di Emilio Drudi
Continua a montare
l’escalation di illazioni e accuse di “collusione” con i trafficanti di uomini
rivolte ormai da mesi contro le Ong impegnate nelle operazioni di soccorso alle
barche dei migranti nel Canale di Sicilia. Il primo passo è stato un rapporto
dell’agenzia Frontex, presentato sul finire del 2016, secondo il quale gli
interventi in mare favorirebbero, sia pure involontariamente, gli scafisti.
Poi, rafforzate da una inchiesta della Procura di Catania, si sono via via
aggiunte numerose “voci” della politica: dei partiti di destra (a cominciare
dalla Lega) e poi dei 5 Stelle ma, a quanto ha scritto il 20 aprile La Stampa, anche di esponenti vicini al
Governo o del Governo stesso, tanto da arrivare a una indagine conoscitiva
affidata alla Commissione parlamentare Difesa che, guidata dal senatore Nicola
La Torre, sta convocando tutte le Ong più impegnate nel Mediterraneo. Interrogati
da questa stessa Commissione, sia il generale Stefano Screpanti, capo del terzo
Reparto Operazioni della Finanza, che l’ammiraglio Enrico Credendino,
comandante della missione europea Eunavformed, hanno dichiarato che, a loro
sapere, non risultano collegamenti di alcun tipo fra le Ong e le organizzazioni
che gestiscono il traffico di migranti. Ma neanche questo è bastato: le Ong
restano sotto tiro. Le loro navi – si afferma – sarebbero come minimo un
fattore di attrazione per gli scafisti, tanto da porre la necessità di “fare
chiarezza” su tutti i programmi di salvataggio in mare.
Sono cinque, in sostanza,
gli “elementi di accusa” addotti per puntare il dito contro i soccorsi
organizzati dalle Ong: la partenza in massa dalla Libia nel week end di Pasqua,
che sarebbe il risultato di una “regia ben orchestrata”, anche con l’intento di
screditare il ruolo di Fayez Serraj, il presidente del Governo di Tripoli che
si è impegnato con l’Italia a combattere gli scafisti; la conoscenza preventiva
delle rotte seguite dai battelli carichi di migranti; le fonti di finanziamento
per coprire le ingenti spese di gestione delle navi usate per la ricerca e il
soccorso; il fatto che l’attività delle Ong a poche miglia dalla Libia
favorirebbe comunque i clan di trafficanti. E’ il caso di esaminare una per una
queste contestazioni.
– Partenza in massa. Nei tre giorni del week-end di Pasqua sono arrivati quasi 8.500
richiedenti asilo. Sono tanti, ma non è la prima volta. Al contrario. E’ solo
l’ultimo di una lunga serie di sbarchi in massa dalla Libia. Sono anni, cioè,
che i flussi si muovono a fasi alterne: a periodi in cui si riducono quasi a
zero ne fanno riscontro altri in cui invece sono migliaia in pochi giorni,
spesso addirittura in poche ore, i profughi imbarcati. Tra il 2 e il 4 ottobre
2014, ad esempio, ne sono arrivati 3.100; nel 2015, nella sola giornata del 22
giugno, 2.518 e una settimana dopo, sempre in un solo giorno, il 29 giugno, ne
sono stati recuperati 2.900, con 21 operazioni condotte dalla Guardia Costiera;
circa 3.000 tra il 21 e il 22 agosto, su 6 barconi e 16 gommoni; 4.600 in tre
giorni, dal 4 al 6 dicembre; 2.709 dal 23 al 26 dicembre. Più significativi
ancora gli esempi del 2016: circa 5.000 il 23 giugno; addirittura 13.000 in
quattro giorni, tra il 27 e il 30 agosto ma, in proporzione al periodo di tempo,
ancora di più nelle 48 ore del 4 e 5 ottobre, con 11 mila sbarchi. A
determinare queste fasi alterne sono diversi fattori: le condizioni meteo
favorevoli; l’affollamento in Libia dei centri di detenzione o comunque dei
“ricoveri” gestiti dai trafficanti e la necessità di “fare spazio” ad altri
arrivi dal sud; il timore o anche solo la sensazione che stiano per essere
attuati interventi per contrastare le partenze. E nella settimana di Pasqua si
sono verificate esattamente queste tre condizioni: mare favorevole; ressa di
rifugiati in attesa di partire: secondo l’Oim, non meno di 300 mila; accordi
Italia-Libia per un “giro di vite” sui flussi, ampiamente pubblicizzati da
Roma, anche con l’annuncio, per i controlli in mare, della ormai prossima
“fornitura” dei primi due nuovi pattugliatori alla Guardia Costiera di Tripoli,
poi consegnati effettivamente il 21 aprile. Chiunque si sia minimamente
occupato del “problema profughi” non può non conoscere questi precedenti,
queste “cifre” e questi fattori: non tenerne conto significa non dare o,
peggio, non voler dare un quadro esatto della situazione.
