venerdì 31 marzo 2017

Memorandum con la Libia: un patto di deportazione


di Emilio Drudi

Venti marzo 2017. Un gruppo di trafficanti di uomini dà l’assalto, al largo di Zuwara, a due gommoni carichi di profughi, per impadronirsi dei motori fuoribordo. Armi spianate, prepotenze, minacce: impossibile opporsi. I due battelli sono abbandonati alla deriva, a oltre dieci miglia dalla costa libica. Resteranno in balia del mare, ingovernabili, per più di un giorno. Quando finalmente vengono intercettati da una motovedetta e arrivano i soccorsi, tre donne sono ormai morte e tre giovani risultano dispersi.
Cinque marzo 2017. Un gruppo di profughi rifiuta di imbarcarsi dalla spiaggia di Sabratha: il mare è troppo mosso, appare evidente che il gommone su cui i trafficanti vogliono costringerli a partire non ce la può fare neanche a percorrere poche miglia. Ma i trafficanti non tollerano resistenze: puntano i mitra e fanno fuoco. Uccidono 22 ragazzi, abbandonandone poi i corpi in una boscaglia vicino alla spiaggia, in fondo a un terrapieno.
Due marzo 2017. Dall’ultimo rapporto del comando di polizia di Sabha, nel Fezzan, risulta che nel mese di gennaio 10 migranti sono stati uccisi. I corpi di tre delle vittime, in particolare, mostrano evidenti segni di torture e pestaggi feroci, sistematici: l’ipotesi più accreditata è che siano stati massacrati da una banda di sequestratori perché non potevano o non volevano pagare il riscatto.
Sono tre casi emblematici dell’inferno che vivono ogni giorno i profughi in Libia. E’ anche da questo inferno che scappano. Ma proprio a questo inferno rischia di riconsegnarli il memorandum sul controllo dell’immigrazione firmato il 2 febbraio dall’Italia con il Governo di alleanza nazionale (Gna) guidato da Fayez Serraj. “L’unico riconosciuto dall’Onu”, insistono il premier Paolo Gentiloni e il ministro dell’interno Marco Minniti. Solo che il Governo Serraj non riesce a far nulla per fermare tanto orrore. Non ci riesce perché, in realtà, è impopolare, non ha seguito tra la gente, non dispone di un esercito o di una polizia per affermare la propria autorità ma deve giovarsi di milizie di parte, soprattutto quelle di Misurata, e in definitiva, nonostante la copertura dell’Onu, è ritenuto illegittimo dalla maggioranza della popolazione: il frutto di una imposizione straniera, di tipo coloniale. Lo ha sancito anche l’Alta Corte di Tripoli, che ha definito nullo e privo di effetti l’accordo con Roma proprio perché il Gna, non avendo mai ottenuto il riconoscimento formale del Parlamento eletto di Tobruk, non ha alcun potere politico o legale e, dunque, non può sottoscrivere alcun trattato internazionale.
Agli occhi dell’Italia e dell’Unione Europea, però, questo governo così impopolare è comunque utile per alzare l’ennesima barriera dietro cui confinare i profughi e i migranti. Perché di questo si tratta. Basta scorrere le richieste formulate da Serraj a Roma per poter svolgere il compito di fermare i “viaggi della speranza” dalla Libia verso l’Europa, nuovo “gendarme dell’immigrazione” come ha fatto a suo tempo Gheddafi. E’ un elenco lunghissimo, come ha riferito Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera: 10 navi per la ricerca e il soccorso, 10 motovedette, 4 elicotteri, 24 gommoni, 10 ambulanze, 30 jeep, 15 automobili, 30 telefoni satellitari, mute da sub, binocoli diurni e notturni, bombole per ossigeno. L’equivalente di 800 milioni di euro, quasi un quarto dei 3,6 miliardi promessi dalla Ue, in due tranche, agli Stati Africani con gli accordi di Malta del novembre 2015. Una fornitura enorme, in grado di mettere in piedi una nuova flotta per la guardia costiera e attrezzare la polizia a terra, così da bloccare i barconi dei migranti prima che escano dalle acque territoriali libiche, riportandoli poi in Africa, e da blindare contemporaneamente i confini meridionali, in pieno deserto, impedendo persino di entrare nel paese e dunque di arrivare al Mediterraneo in cerca di un imbarco. Anzi, in aggiunta Minniti ha precisato che per i controlli a terra sono in cantiere accordi anche con sindaci e capi tribù tuareg del sud, nel Fezzan, così le maglie della rete attraverso cui filtrano i rifugiati saranno sempre più strette.
Ma che fine faranno i profughi intercettati? Si parla di campi di accoglienza, con tutte le garanzie di trattamento dignitoso e di tutela dei diritti umani, da aprire in Libia e soprattutto in Niger, il paese che dovrebbe diventare una sorta di grande hub di arrivo, concentrazione e smistamento del flussi migratori nel cuore dell’Africa. Ma garanzie come? Ovvero: chi potrà assicurare, in questi campi, una reale sicurezza, una vita dignitosa, il rispetto della volontà e della libertà dei profughi? In Libia ci sono già 25 centri a lungo definiti ipocritamente “di accoglienza” ma che sono per la maggior parte autentici lager, dove violenze, maltrattamenti, ricatti, estorsioni, lavoro schiavo, stupri, sono la vita quotidiana. Spesso con evidenti complicità con i trafficanti da parte della polizia e di funzionari statali. E’ una realtà dolorosa, evidenziata dai rapporti di Ong come Amnesty, Human Rights Watch, Medici Senza Frontiere e della stessa Commissione dell’Onu. C’è da chiedersi, allora, come sia possibile, in questo contesto, il miracolo di nuovi campi sicuri e dignitosi, dove magari poter presentare all’Unhcr la richiesta di asilo. Nessuno lo spiega: si confida semplicemente che il Governo di Tripoli possa organizzarsi per cambiare le cose. Ma come e in quanto tempo? Mistero. Né è pensabile che a proteggere questi pretesi nuovi campi possano essere militari e forze di polizia arrivati dall’Italia: tutti  in Libia, inclusi personaggi e gruppi alleati di Serraj, hanno dichiarato in più occasioni di considerare l’eventuale presenza di truppe straniere in Libia, a qualsiasi titolo, una invasione coloniale a cui si risponderà con le armi. Non per niente molti libici giudicano una “occupazione da parte dell’Italia” anche la presenza, a Misurata, dell’ospedale da campo e dei militari di scorta, inviati da Roma nel quadro dell’operazione “Ippocrate”, durante la battaglia di Sirte contro l’Isis.
