di Emilio Drudi
Venti marzo 2017. Un
gruppo di trafficanti di uomini dà l’assalto, al largo di Zuwara, a due gommoni
carichi di profughi, per impadronirsi dei motori fuoribordo. Armi spianate,
prepotenze, minacce: impossibile opporsi. I due battelli sono abbandonati alla
deriva, a oltre dieci miglia dalla costa libica. Resteranno in balia del mare,
ingovernabili, per più di un giorno. Quando finalmente vengono intercettati da
una motovedetta e arrivano i soccorsi, tre donne sono ormai morte e tre giovani
risultano dispersi.
Cinque marzo 2017.
Un gruppo di profughi rifiuta di imbarcarsi dalla spiaggia di Sabratha: il mare
è troppo mosso, appare evidente che il gommone su cui i trafficanti vogliono
costringerli a partire non ce la può fare neanche a percorrere poche miglia. Ma
i trafficanti non tollerano resistenze: puntano i mitra e fanno fuoco. Uccidono
22 ragazzi, abbandonandone poi i corpi in una boscaglia vicino alla spiaggia,
in fondo a un terrapieno.
Due marzo 2017.
Dall’ultimo rapporto del comando di polizia di Sabha, nel Fezzan, risulta che
nel mese di gennaio 10 migranti sono stati uccisi. I corpi di tre delle
vittime, in particolare, mostrano evidenti segni di torture e pestaggi feroci, sistematici:
l’ipotesi più accreditata è che siano stati massacrati da una banda di
sequestratori perché non potevano o non volevano pagare il riscatto.
Sono tre casi
emblematici dell’inferno che vivono ogni giorno i profughi in Libia. E’ anche
da questo inferno che scappano. Ma proprio a questo inferno rischia di
riconsegnarli il memorandum sul controllo dell’immigrazione firmato il 2
febbraio dall’Italia con il Governo di alleanza nazionale (Gna) guidato da
Fayez Serraj. “L’unico riconosciuto dall’Onu”, insistono il premier Paolo
Gentiloni e il ministro dell’interno Marco Minniti. Solo che il Governo Serraj non
riesce a far nulla per fermare tanto orrore. Non ci riesce perché, in realtà, è
impopolare, non ha seguito tra la gente, non dispone di un esercito o di una
polizia per affermare la propria autorità ma deve giovarsi di milizie di parte,
soprattutto quelle di Misurata, e in definitiva, nonostante la copertura
dell’Onu, è ritenuto illegittimo dalla maggioranza della popolazione: il frutto
di una imposizione straniera, di tipo coloniale. Lo ha sancito anche l’Alta
Corte di Tripoli, che ha definito nullo e privo di effetti l’accordo con Roma
proprio perché il Gna, non avendo mai ottenuto il riconoscimento formale del
Parlamento eletto di Tobruk, non ha alcun potere politico o legale e, dunque,
non può sottoscrivere alcun trattato internazionale.
Agli occhi
dell’Italia e dell’Unione Europea, però, questo governo così impopolare è
comunque utile per alzare l’ennesima barriera dietro cui confinare i profughi e
i migranti. Perché di questo si tratta. Basta scorrere le richieste formulate
da Serraj a Roma per poter svolgere il compito di fermare i “viaggi della
speranza” dalla Libia verso l’Europa, nuovo “gendarme dell’immigrazione” come
ha fatto a suo tempo Gheddafi. E’ un elenco lunghissimo, come ha riferito
Fiorenza Sarzanini sul Corriere della Sera: 10 navi per la ricerca e il
soccorso, 10 motovedette, 4 elicotteri, 24 gommoni, 10 ambulanze, 30 jeep, 15
automobili, 30 telefoni satellitari, mute da sub, binocoli diurni e notturni,
bombole per ossigeno. L’equivalente di 800 milioni di euro, quasi un quarto dei
3,6 miliardi promessi dalla Ue, in due tranche, agli Stati Africani con gli
accordi di Malta del novembre 2015. Una fornitura enorme, in grado di mettere
in piedi una nuova flotta per la guardia costiera e attrezzare la polizia a
terra, così da bloccare i barconi dei migranti prima che escano dalle acque
territoriali libiche, riportandoli poi in Africa, e da blindare
contemporaneamente i confini meridionali, in pieno deserto, impedendo persino
di entrare nel paese e dunque di arrivare al Mediterraneo in cerca di un
imbarco. Anzi, in aggiunta Minniti ha precisato che per i controlli a terra
sono in cantiere accordi anche con sindaci e capi tribù tuareg del sud, nel
Fezzan, così le maglie della rete attraverso cui filtrano i rifugiati saranno
sempre più strette.
