattato Italia-Libia era in dirittura d’arrivo e Roma stava per riaprire a Tripoli l’ambasciata chiusa nel febbraio 2015 – ha assicurato ad Haftar il più ampio aiuto politico e militare, ospitandolo su una portaerei ancorata nelle acque libiche. Il che potrebbe significare che alla consegna di motovedette e blindati “europei” a Tripoli corrisponderebbe una fornitura analoga se non maggiore, navale e terrestre, da parte di Putin al governo di Tobruk. Innescando di nuovo la spirale del riarmo in una regione estremamente delicata e instabile e vanificando le raccomandazioni del Gruppo di Crisi che, nell’ultimo rapporto consegnato a Bruxelles, ha sottolineato la necessità di arrivare a una mediazione politica, con la partecipazione anche di Haftar, come unica via percorribile per cercare di riunificare la Libia. Come dire che, in queste condizioni, non solo Serraj non appare in grado di garantire un livello minimo di sicurezza e di rispetto dei diritti dei migranti, ma addirittura la situazione rischia di peggiorare.
Non a caso tutte le principali Ong che si occupano di migranti si sono dette “molto preoccupate” per questo accordo Italia-Libia, estendendo la contestazione al piano Ue per il blocco dell’immigrazione nel Mediterraneo che si ispira, ricalca e anzi amplia le scelte e i criteri del trattato Italia-Libia. Amnesty, Human Right Watch, Medici Senza Frontiere, Save the Children, l’Associazione dei Popoli Minacciati, Habeshia, il Comitato Nuovi Desaparecidos: un coro di “no”. “La proposta di ritirare le operazioni navali europee dalle attività di soccorso per incoraggiare la guardia costiera libica a occuparsene, è un piano velato per impedire a migranti e rifugiati di raggiungere l’Europa: è l’ultimo indizio della volontà dei leader europei di voltare le spalle ai rifugiati”, ha denunciato Iverna Mc Gowan, direttore dell’ufficio di Amnesty a Bruxelles. Altrettanto dura Save the Children, che insiste sulle numerose testimonianze, “anche di donne e bambini”, che raccontano “le condizioni disumane vissute nei centri di detenzione, dove i migranti sono vittime di stupri, frustate, percosse e diversi tipi di torture” e chiede di aprire “canali di ingresso sicuri e regolari” in Europa. O ancora, Tommaso Fabbri, capo missione Italia per Medici Senza Frontiere, il quale contesta all’Europa e all’Italia di aver assunto, sulla tragedia dei migranti, una atteggiamento “cinico, ipocrita e disumano” e in particolare, riferendosi al memorandum firmato a Roma, protesta: “Nel testo non compare alcun riferimento all’attivazione di canali legali e sicuri verso l’Europa, che costituirebbero l’unica strategia efficace per spezzare definitivamente la rete dei trafficanti ed evitare ulteriori morti in mare. Sono invece ben chiare le misure per rafforzare le intercettazioni in mare da parte della Guardia Costiera libica ed impedire le partenze dalle coste. Hanno lo stesso effetto dei sigilli posti sulla porta di un edificio in fiamme con la scusa di evitare che le persone si facciano male nel tentativo di fuggire”.
E’ fin troppo chiaro. Le organizzazioni che lavorano sul campo da anni si pongono il problema della vita, del futuro, dei diritti dei migranti. Il Governo italiano e l’Unione Europea ne fanno solo una questione di blocco dell’immigrazione, a qualsiasi costo. Anche con respingimenti di massa mascherati da “lotta ai trafficanti”. Poco importa se in contrasto con il diritto internazionale che impone di accogliere ed esaminare caso per caso, individualmente, le richieste di asilo. Poco importa, anzi, se tutto questo moltiplicherà soprusi, sofferenze, morti. L’importante è che tutto avvenga lontano, magari al di là del Sahara, dove non ci sono testimoni scomodi.



Tratto da: Diritti e Frontiere

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