di Emilio Drudi
Li hanno trovati in
mezzo al Sahara, morti di sete e di stenti. Sono le ultime 52 vittime del
deserto lungo le vie di fuga che dal Niger conducono i migranti verso la Libia
e l’Algeria. A dare l’allarme sono stati 24 compagni che si erano avventurati a
cercare aiuto ed hanno avuto la fortuna di incontrare una pattuglia di militari
nigerini. Il gruppo era partito da Agadez almeno tre giorni prima. In tutto, 76
giovani, uomini e qualche donna, provenienti da Gambia, Costa d’Avorio, Nigeria
e Senegal, ammassati su tre pick-up: una delle tante carovane di disperati
organizzate dai trafficanti che hanno base in Niger, dove si è ormai creata una
situazione simile a quella della Libia e del Sudan. Puntavano verso la
frontiera libica, distante circa 800 chilometri, almeno 3 o 4 giorni di
viaggio, per raggiungere poi Sabha, nel Fezzan, principale snodo delle piste
che arrivano dal Niger e dal Ciad, attraverso il Sahara, e si diramano poi
verso Tripoli e la costa mediterranea. Lungo il tragitto, i trafficanti li
hanno abbandonati nel deserto, senz’acqua e senza cibo. Le armi spianate hanno
soffocato qualsiasi possibilità di resistenza. Inutili le proteste e le suppliche.
Ventiquattro di
loro, i più forti e risoluti, hanno deciso di incamminarsi lungo la pista,
sperando di arrivare a un villaggio qualsiasi. Erano allo stremo quando,
domenica 25 giugno, li ha intercettati per caso una pattuglia dei militari
nigerini che presidiano il deserto. Sulla base delle loro indicazioni i soldati
hanno cercato gli altri. Li hanno trovati qualche ora dopo, ma era già troppo
tardi. Le salme, recuperate con l’aiuto della popolazione locale, sono state
sepolte ad Agadez. Fatoum Boudu, prefetto della regione di Bilma, nel nord del
Niger, ha detto che ora la polizia sta dando la caccia ai trafficanti, ma c’è
da dubitare, nel caos di Agadez, che ne venga fuori qualcosa. Sembra certo,
comunque, che la via del deserto è sempre più battuta e sempre più pericolosa,
quasi totalmente in mano ai “mercanti di uomini”. Da tempo Ong e inchieste
giornalistiche documentano che anche il Sahara, come il Mediterraneo, è
diventato un enorme cimitero. Nell’ultimo mese e mezzo, tuttavia, si è
profilata una escalation impressionante, con decine di vittime e altre decine
di profughi salvati in extremis.
Alla metà di maggio,
oltre 50 migranti sono stati trovati quasi morti di sete lungo una pista in
mezzo al nulla, disidratati da temperature che in questa stagione sfiorano i 50
gradi. Hanno raccontato, come i superstiti di domenica 25 giugno, che a un
certo punto i trafficanti a cui si erano affidati li hanno abbandonati in pieno
Sahara, pare a fronte delle difficoltà che si profilavano per passare il confine.
Circa due settimane dopo, il 31 maggio, sono morti 44 migranti, rimasti
bloccati qualche centinaio di chilometri a nord di Agadez e un centinaio circa
prima della frontiera libica, a causa di un guasto del camion su cui erano
stati caricati, quasi uno sull’altro. Dai trafficanti che avevano pagato per il
trasporto non hanno ricevuto alcun genere di aiuto. Si sono salvati solo i sei,
tra cui una donna, che hanno lasciato il gruppo per andare a cercare soccorsi e
sono stati avvistati per caso da una pattuglia della polizia nigerina nei
pressi del villaggio di Achegou.
Il 16 giugno, nove
giorni prima dell’ultima tragedia, sono stati salvati in extremis, da due
autopattuglie di soldati in servizio d’ispezione nel deserto, oltre 100
migranti provenienti in gran parte dall’Africa Occidentale. Assetati e ormai
allo stremo, i medici a cui sono stati affidati in ospedale ad Agadez hanno
dichiarato che sarebbero bastate ancora poche ore per un’altra strage. Anche
loro hanno raccontato di essere stati abbandonati dai trafficanti a cui si
erano affidati, non si sa se in base a un piano precostituito o per le
difficoltà incontrate nell’attraversare il deserto o previste alla frontiera
con la Libia.
Di episodi analoghi
sono rimasti vittime gruppi di richiedenti asilo intrappolati nella terra di
nessuno tra il confine blindato del Marocco dal quale sono stati respinti e
quello dell’Algeria, dove le guardie di frontiera hanno impedito loro di
rientrare. L’ultimo caso, all’inizio dello scorso maggio, riguarda circa 40
siriani, famiglie con donne e bambini, abbandonati da tutti e sopravvissuti
solo grazie all’aiuto offerto da gruppi di volontari marocchini e algerini. Lo
stesso è capitato, in febbraio, a una trentina di migranti subsahariani,
inclusi alcuni malati.
C’è da credere che
tutto questo non avvenga per caso. Potrebbe essere un effetto della chiusura
sempre più rigida dei confini meridionali, in pieno Sahara, della Libia e degli
altri Stati del Maghreb e del Mashrek, per impedire che i migranti possano
anche solo avvicinarsi alla sponda del Mediterraneo in cerca di un imbarco. Del
resto le dichiarazioni di certi politici europei ed italiani sono esplicite.