Ma che fine faranno
i profughi intercettati? Si parla di campi di accoglienza, con tutte le
garanzie di trattamento dignitoso e di tutela dei diritti umani, da aprire in
Libia e soprattutto in Niger, il paese che dovrebbe diventare una sorta di
grande hub di arrivo, concentrazione e smistamento del flussi migratori nel
cuore dell’Africa. Ma garanzie come? Ovvero: chi potrà assicurare, in questi
campi, una reale sicurezza, una vita dignitosa, il rispetto della volontà e
della libertà dei profughi? In Libia ci sono già 25 centri a lungo definiti
ipocritamente “di accoglienza” ma che sono per la maggior parte autentici
lager, dove violenze, maltrattamenti, ricatti, estorsioni, lavoro schiavo,
stupri, sono la vita quotidiana. Spesso con evidenti complicità con i
trafficanti da parte della polizia e di funzionari statali. E’ una realtà
dolorosa, evidenziata dai rapporti di Ong come Amnesty, Human Rights Watch,
Medici Senza Frontiere e della stessa Commissione dell’Onu. C’è da chiedersi,
allora, come sia possibile, in questo contesto, il miracolo di nuovi campi
sicuri e dignitosi, dove magari poter presentare all’Unhcr la richiesta di
asilo. Nessuno lo spiega: si confida semplicemente che il Governo di Tripoli
possa organizzarsi per cambiare le cose. Ma come e in quanto tempo? Mistero. Né
è pensabile che a proteggere questi pretesi nuovi campi possano essere militari
e forze di polizia arrivati dall’Italia: tutti
in Libia, inclusi personaggi e gruppi alleati di Serraj, hanno
dichiarato in più occasioni di considerare l’eventuale presenza di truppe
straniere in Libia, a qualsiasi titolo, una invasione coloniale a cui si
risponderà con le armi. Non per niente molti libici giudicano una “occupazione
da parte dell’Italia” anche la presenza, a Misurata, dell’ospedale da campo e
dei militari di scorta, inviati da Roma nel quadro dell’operazione “Ippocrate”,
durante la battaglia di Sirte contro l’Isis.
Evidentemente,
allora, per l’Italia e per la Ue, quello che conta è in realtà innalzare
comunque un muro, il più alto possibile, per bloccare o rimandare i profughi in
Africa loro malgrado, a qualsiasi costo, qualunque sia la sorte che li attende
e a prescindere dalla loro volontà e dai loro diritti. Senza contare, tra
l’altro, che ciascuno di questi accordi-barriera, come quello con Tripoli,
rischia di rivelarsi, prima o poi, un’arma di ricatto, nei confronti
dell’Europa, nelle mani degli Stati contraenti, spesso gestiti da governi di assai
dubbia democrazia. E’ già accaduto con Gheddafi, che minacciava di aprire o
chiudere i flussi dei migranti verso l’Italia in base alle circostanze e agli
interessi che voleva perseguire. La stessa tecnica, all’inizio di quest’anno, è
stata adottata dal Marocco. In polemica con la sentenza della Corte di
Giustizia europea che ha dichiarato non applicabile all’ex Sahara Spagnolo, la
regione dei saharawi invasa da anni, l’intesa commerciale firmata con
Bruxelles, il Governo ha improvvisamente ridotto la vigilanza, prevista dal
Processo di Rabat, intorno alle enclave spagnole di Ceuta e Melilla,
facilitando, anzi di fatto quasi incoraggiando, l’assalto di centinaia di
migranti subsahariani alle barriere che chiudono i confini. Ora è il turno
della Turchia: proprio in questi giorni, in risposta ai contrasti sorti con l’Olanda,
la Germania e la Danimarca, il presidente Erdogan e il ministro dell’interno
Suleyman Soylu hanno ammonito di essere pronti ad annullare o ridimensionare il
patto con cui, in cambio di 6 miliardi di euro, nel marzo 2016 si sono
impegnati a fermare i flussi dei profughi verso la Grecia, minacciando, come
primo atto, di scatenare in Europa un’ondata di almeno 15 mila persone al mese.