Evidentemente, allora, per l’Italia e per la Ue, quello che conta è in realtà innalzare comunque un muro, il più alto possibile, per bloccare o rimandare i profughi in Africa loro malgrado, a qualsiasi costo, qualunque sia la sorte che li attende e a prescindere dalla loro volontà e dai loro diritti. Senza contare, tra l’altro, che ciascuno di questi accordi-barriera, come quello con Tripoli, rischia di rivelarsi, prima o poi, un’arma di ricatto, nei confronti dell’Europa, nelle mani degli Stati contraenti, spesso gestiti da governi di assai dubbia democrazia. E’ già accaduto con Gheddafi, che minacciava di aprire o chiudere i flussi dei migranti verso l’Italia in base alle circostanze e agli interessi che voleva perseguire. La stessa tecnica, all’inizio di quest’anno, è stata adottata dal Marocco. In polemica con la sentenza della Corte di Giustizia europea che ha dichiarato non applicabile all’ex Sahara Spagnolo, la regione dei saharawi invasa da anni, l’intesa commerciale firmata con Bruxelles, il Governo ha improvvisamente ridotto la vigilanza, prevista dal Processo di Rabat, intorno alle enclave spagnole di Ceuta e Melilla, facilitando, anzi di fatto quasi incoraggiando, l’assalto di centinaia di migranti subsahariani alle barriere che chiudono i confini. Ora è il turno della Turchia: proprio in questi giorni, in risposta ai contrasti sorti con l’Olanda, la Germania e la Danimarca, il presidente Erdogan e il ministro dell’interno Suleyman Soylu hanno ammonito di essere pronti ad annullare o ridimensionare il patto con cui, in cambio di 6 miliardi di euro, nel marzo 2016 si sono impegnati a fermare i flussi dei profughi verso la Grecia, minacciando, come primo atto, di scatenare in Europa un’ondata di almeno 15 mila persone al mese.
Ma tant’è: si punta sulla politica dei muri. Non una parola, infatti, è stata spesa, nel memorandum firmato a Roma il 2 febbraio o nel successivo incontro del 21 marzo, sempre a Roma, sulla possibilità di organizzare vie legali di immigrazione: canali umanitari, ad esempio, o magari una rete di ambasciate aperte dove poter presentare le richieste di asilo direttamente in Africa. Eppure è proprio questa delle “vie legali” l’unica concreta soluzione per combattere i trafficanti e per salvare vite umane, come rilevano tutte le Ong che operano “sul campo” e come dimostrano i canali aperti in collaborazione tra il gruppo di Sant’Egidio, la Cei e la Chiesa Valdese.
Il perché di questa chiusura totale forse è intuibile: organizzare “canali” per l’arrivo dei migranti significa cambiare radicalmente politica. Significa, in una parola, costruire ponti e non muri. Ma evidentemente non si ha intenzione di imboccare questa strada. Induce a crederlo anche il fatto che all’incontro del 21 marzo a Roma con Serraj e vari ministri europei, mancavano la Spagna e la Grecia, gli altri due grandi paesi mediterranei di sbarco. Quelli, cioè, con i quali si potrebbe costruire una strategia comune da sottoporre a Bruxelles. Una strategia, ad esempio, basata su due punti fondamentali: un sistema unico di asilo e accoglienza per l’intera Ue, con quote obbligatorie, applicato da tutti gli Stati dell’Unione; e poi, appunto, vie legali di immigrazione. Proprio come, in Spagna, stanno chiedendo strati sempre più larghi della popolazione e della società civile, specialmente in Catalogna, sotto la guida della Municipalità di Barcellona. Ma con Barcellona il Governo italiano non risulta che abbia “sprecato” neanche una telefonata.
Il punto è che a Roma si vuole insistere sui respingimenti e sulle espulsioni. Come si è fatto dal 2000 in poi. Anzi, anche peggio perché nella fase iniziale gli accordi di “contenimento” almeno venivano sottoposti al controllo e al voto del Parlamento, mentre ora si firmano memorandum tra ministri o addirittura patti di polizia, come quello sottoscritto il 3 agosto 2016 con il Sudan, bypassando Camera e Senato. Il tutto, vale la pena ripeterlo, a prescindere dalla volontà e dalla libertà dei profughi, configurando una possibile violazione dei diritti umani di cui prima o poi l’Italia dovrà rispondere. E’ quanto, in una intervista ad Alberto Sofia, del Fatto Quotidiano, sostiene, senza mezzi termini, il professor Antonio Maria Morone, docente di storia dell’Africa a Pavia, convinto che il nuovo memorandum con Tripoli non sia in realtà molto diverso dall’accordo stipulato fra Berlusconi e Gheddafi, quando i rifugiati finivano poi per essere torturati nelle carceri libiche. “L’Italia – ha spiegato  Morone – non ha interesse a tutelare i diritti dei migranti, ma solo a contenerli e, di fatto, a deportarli in altri paesi o in quello d’origine. Un giorno saremo chiamati a renderne conto”.        


