di Emilio Drudi
Nei primi sette mesi di
quest’anno sono arrivati in Italia meno migranti di quanti ne siano sbarcati
nello stesso periodo del 2016. Al 2 agosto, secondo i dati del Viminale, ne
risultano 95.215 contro i 97.892 di un anno fa, con una flessione del 2,7 per cento.
Il Governo lo ha comunicato con toni da “vittoria”, sottolineando in sostanza
che comincia a funzionare la barriera eretta nel Mediterraneo, delegando alla
Guardia Costiera libica il compito di bloccare in mare i barconi e riportare i
profughi in Africa. Non a caso, pochi giorni dopo, è stata riportata con enfasi
da numerosi giornali la notizia che nell’arco di sole 24 ore i guardacoste di
Tripoli hanno intercettato e ricondotto in Libia, prima che varcassero la linea
delle acque territoriali, oltre 800 migranti. Ottocento disperati, poi
arrestati appena hanno messo piede a terra e trasferiti nei centri di
detenzione.
E’ davvero una vittoria?
Certamente sì, se il punto è fermare i richiedenti asilo ad ogni costo, contro
la loro volontà, calpestandone la libertà e stracciando la Convenzione di
Ginevra del 1951 sui diritti dei rifugiati, che l’Italia e tutti gli Stati
europei hanno firmato come principio guida fondamentale della nostra
democrazia. Tutt’altro che una vittoria è, invece, se si riflette sul destino
al quale questi respingimenti di massa, effettuati in contrasto con il diritto
internazionale e la legge del mare, stanno consegnando migliaia di esseri umani,
costretti al rientro forzato nel caos della Libia, la quale, oltre tutto, la
Convenzione di Ginevra non ha mai voluto firmarla e non si sente dunque
minimamente vincolata a rispettarla. Sono eloquenti le denunce e i numerosi
rapporti presentati, negli ultimi anni, sia da istituzioni internazionali che
da organizzazioni umanitarie. Basterà citare i più recenti.
30 luglio 2017.
Human Rights Solidarity sollecita le autorità libiche “ad assumersi le proprie
responsabilità” per la tutela dei migranti ridotti in schiavitù, sottoposti a
lavoro forzato e, specialmente le giovani donne, consegnati al “mercato del
sesso”. “Sono crimini a cui bisogna porre fine”, afferma l’organizzazione,
aggiungendo che soprusi avvengono anche nei centri di detenzione: cibo scarso,
mancanza totale di assistenza medica, maltrattamenti.
1 luglio 2017.
La Guardia Costiera libica – alla quale l’Italia, per sostenerne il ruolo di
gendarme del Mediterraneo, ha fornito navi, logistica, strumenti tecnici, addestramento
e finanziamenti – è indagata dalla Corte Penale Internazionale “per gravi
crimini contro i diritti umani”, inclusi “crimini contro l’umanità”. E’ una
branca dell’inchiesta aperta due mesi prima sui soprusi e la sorte subita dai
migranti in Libia annunciata dalla procuratrice Fatou Bensouda al Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite. Trovano così conferma i reportage di numerosi
giornali che da almeno un paio d’anni denunciano le violenze e i legami diretti
di almeno parte della Guardia Costiera di Tripoli con i clan di trafficanti di
uomini. Su quest’ultimo aspetto, i collegamenti dei guardacoste con il mercato
di esseri umani, sta indagando dalla fine di luglio anche la Procura di
Trapani.
21 maggio 2017.
Il capo dell’Agenzia dell’Onu per i Rifugiati, Filippo Grandi, chiede al
Governo libico di liberare tutti i richiedenti asilo e i rifugiati rinchiusi
nei centri di detenzione, mettendone sotto accusa la gestione e il trattamento
riservato agli ospiti. La sollecitazione all’esecutivo guidato da Fayez Serraj
arriva dopo una ispezione condotta dallo stesso Grandi in uno dei campi. “Sono
rimasto scioccato – ha dichiarato dopo la visita – dalle dure condizioni in cui
sono costretti migranti e rifugiati. Bambini, donne e uomini che hanno già
patito tantissimo non possono essere sottoposti ad ulteriori pesanti privazioni
e sofferenze”.