Ma tant’è: si punta
sulla politica dei muri. Non una parola, infatti, è stata spesa, nel memorandum
firmato a Roma il 2 febbraio o nel successivo incontro del 21 marzo, sempre a
Roma, sulla possibilità di organizzare vie legali di immigrazione: canali
umanitari, ad esempio, o magari una rete di ambasciate aperte dove poter presentare
le richieste di asilo direttamente in Africa. Eppure è proprio questa delle
“vie legali” l’unica concreta soluzione per combattere i trafficanti e per
salvare vite umane, come rilevano tutte le Ong che operano “sul campo” e come
dimostrano i canali aperti in collaborazione tra il gruppo di Sant’Egidio, la
Cei e la Chiesa Valdese.
Il perché di questa
chiusura totale forse è intuibile: organizzare “canali” per l’arrivo dei
migranti significa cambiare radicalmente politica. Significa, in una parola,
costruire ponti e non muri. Ma evidentemente non si ha intenzione di imboccare
questa strada. Induce a crederlo anche il fatto che all’incontro del 21 marzo a
Roma con Serraj e vari ministri europei, mancavano la Spagna e la Grecia, gli
altri due grandi paesi mediterranei di sbarco. Quelli, cioè, con i quali si
potrebbe costruire una strategia comune da sottoporre a Bruxelles. Una
strategia, ad esempio, basata su due punti fondamentali: un sistema unico di asilo
e accoglienza per l’intera Ue, con quote obbligatorie, applicato da tutti gli
Stati dell’Unione; e poi, appunto, vie legali di immigrazione. Proprio come, in
Spagna, stanno chiedendo strati sempre più larghi della popolazione e della
società civile, specialmente in Catalogna, sotto la guida della Municipalità di
Barcellona. Ma con Barcellona il Governo italiano non risulta che abbia
“sprecato” neanche una telefonata.
Il punto è che a
Roma si vuole insistere sui respingimenti e sulle espulsioni. Come si è fatto
dal 2000 in poi. Anzi, anche peggio perché nella fase iniziale gli accordi di
“contenimento” almeno venivano sottoposti al controllo e al voto del Parlamento,
mentre ora si firmano memorandum tra ministri o addirittura patti di polizia,
come quello sottoscritto il 3 agosto 2016 con il Sudan, bypassando Camera e
Senato. Il tutto, vale la pena ripeterlo, a prescindere dalla volontà e dalla
libertà dei profughi, configurando una possibile violazione dei diritti umani
di cui prima o poi l’Italia dovrà rispondere. E’ quanto, in una intervista ad
Alberto Sofia, del Fatto Quotidiano,
sostiene, senza mezzi termini, il professor Antonio Maria Morone, docente di
storia dell’Africa a Pavia, convinto che il nuovo memorandum con Tripoli non sia
in realtà molto diverso dall’accordo stipulato fra Berlusconi e Gheddafi,
quando i rifugiati finivano poi per essere torturati nelle carceri libiche.
“L’Italia – ha spiegato Morone – non ha
interesse a tutelare i diritti dei migranti, ma solo a contenerli e, di fatto,
a deportarli in altri paesi o in quello d’origine. Un giorno saremo chiamati a
renderne conto”.