Tratto da: Diritti e Frontiere

mercoledì 22 marzo 2017

Massacrati su un barcone 42 profughi somali in fuga dallo Yemen


di Emilio Drudi

Erano fuggiti mesi, anni fa, dalla Somalia sconvolta dalla guerra civile e dal terrorismo di Al Shabaab, cercando scampo nello Yemen. Sono rimasti finché hanno potuto. Poi la guerra e la carestia li hanno scacciati anche da qui, costringendoli a un’altra fuga per la vita, di nuovo in mare, ma questa volta a ritroso, verso l’Africa. Sono stati massacrati proprio quando pensavano di essere ormai vicini alla salvezza, protetti dalle insegne dell’Unhcr, il Commissariato dell’Onu per i rifugiati. Un elicottero da combattimento ha attaccato il barcone sul quale erano stipati, colpendolo con razzi e mitraglia. Alla fine si sono contati 42 cadaveri. Ottanta superstiti, terrorizzati, sono stati recuperati in acqua, tra i rottami del battello, dopo che l’elicottero aggressore si era allontanato, da alcuni pescatori yemeniti. Molti sono feriti: 24 in modo grave. Tra le vittime, tante donne e tanti bambini.
A dare notizia della strage - avvenuta il 16 marzo, poco dopo il tramonto – è stato Joel Millman, portavoce dell’Organizzazione Internazionale per l’Immigrazione (Oim). Le prime informazioni parlavano di una trentina di vittime. Poi il bilancio di morte è salito ad “almeno 42”, come ha precisato ai cronisti di Al Jazeera Ibrahim Ali Zeyad,, un marinaio che era sulla barca. Teatro della carneficina, le acque del Mar Rosso al largo di Hodeidah, a poche miglia dal Bab al Mandeb, lo stretto che immette nell’Oceano Indiano. Non è chiaro se quel barcone fosse salpato proprio dalla zona di  Hodeidah o più a sud, sulla costa del Golfo di Aden, al di là del Bab al Mandeb. A bordo – ha precisato Mohamed al Alay, un ufficiale della locale Guardia Costiera – erano saliti in più di 120: un viaggio della speranza dallo Yemen al Sudan, dove quei profughi sarebbero stati presumibilmente accolti in un campo gestito dall’Onu. Molti, quasi tutti, ha confermato infatti William Sprindler, uno dei portavoce dell’Unhcr che operano in Medio Oriente, erano già stati registrati come rifugiati proprio dopo essere fuggiti dal conflitto somalo.
L’attacco – ha ricostruito Al Jazeera – è avvenuto quando la costa yemenita era ancora ben in vista. L’elicottero aggressore ufficialmente non è stato identificato. Più fonti dicono, però, che era un Apache, un velivolo in grado di operare sia di giorno che di notte, fabbricato in America dalla Boeing. C’è da credere, dunque, che appartenga alla flotta aerea della coalizione a guida saudita schierata contro gli Houti e sostenuta dagli Stati Uniti. Tanto più che Riyad e i suoi alleati, come fa notare il quotidiano spagnolo El Diario, “hanno il controllo totale dello spazio aereo yemenita, impedendo ai ribelli l’uso di aerei ed elicotteri”. Sta di fatto che l’Apache ha puntato subito la barca e l’ha colpita a freddo, ritenendo magari che venisse da Hodeidah, il grosso porto commerciale controllato dalle milizie sciite degli Houti, che nel 2014 hanno conquistato Sana’a, la capitale, e gran parte del paese, scacciando il presidente Abd Rabbu Mansour Hadi e costringendolo a riparare ad Aden, nell’estremo sud, sotto la protezione dell’Arabia e del Qatar. Per la gente a bordo non c’è stato scampo.
Il perché di questa aggressione assurda resta un mistero. Il Bab al Mandeb è una via di comunicazione marittima tra le più importanti del mondo, strategica in particolare per il petrolio. Le acque che lo circondano sono da sempre pattugliatissime, per decine di miglia. Tanto più adesso, con la guerra in Yemen, grazie anche alle basi militari concesse dall’Eritrea, presso Assab e Massawa, sulla sponda africana del Mar Rosso, all’alleanza capeggiata dall’Arabia, la quale le utilizza, oltre che per attaccare i ribelli houti, per operazioni aeree o navali di controllo e vigilanza. Ogni movimento sospetto viene segnalato ed eventualmente colpito. Ma c’è da chiedersi come sia stato possibile scambiare una barca piena di rifugiati per un obiettivo militare.