– Manovra per screditare Fayez Serraj. In realtà, agli occhi della maggioranza dei libici,
Serraj e il suo governo sono già screditati e privi di seguito per il modo
stesso con cui si sono insediati al potere. A torto o a ragione, Serraj, in
sostanza, è percepito come un Quisling imposto e al servizio delle cancellerie
occidentali. Il Parlamento di Tobruk non gli ha mai votato la fiducia e lo
considera di fatto un premier illegittimo; per Khalifa Ghwell e l’ex governo
islamico sarebbe un impostore che rischia di favorire il ritorno del
colonialismo in Libia e un’operazione colonialista sarebbe anche il nulla osta
alla presenza dei parà della Folgore inviati a proteggere l’ospedale militare
aperto dall’Italia a Misurata; sia Tobruk che Ghwell lo hanno diffidato a
consentire l’accesso nelle acque territoriali di navi da guerra straniere,
minacciando di reagire con le armi; la Corte di Tripoli ha dichiarato nullo il
memorandum per il controllo dell’immigrazione sottoscritto con l’Italia proprio
perché, non avendo mai ottenuto la fiducia del Parlamento di Tobruk, non gli si
riconosce il potere di firmare trattati internazionali di alcun tipo; sono
stati rigettati dall’Assemblea dei Tebu persino gli accordi del Viminale con le
tribù del Fezzan che dovrebbero completare l’attuazione del memorandum di Roma.
– La conoscenza delle rotte. Le rotte percorse dalla Libia verso l’Italia dai
barconi o dai gommoni dei migranti sono ben note da sempre. A tutti. Il perché
è semplice. Le partenze avvengono su un arco di costa di circa cento chilometri
che va da Tajoura, un’oasi litoranea 9 chilometri a est di Tripoli, fino a
Zuwara, un importante porto a poco più di 90 chilometri a ovest, passando per
Zawiyah e Sabratha. Solo eccezionalmente l’arco si allunga fino a Garabouli, 50
chilometri circa a est di Tripoli. E’ chiaro allora che le rotte sono sempre le
stesse. Basta pattugliare questo tratto di litorale e i battelli dei migranti
verranno prima o poi intercettati, come se percorressero un’autostrada. Per
molti versi è in buona parte il sistema seguito per un anno intero, dal
novembre 2013 al novembre 2014, dalle navi dell’operazione Mare Nostrum: le
unità delle Ong non fanno altro che replicarlo, attestandosi a una ventina di
miglia dalla costa libica.
– Spese e finanziamenti. Tutte le Ong hanno dichiarato “trasparenti” i propri
bilanci e si sono dette pronte a metterli a disposizione per eventuali
controlli, sottolineando come non ci sia nulla di illegale e come la stragrande
maggioranza delle spese sostenute venga coperta da donazioni. La sola Sos
Mediterranee, ad esempio, ha specificato che ben 13.800 donatori “ripongono la
loro fiducia” nella sua attività, finanziandone le spese fino al 99 per cento.