14 maggio 2017.
L’Organizzazione Mondiale per l’Immigrazione (Oim) denuncia che a Sabha, la
capitale del Fezzan, snodo cruciale delle piste che arrivano dal Sahara e si diramano verso Tripoli e
la costa mediterranea, è organizzato alla luce del sole, direttamente in
piazza, un autentico mercato degli schiavi: uomini e donne catturati dai
trafficanti vengono ceduti all’asta al miglior offerente. Una denuncia analoga
era stata fatta, sempre dall’Oim, esattamente un mese prima, il 14 aprile, ma
nessuno è intervenuto. Anzi, il Consiglio Municipale di Sabha ha cercato di
negare o comunque di sminuire. A supporto delle sue accuse l’Oim presenta una
serie di testimonianze-choc, rese da vittime del traffico, giovani profughi
provenienti da Niger, Gambia, Senegal e Ghana, catturati e “messi sul mercato”
dai “passatori” ai quali si erano affidati per attraversare il Sahara e il
confine con la Libia, partendo da Agadez. Conferma il dossier dell’Oim anche la
scoperta del “ghetto di Alì”, una fortezza nel deserto, nel circondario di
Sabha, cinta da alte mura e da siepi di filo spinato, sorvegliata da miliziani
armati di mitragliatori. All’interno, in due gironi infernali distinti, sono
rinchiusi uomini, donne e bambini. Almeno un migliaio di prigionieri – scrive
Alessandra Ziniti su Repubblica –
sottoposti a violenze di ogni genere, spesso torturati in diretta telefonica
con le famiglie per indurle a pagare il riscatto. Anzi, perché siano ancora più
convincenti, talvolta questi orrori vengono filmati, come ha rilevato anche
l’Oim, per essere diffusi su you-tube. Non risulta che le autorità libiche e la
polizia abbiano mai mosso un dito contro questo lager privato dei trafficanti.
9 maggio 2017.
La Corte Penale Internazionale apre un’inchiesta sui crimini commessi in Libia
contro i migranti. Nel mirino il traffico di uomini ma anche i centri di
detenzione. “Stiamo indagando perché si presume che in questi centri, dove sono
detenute migliaia di persone, tra cui donne e bambini, siano commessi, come
pratica comune, gravi crimini, tra cui uccisioni e atti di tortura”, ha
dichiarato la procuratrice Fatou Bensouda, aggiungendo: “Sono costernata per le
informazioni credibili secondo cui la Libia è diventata un mercato per il traffico
di esseri umani, mentre la situazione della sicurezza si è deteriorata in modo
significativo rispetto all’anno scorso”.
Fine gennaio 2017. Alla vigilia del memorandum firmato a Roma dal premier Gentiloni e
dal presidente Fayez Serraj, che delega a Tripoli il ruolo di “gendarme” per il
controllo dell’immigrazione nel Mediterraneo, con il mandato di bloccare e
riportare in Africa i profughi, l’ambasciatore tedesco in Nigeria, dopo una
visita in Libia, sconsiglia vivamente di concentrare nel Paese i migranti a
causa delle condizioni di assoluta precarietà e insicurezza a cui sono
abbandonati e per la mancanza di strutture adeguate ad accoglierli, anche solo
temporaneamente, con un minimo di dignità e rispetto. Un quadro analogo viene
descritto dal Governo nigeriano per mettere sull’avviso i tanti che dalla
Nigeria scelgono la via libica per tentare di arrivare in Europa.