Lo denuncia senza mezzi termini anche l’Unhcr: “Siamo sgomenti per questo attacco contro civili innocenti – ha dichiarato William Spindler ad Al Jazeera – Si tratta di persone che hanno sofferto moltissimo e rischiato la vita per fuggire dalla Somalia. Persone che avevano cercato sicurezza in Yemen, trovandovi invece una situazione diventata via via sempre più pericolosa, a causa del conflitto in corso e della crisi umanitaria esplosa in seguito alla carestia. Ecco, stavano tentando ancora di arrivare finalmente da qualche altra parte in cerca di salvezza e invece hanno incontrato questa tragica fine….”.
Un terribile errore? Forse. Ma sarebbe l’ennesimo. L’ultimo di una catena lunghissima di attacchi che, dal 2014 a oggi, si sono scatenati ripetutamente contro obiettivi civili, indifesi e tutelati dalle convenzioni internazionali e spesso dalle bandiere della Croce Rossa: scuole, campi profughi, mercati, acquedotti, moschee, ospedali sia yemeniti che, in almeno tre occasioni, gestiti da Medici Senza Frontiere. O, ancora, gruppi di persone riunite per cerimonie religiose, matrimoni o addirittura funerali e persino bus civili, depositi di cibo, contadini e campi coltivati, tanto da aver desertificato le campagne, impedendo le coltivazioni e moltiplicando dunque gli effetti della siccità, la fame e la carestia. E’ eloquente, in proposito, la relazione di 51 pagine inviata nel gennaio 2016 da una equipe di esperti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dalla quale sembrerebbe emergere una sorta di “strategia del terrore”.
L’alleanza messa in piedi da Riyad ha sempre negato, in queste circostanze, che si sia trattato di azioni mirate. Ogni volta ha parlato di “errore” o, come si legge sempre più spesso nei rapporti dei comandi militari, di “danni collaterali”. E nessuno l’ha mai chiamata a renderne davvero conto. Neanche di fronte ai dossier con i quali, per due anni di seguito (agosto 2015 e febbraio 2016), Human Rights Watch ha segnalato l’uso frequente di “cluster munitions” (le micidiali bombe a grappolo messe al bando nel 2008) contro obiettivi non militari. E neanche quando ci sono state denunce esplicite, come nel caso degli ospedali di Medici Senza frontiere, presi di mira nonostante le ampie, chiarissime comunicazioni preventive e mantenuti sotto attacco, talvolta sino alla distruzione completa, senza tener minimamente conto delle segnalazioni lanciate dai responsabili della Ong fin dall’inizio dei raid aerei.
Proprio partendo da episodi di questo genere, l’Alto Commissario per i diritti umani ha sollecitato nel 2016 la nomina di una commissione internazionale indipendente d’inchiesta sulle violazioni del diritto umanitario in Yemen, ma lo stesso Consiglio dell’Onu per i diritti umani ha respinto la proposta. Gli Stati dell’Unione Europea, che in gran parte hanno inizialmente sostenuto la richiesta, al momento decisivo – hanno rilevato la Rete Disarmo e Amnesty – si sono tirati indietro, senza neanche specificare i motivi di questo ripensamento. Non solo. Pochi mesi prima, nel giugno 2016, le Nazioni Unite, per bocca del segretario generale Ban Ki Moon, avevano dovuto ammettere di aver tolto la coalizione a guida saudita in Yemen dalla “lista nera” dei responsabili di azioni di guerra che hanno coinvolto bambini, in seguito alle forti pressioni dell’Arabia la quale, definendo “crudelmente esagerato” quel censimento, minacciava di tagliare i fondi per i programmi umanitari.

