martedì 31 ottobre 2017

Blindato anche il Sahara: migliaia di profughi espulsi o respinti in pieno deserto


 

di Emilio Drudi



Dopo il Mediterraneo, sono sempre più blindati anche il Sahara e le altre “vie di terra”. Negli ultimi mesi migliaia di profughi sono stati respinti o espulsi, lungo la frontiera del deserto, dall’Algeria e dalla Libia. Soprattutto verso il Niger ma anche in Sudan, nel Ciad e nel Mali. Sempre che riescano ad arrivarci alla frontiera, perché in Sudan, ad esempio, la Forza di Intervento Rapido, la milizia tristemente nota per le stragi nel Darfur, si vanta di svolgere egregiamente il suo nuovo compito di “cacciatore di migranti”: dai suoi rapporti periodici risultano migliaia di arresti nelle città e sulle piste che portano al confine. Un “successo” che il presidente Al Bashir ha subito sfruttato per chiedere all’Europa altri finanziamenti e materiale tecnico-logistico per le sue forze di sicurezza: in sostanza, un programma di “aiuti” simile a quello varato per la Libia, alla quale sono stati destinati blindati, elicotteri, jeep e fuoristrada, visori notturni e persino un sistema radar di controllo in grado di coprire tutti i 5 mila chilometri della linea di frontiera meridionale.

Sono gli effetti del Processo di Khartoum, l’accordo che, firmato a Roma nel novembre 2014, sta entrando pienamente a regime grazie alla serie di patti bilaterali, tra governi o addirittura di polizia, stipulati negli ultimi tre anni, fino al memorandum tra l’Italia e la Libia sottoscritto a Roma il 2 febbraio scorso e ai relativi “derivati”, incluse le intese con alcune tribù del deserto e – secondo quanto ha denunciato l’agenzia France Presse – persino con dei trafficanti di uomini riciclati in gendarmi anti immigrazione a suon di milioni di euro.

Se ne parla poco, ma il giro di vite più evidente si registra in Algeria, dove dalla primavera scorsa, in seguito alle difficoltà crescenti della fuga attraverso la Libia, l’arrivo di migranti e richiedenti asilo si è moltiplicato. Un rapporto di Amnesty pubblicato il 23 ottobre parla di arresti arbitrari e respingimenti di massa. Solo nell’ultimo mese, oltre 2 mila donne e uomini sono stati fermati ed espulsi, tra l’altro con sistemi e in condizioni  terribili. “La maggior parte dei duemila intercettati dal 22 settembre in poi – scrive il quotidiano francese Le Monde, citando il dossier di Amnesty – sono stati arrestati ad Algeri e nel suo circondario, oppure a Blida, una città situata 50 chilometri a sud-ovest della capitale. Da qui la polizia li ha trasferiti in pullman a Tamanrasset, una località migliaia di chilometri più a sud, per abbandonarli poi in territorio nigerino appena al di là del confine”. Ad almeno un centinaio è andata anche peggio: sono stati “scaricati” in territorio algerino e costretti ad una lunga marcia nel deserto per raggiungere una località abitata del Niger dove potersi fermare e trovare un rifugio provvisorio: almeno sei ore di cammino nel nulla del Sahara, con temperature infernali, senza cibo e con pochissima acqua.

“Questi arresti ed espulsioni – denuncia Amnesty – sono assolutamente illegali: non rispettano le garanzie previste dalle procedure regolari e violano non solo le norme internazionali ma la stessa legge algerina”. Le forze di sicurezza, infatti, non si preoccupano di esaminare la posizione e la storia dei singoli migranti e nemmeno di controllare se si tratti di persone entrate legalmente in Algeria: ci si basa, in sostanza, solo su “criteri etnici”, bloccando tutti gli stranieri. Tra i respinti, infatti figurano migranti arrivati dall’intera Africa sub sahariana e occidentale: Niger, Guinea, Burkina Faso, Benin, Mali, Costa d’Avorio, Senegal, Nigeria, Liberia, Camerun, Sierra Leone. Inclusi 300 ragazzini minorenni, in gran parte non accompagnati, che avrebbero diritto a forme di assistenza mirate. E, probabilmente, si è solo all’inizio. Secondo Amnesty in Algeria vivono attualmente oltre 100 mila migranti irregolari subsahariani e tutto lascia credere che nei loro confronti sia iniziata una vera e propria caccia all’uomo.

La conferma di questo orizzonte buio arriva dal Niger, il paese verso il quale viene maggiormente indirizzata questa enorme diaspora di ritorno forzata, a prescindere dalla nazionalità delle donne e degli uomini espulsi o respinti. Secondo fonti vicine al governo di Niamey, tra settembre e ottobre, soltanto nella regione di Agadez, la zona a più diretto contatto con l’Algeria, sono stati deportati circa 2.800 nigerini e oltre 5 mila migranti provenienti da Stati subsahariani o del West Africa. “Gran parte di loro – denunciano le autorità nigerine, confermando il rapporto di Amnesty – sono stati costretti ad attraversare zone desertiche, spesso a piedi, per poter raggiungere i più vicini villaggi nel nostro paese dove salvarsi e mettersi al sicuro”.