In una riunione congiunta tenuta a Bruxelles il 31 marzo, anzi, le Ong presenti
(Sea Watch, Poem Aid, Proactiva Open Arms, Sos Mediterranee, Helenie Rescue
Team, Jugend Rettet, Humanitarian Pilots Iniztiative, Sm Humanitario, United
Rescue Aid), non solo hanno ribadito la correttezza della propria azione ma si
sono dette pronte “a un dialogo aperto con tutte le istituzioni europee”,
chiedendo di porre fine “a ogni accusa di comportamenti illegali da parte delle
Ong, a meno che non siano sostanziate dalla presentazione di prove”. Per certi
versi, una vera e propria sfida.
– Favoreggiamento per i trafficanti. Le Ong sono estremamente decise su questo punto: non
solo – affermano – non c’è alcun tipo di collegamento ma neanche alcuna forma
di favoreggiamento, magari indiretto. La presenza delle navi di soccorso nel
Mediterraneo – spiegano – mira a salvare vite umane in una situazione estrema
creata dal rifiuto dell’Unione Europea e delle singole cancellerie occidentali
di istituire canali legali di immigrazione. I profughi fuggono da guerre,
terrorismo, carestia, mancanza assoluta di prospettive per il futuro e
continueranno a fuggire nonostante i muri e gli ostacoli che si stanno
costruendo, perché si lasciano alle spalle condizioni terribili, ritenute
peggiori dei rischi che sanno di dover affrontare. Sono proprio questi muri,
semmai, a favorire e ad alimentare l’attività criminale dei trafficanti, non
dando alcuna via di scampo “regolare” ai richiedenti asilo. Il punto, allora,
per le Ong, è proprio questo: abbattere quei muri è l’unico modo per combattere
il traffico di uomini e salvare la vita a migliaia di persone “La ragione per
cui esiste un sistema economico di traffico di migranti – ha detto ad esempio
Jens Pagotto, di Medici Senza Frontiere, all’indomani del rapporto di Frontex –
è legata anche al fatto che la Ue non offre nessuna alternativa legale e sicura
ai rifugiati e ai migranti che cercano protezione in Europa. Affrontare questo
aspetto sarebbe il miglior modo per evitare altre inutili morti in mare e per
sradicare le reti dei trafficanti”.
Come dire: le Ong si sono
mobilitate per far fronte alla realtà drammatica causata in buona parte dalla
politica europea di “chiusura” sull’immigrazione. Ed è proprio questa
“chiusura”, di fatto, l’elemento che più favorisce i clan criminali dei
trafficanti. Ma quali saranno le conseguenze se, sotto la spinta del clima da
caccia alle streghe che si è ormai creato, le Ong decideranno di ritirarsi? Le più
immediate sono almeno due. La prima, la più grave ed evidente, è che
aumenteranno le sofferenze e le vittime, esattamente come è avvenuto dopo la
“chiusura” di Mare Nostrum, decisa nonostante gli avvertimenti giunti
dall’Unhcr e da tutte le principali associazioni umanitarie che il “conto di
morte” si sarebbe moltiplicato. La seconda è che, allontanando le Ong, si
toglieranno di mezzo testimoni scomodi di quanto si sta verificando in mare e,
di riflesso, anche in Libia e in Africa: testimoni che specie negli ultimi mesi
hanno documentato gravissimi episodi di violenza di cui si è resa protagonista
la Guardia Costiera libica. Quella Guardia Costiera alla quale l’Italia e
l’Europa vogliono affidare il compito di “gendarme del Mediterraneo”.
Tutto questo è più che noto
a Roma come a Bruxelles. C’è da chiedersi, allora, a chi giovi.
Tratto da: Diritti e Frontiere