Un silenzio assordante, in particolare, si è registrato da parte degli alleati o comunque degli “amici” occidentali di Riyad. Gli Stati Uniti, innanzi tutto, che garantiscono armi e supporto tecnico-logistico, inclusi servizi di intelligence, alle forze schierate contro gli Houti. Ma anche l’Italia, la quale – come hanno denunciato ancora una volta Amnesty International e la Rete Disarmo – ha inviato alla Royal Saudi Air Force consistenti, ripetute forniture di bombe, poi sganciate a pioggia pure su obiettivi civili. Si tratta delle Mk 83, ordigni da 460 chili prodotti dalla Rmw in Sardegna e il cui impiego in Yemen è stato documentato da Human Rights Watch con inconfutabili prove fotografiche. Quei 42 profughi somali uccisi sul barcone affondato nel Mar Rosso, al largo di Hodeidah, fuggivano anche da queste bombe.

venerdì 3 marzo 2017

La legalità è un insieme di leggi costituite, ma quanta giustizia ci sta dentro? (...)

Dall'Eritrea all'Italia: cosa (non) è cambiato nel sistema di accoglienza di migranti e rifugiati. Il racconto di Padre Mussie Zerai


Padre Mosè 
di Mussie Zerai con Giuseppe Carrisi
Giunti, 2017

"La legalità è un insieme di leggi costituite, ma quanta giustizia ci sta dentro? (...) 
Non tutto ciò che è legale è giusto. Siate procuratori, promotori di giustizia, non custodi di una legalità fatta di muri, filo spinato o di una legalità che criminalizza il diverso, che lo priva della sua dignità di persona".