13 dicembre 2016. Un rapporto dell’Onu rileva che i migranti presenti in Libia sono
sottoposti a soprusi, torture, stupri, riduzione in schiavitù ed altre forme di
violenza. Abituale e sistematica la violazione dei diritti più elementari della
persona. “Siamo di fronte a una crisi umanitaria – si legge nel dossier – Il
crollo del sistema di giustizia consente una totale impunità ai gruppi armati,
ai clan criminali, ai trafficanti che controllano il flusso dei migranti
attraverso il paese”. Il tutto con la complicità di funzionari governativi e
dell’apparato dello Stato: “La missione delle Nazioni Unite – sottolinea la
relazione finale – ha ricevuto informazioni credibili secondo cui esponenti
delle istituzioni statali e funzionari locali collaborano con le organizzazioni
del traffico di uomini”.
13 dicembre 2016. Un capitolo specifico del rapporto presentato dalle Nazioni Unite il
13 dicembre riguarda le donne. Ne emerge che sono loro, specie le più giovani,
le vittime più esposte alla tragedia del traffico di esseri umani, ribadendo la
denuncia di numerosi dossier pubblicati nei mesi precedenti da diverse Ong. In
particolare, a conferma di una indagine avviata in Italia su iniziativa di
alcuni medici della Croce Rossa, risulta che tantissime, la maggioranza, a
partire da almeno tre mesi prima di entrare in Libia, assumono dosi massicce di
anticoncezionali, con conseguenze spesso irreversibili per la loro salute. Il
motivo è evidente: temono di essere violentate e dunque cercano almeno di
evitare una gravidanza non desiderata. Un timore fondato, come testimoniano
molte ragazze giunte in Europa, che raccontano di stupri sistematici: nei
centri di detenzione governativi, nei lager dei trafficanti o lungo il viaggio
stesso ad opera dei “passatori”. Una ragazza eritrea, ad esempio, ha riferito
come ogni sera, per oltre un mese, sia stata puntualmente prelevata dallo
stanzone in cui era rinchiusa con le compagne e violentata da uno dei militari
in servizio nel centro di detenzione, fino al mattino. Non a caso, sulla scorta
di racconti come questo, l’Ordine di Malta ha proposto di istituire una “rete
di sostegno” mirata per le donne migranti in tutta Europa, con un’attenzione
particolare per quelle che hanno subito violenza.
16 settembre 2016. Un’inchiesta giornalistica di Lorenzo Cremonesi, pubblicata dal
settimanale Sette, denuncia l’inferno
delle carceri di Misurata, Tripoli, Garabouli, Al Khums e Zawiyah, dove sono
rinchiusi numerosi migranti. La violenza da parte delle guardie è pratica
quotidiana. “I detenuti – si legge in un passo – vengono picchiati con i calci
dei fucili dai secondini, che spesso li sbattono in isolamento in buchi
oscuri”. Ma anche la “normalità” è orrenda: sovraffollamento, materassi luridi
gettati sul pavimento come giacigli, cibo scarso e pessimo, interrogatori
violenti e condotti a furia di percosse. E colpisce l’ammissione del presidente
del Consiglio di Stato: “Non si può negarlo: spesso coloro che controllano i
migranti collaborano con gli scafisti: è un business enorme”.
Fine agosto 2016. All’ospedale San Carlo di Milano, i medici scoprono che a un profugo
sudanese di 35/40 anni, ricoverato per un malore, manca il rene sinistro. Sulla
schiena ha cicatrici corrispondenti a una nefrectomia: l’organo gli è stato
asportato di recente con un intervento chirurgico. Interrogato, l’uomo racconta
confusamente che quando era in Libia, in attesa di un imbarco, era stato
narcotizzato, risvegliandosi poi in quelle condizioni. L’ospedale ha subito
avvertito la polizia, ma il profugo ha fatto perdere le proprie tracce prima di
un interrogatorio formale. Il suo racconto fa presumere che abbia messo radici
anche in Libia il mercato di organi per i trapianti clandestini denunciato nel
dicembre del 2009 nel Sinai e successivamente nel Sudan. Una conferma arriva
alcune settimane dopo dal procuratore aggiunto di Palermo, Maurizio Scalia, che
sta conducendo un’inchiesta sul traffico di esseri umani e che, riferendo la
confessione di un pentito considerato affidabile, ha dichiarato: “Alcuni
migranti che non sono in grado di pagarsi il conto del viaggio dal Nord Africa
all’Europa subirebbero espianti di organi poi destinati al mercato nero, dove
vengono pagati circa 15 mila dollari. La base di questi traffici sarebbe in
Egitto”. In Egitto come era emerso per gli espianti forzati segnalati nel
Sinai, quasi a indicare che potrebbe trattarsi della stessa rete di
organizzazioni criminali.