“Bisogna impedire che i migranti possano imbarcarsi”, ha detto di recente Donald
Tusk, presidente del Consiglio Europeo, ribadendo la linea dura che ha sempre
perseguito. E sulla stessa linea si colloca la svolta, ancora più dura che in
passato, impressa alla politica italiana di respingimento dal ministro degli
interni Marco Minniti.
Potrebbero essere
“figlie” proprio di questo ulteriore giro di vite due nuove iniziative della
politica italiana. La prima riguarda proprio il rafforzamento della vigilanza
sui confini sahariani della Libia. Il primo giugno scorso – ha riferito la
stampa di Tripoli – il comitato misto italo-libico per la lotta
all’immigrazione illegale e al contrabbando ha deciso di formare una nuova
commissione per controllare le regioni del sud del paese e contrastare i flussi
migratori dal Niger, dal Ciad e dal Sudan. Il nuovo organismo “sarà formato da personale
della guardia di frontiera libica e del ministero della difesa italiano”,
scrive il Libya Observer, che pone il nuovo accordo sullo stesso livello delle
intese raggiunte tra il Viminale, la Direzione generale per la sicurezza delle
coste libiche e la Direzione per l’immigrazione di Tripoli. Nei servizi
giornalistici non è specificato se al ministero della difesa italiano verrà
riservato “soltanto” il compito di coordinamento degli interventi o se soldati
italiani parteciperanno direttamente alle operazioni sul terreno, magari con la
solita, ipocrita formula dei “consiglieri militari aggregati”. Certo è che si
tratta di erigere un vero e proprio muro in pieno deserto.
L’altra iniziativa è
di questi giorni. Se ne è fatto promotore a Bruxelles lo stesso presidente del
Consiglio Paolo Gentiloni, che ha prospettato la chiusura dei porti italiani e,
dunque, il divieto di approdo e di sbarco, per le navi delle Ong straniere
impegnate nelle operazioni di salvataggio nel Canale di Sicilia, al largo della
Libia. Di fatto, un altro muro in mezzo al mare, perché verrebbe impedita o
fortemente limitata l’attività degli equipaggi di volontari di tutta Europa che
stanno cercando di arginare la strage dei migranti, sopperendo alle carenze, ai
ritardi e all’indifferenza dell’Unione Europea e dei singoli Stati Ue. Roma
inclusa, che “grida all’invasione” sulla base degli ultimi sbarchi, ma è almeno
in parte smentita dai dati dello stesso Viminale. Proprio mercoledì 28 giugno,
quando le agenzie di stampa stavano battendo la minaccia di Gentiloni, infatti,
Repubblica online ha pubblicato il numero totale di arrivi comunicato dal
ministero degli interni dal primo gennaio: circa 77 mila, più alcune centinaia
in procinto di sbarcare. Insomma, meno di 80 mila a fine giugno. Rispetto al
2016 c’è un aumento del 13 per cento: come dire, in termini assoluti, quasi
10.400 in più. Non tanti da autorizzare a parlare di “situazione ingestibile”
come si sta facendo. E, oltre tutto, se si tiene conto che lo scorso anno sono
arrivati in poco meno di 181.500, oggi, a fine giugno, metà anno, si è ancora ben
lontani dalla metà di quella cifra. Ovvero, la situazione non si discosta
troppo da quella del 2016. A meno che non si vogliano ignorare le cifre reali,
alimentare una sorta di isteria e creare una clima di ultimatum/ricatto nei
confronti di Bruxelles. Se è questo l’intento di Roma, difficilmente si
arriverà a un risultato concreto. Il punto vero è che Roma per prima non ha mai
fatto nulla per varare un sistema unico di accoglienza europeo, con quote
obbligatorie e vie legali di immigrazione, condiviso e applicato da tutti gli
Stati membri della Ue, che è l’unico modo per dare risposte efficaci al
problema. Peggio, questa minaccia di chiudere i porti alle navi di soccorso non
battenti bandiera italiana è una misura non solo in contrasto con il diritto
internazionale, ma odiosa in sé, perché ignora il “naufragio continuo” che si
verifica di fronte alle nostre coste. “Una vergogna e un atto di barbarie che
non può essere accettato da nessuno, indipendentemente dalle singole posizioni
politiche ed ideologiche, perché, con un atto di cinismo enorme, si
condannerebbero a morte migliaia di persone sospese tra le persecuzioni subite
nei paesi d’origine, quelle patite in Libia e il diritto alla salvezza”, si
legge in una petizione lanciata da Ong e associazioni umanitarie che ha
raccolto in breve migliaia di adesioni. Fermo restando che Bruxelles “deve
assumersi le sue responsabilità e prendere decisioni coraggiose, in linea con i
principi morali che sono alla base dell’idea stessa del sogno europeo”.
E’, questo ennesimo
muro dei porti chiusi, quanto meno un errore clamoroso. O, molto peggio – come
rileva da Bruxelles l’europarlamentare Barbara Spinelli – il tentativo di
“usare migliaia di esiliati forzati come moneta di scambio nei negoziati con
l’Unione, nel completo disprezzo delle prescrizioni della legge del mare e
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo”. Un’offesa
bruciante e meschina, l’ennesima, oltre tutto, alle Ong che operano da anni nel
Mediterraneo, fianco a fianco con le navi della Marina e della Guardia Costiera
italiane: tutti insieme per salvare vite, senza distinzioni di bandiere.