Lasciamo perdere il titolo del libro, che magari non vi suonerà familiare. E pure il sottotitolo, che non vi dirà nulla di quello che troverete nella storia di Abba Mussie Zerai. Ho scelto di partire dalla fine, dal messaggio/missione che anima tutta la storia: andare oltre le regole che criminalizzano la condotta di chi entra in uno Stato in modo irregolare. Superare pure, aggiungo, un certo modo di pensare che fa del migrante un nemico, venuto a rubare casa-lavoro-donne-serenità. Riscoprire al di sotto di questa sovrastruttura la Persona, in chi fugge e in chi arriva, per riscoprire l'umanità anche in noi stessi.
Quando la sua storia inizia, don Zerai è un sacerdote che non può spegnere il telefono nemmeno di notte: ogni chiamata che perde può costare decine, centinaia di vite umane. Perché don Zerai è diventato il punto di riferimento di una massa infinita di disperati: sono le migliaia di uomini donne e bambini che attraversano il deserto, e poi il lago sterminato del Mediterraneo, per arrivare (nella terra promessa, in Europa) ma soprattutto per fuggire (dall’inferno di miseria e violenza in cui vivono). O chi il viaggio l’ha già fatto, e cerca attraverso Padre Mosè di conoscere la sorte dei suoi cari partiti alla volta dell’Europa. Queste persone sono accomunate dal colore della pelle e dallo stato di incertezza che domina la loro vita. In qualche modo, chiamano tutti lui.


Ma non tanto su questo si sofferma don Zerai. Di storie di viaggi e di morti ne abbiamo lette, sentite, viste fin troppe. Ci fanno ancora effetto? Probabilmente no. Forse vale la pena di scoprire cosa succede all’arrivo in Europa; il mare di marginalizzazione e indifferenza in cui molti rischiano di annegare, rimanendo per sempre condannati alla ghettizzazione, quando non alla clandestinità. È questa la realtà narrata da don Zerai, che ha visto e vissuto la status di migrante e di richiedente asilo in Italia. Un limbo di incertezza, prima; poi, se la domanda è accolta, “un vuoto enorme”, “una totale mancanza di prospettive. Una vita di emarginazione”.

Facciamo un passo indietro: a quando Padre Mosè era semplicemente Mussie, un ragazzetto eritreo legatissimo ai nonni e innamorato della sua città, Asmara. La bella capitale, tanto simile a Roma, con i suoi edifici art deco o di stile fascista, i cinema e i portici in stile liberty. “Quanto sei bella Asmara” scrive Mussie a 40 anni, 25 anni dopo aver salutato per sempre il suo Paese, con i suoi indimenticabili profumi e paesaggi. Don Zerai a Roma è arrivato in aereo, è perfettamente integrato eppure si strugge ancora per la sua terra. I suoi connazionali non sono stati fortunati come lui; hanno sofferto di tutto per arrivare in Italia, ma cosa vi hanno trovato? Qualche squalo disposto a far business sui centri di accoglienza, mentre il governo di Roma mostra “la faccia cattiva per impedire nuovi sbarchi”. La cosa più affascinante è che questa attualissima frase non si riferisce alla Libia né alla Siria, ma ai flussi di albanesi. Agosto 1991.

Se vi suona familiare è perché in 25 anni, dice in sostanza don Zerai, non è cambiato nulla. È stato così anche per la chiusura della rotta libica ai tempi di Gheddafi, quando si è ugualmente cercato di affrontare un problema epocale ergendo dei muri di carta. In quell’occasione, i migranti non si sono fermati, ma hanno trovato un’altra rotta, più rischiosa ancora, più costosa. Non potevano non farlo.

Per risolvere l’attuale crisi migratoria, l'Europa stringe accordi con la Turchia. Da ultimo si annuncia un nuovo, simile accordo con la Libia, per proteggere l’Italia. Il punto è che sono strategie che non funzionano: nuove rotte si apriranno, al prezzo di sacrifici per entrambe le parti in causa. Chi subisce queste chiusure rischia la dignità nelle mani dei trafficanti, quando non la vita; e pure chi le attua rinuncia a qualcosa, abdica alla sua umanità.

C’è un’alternativa? Secondo don Zerai sì, tanto che alla fine del libro stila una sorta di “decalogo” dell’accoglienza (che comprende rimpatri assistiti, relocation e resettlement attuati con sistematicità). Che lo si condivida o meno, è un punto di vista in più, che, se non altro, pone l’accento sull’importanza di condividere le strategie di accoglienza con chi conosce la situazione in prima persona.
http://www.criticaletteraria.org/2017/03/zerai-carrisi-padre-mose-giunti.htmlFrancesca Romana Genoviva