1 luglio 2016.
Un rapporto di Amnesty, basato su decine di terribili testimonianze, fa
emergere per l’ennesima volta la drammatica serie di violenze subite dai
migranti in Libia: minacce, maltrattamenti, uccisioni e persecuzioni religiose,
abusi sessuali e di ogni altro genere. Ne risultano responsabili in particolare
i trafficanti di esseri umani, ma anche gruppi di miliziani armati e la stessa
polizia. Tutti sembrano in grado di agire pressoché indisturbati,
nell’indifferenza o comunque nell’impotenza delle istituzioni. “I migranti e i rifugiati
– si afferma – sono presi dai trafficanti appena entrati in Libia e vengono
venduti alle bande criminali. Parecchi di loro hanno riferito di pestaggi,
stupri, torture, sfruttamento. Alcuni hanno assistito a uccisioni da parte dei
trasportatori; altri hanno visto compagni di viaggio morire a causa delle
malattie o dei trattamenti subiti”. Secondo le relazioni pubblicate in
precedenza da altre Ong o da associazioni umanitarie, come Human Rights Watch,
Habeshia, Inmigrazione, nei centri di detenzione “ufficiali” non va granché
meglio. Da qui la conclusione di Amnesty: “L’Unione Europea dovrebbe occuparsi
meno di tenere migranti e rifugiati fuori dalle sue frontiere e concentrarsi
maggiormente sulla messa a disposizione di percorsi legali e sicuri per coloro
che sono intrappolati in Libia. La priorità deve essere quella di salvare vite
umane”.
Agosto 2014 – marzo 2015. In quasi tutti i centri di detenzione i miliziani
hanno campo libero. In molti casi hanno fatto irruzione e requisito decine di
prigionieri, obbligandoli a portare armi e munizioni fin sulla linea del fuoco
durante gli scontri tra le diverse fazioni che si contendono il potere. E’
accaduto in particolare nelle battaglie di Bengasi nella primavera del 2015, in
quelle per la conquista e il controllo dell’aeroporto di Tripoli nell’agosto
del 2014 e, ancora prima, nei conflitti tribali a Kufra. Ne hanno riferito il
rapporto di un cooperante del Cesvi, una organizzazione umanitaria italiana, e
le denunce dell’agenzia Habeshia. Di parecchi dei giovani sequestrati si sono
perse le tracce. Alcuni di quelli che, magari feriti, sono riusciti a fare ritorno
nei campi di accoglienza, hanno raccontato che diversi compagni erano morti,
presi in mezzo al fuoco incrociato dei combattenti dei due fronti. Nessuna
reazione da parte del Governo libico.
Ecco, oggi la Libia è per i
migranti l’inferno descritto in questi rapporti. Ed è a questo infermo che i
muri innalzati nel Mediterraneo dall’Italia, d’intesa con Tripoli, condannano i
richiedenti asilo intercettati in mare e costretti a tornare indietro. Roma non
può non saperlo. C’è da chiedersi, allora, se davvero sia il caso di “vantare” l’efficacia
del nuovo blocco, come fa il Viminale. A meno che quello che conta non sia
semplicemente “fare muro”. Ad ogni costo. Ma “fare muro”, oltre a violare le
norme internazionali che vietano i respingimenti indiscriminati di massa,
significa rendersi complici degli orrori raccontati dall’Onu, dall’Unchr,
dall’Oim, da tutte le principali Ong, da giornalisti, diplomatici, associazioni
umanitarie, volontari. Con pesanti responsabilità morali, politiche e,
probabilmente, anche giuridiche.
Tratto da: Tempi Moderni
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