Si profila così una situazione di evidente contrasto. Algeri espelle quasi tutti verso il Niger, a prescindere dalle nazionalità, lasciando intendere che comunque è stato il Niger la porta d’ingresso da cui sono passati. Niamey tende invece a rifiutarsi di accogliere i profughi non nigerini respinti. “Con tutti questi profughi che continuano ad arrivare dall’Algeria, si sta creando una grave emergenza umanitaria – ha dichiarato il 22 ottobre Sadou Soloké, governatore della regione di Agadez, al quotidiano Niger Diaspora – Abbiamo già protestato con il governo algerino per i criteri e le condizioni di espulsione di questi migranti, ma soprattutto contestiamo che stanno inviando in Niger persone di ogni nazionalità. Inclusi, ad esempio, i maliani, nonostante l’Algeria confini direttamente con il Mali per migliaia di chilometri. I dati sono eloquenti: tra i 955 deportati nell’ultima settimana non c’era alcun nigerino, ma c’erano più di 300 maliani. Chiediamo allora che ciascuno sia espulso verso il proprio paese…”.

Ecco, appunto, “espulsi verso il proprio paese”. In questo braccio di ferro sono i migranti a rischiare di restare stritolati. Non ci si chiede, infatti, se abbiano o meno diritto all’asilo o comunque ad essere accolti e se rimandarli indietro non significhi esporli a rischi anche mortali: si dà per scontato che l’unica cosa importante è che il respingimento vada in una direzione che “non dia fastidio”. A prescindere dalla sorte degli interessati.

Non solo. Alle deportazioni si è aggiunta una vigilanza più rigida alla frontiera da parte dell’Algeria, mentre il Niger ha organizzato una rete di controlli capillari condotti dall’esercito su tutte le strade e le piste che da Agadez, diventata il grande hub di concentrazione e smistamento dei flussi, conducono attraverso il Sahara al confine algerino o a quello libico, distanti più di 800 chilometri. Le pattuglie, oltre che gli itinerari più sicuri e frequentati, battono i villaggi e le oasi: i punti, cioè, dove si può trovare acqua e cibo e dove tradizionalmente si fermano, dunque, le colonne di pick-up e camion carichi di migranti per brevi soste di riposo e rifornimento. I trafficanti così, sempre più spesso, scelgono vie secondarie, dove ritengono che la sorveglianza sia più blanda, ma che sono molto più lunghe, difficili e pericolose. E se si profila il rischio anche minimo di essere intercettati, i “passatori” non esitano a fuggire, abbandonando nel deserto i profughi che stavano traghettando, come risulta dai racconti terribili di alcuni sopravvissuti a giorni infiniti di sete e di sofferenze. Non a caso l’Oim segnala che si sono moltiplicati gli interventi di soccorso in pieno Sahara mentre, contemporaneamente, aumenta il numero delle vittime. “Secondo Richard Danziger, responsabile Oim per l’Africa centro-occidentale – ha denunciato Barbara Spinelli al Parlamento Europeo – i morti nel deserto sono ormai il doppio dei morti in mare: circa 30 mila tra il 2014 e oggi”. L’ultima strage conosciuta è quella del 5 settembre: 16 migranti trovati ormai senza vita da una pattuglia di militari oltre 350 chilometri a sud di Tobruk. C’erano solo i corpi calcinati dal sole e dal vento del Sahara: nessuna traccia dei trafficanti.

Ecco, Tobruk. In Libia si sta profilando la stessa situazione del Niger e dell’Algeria. Le cifre e i rapporti sono meno precisi, perché non provengono da dossier ufficiali come quelli del governo di Niamey o dell’amministrazione di Agadez, ma dai capi di tribù del Fezzan con i quali l’Italia ha stretto accordi di controllo e respingimento. I dati sono però ugualmente significativi. Barka Shedemi, uno dei leader della grande tribù dei Tebu, in particolare, sostiene di aver sigillato totalmente la sua parte di confine e le piste provenienti dal Ciad e dal Niger, nella zona di Qatrun, bloccando centinaia, forze migliaia di migranti che intendevano raggiungere la costa. Del resto si sta lavorando per mettere a sistema tutto il controllo militare della frontiera libica nel Sahara: è stata costituita una forza di coordinamento e intervento di cui è previsto che faccia parte, insieme ai soldati e alla polizia libica, anche un nucleo di istruttori e “consiglieri” italiani. Una organizzazione analoga è programmata per il Niger. Non, almeno per il momento, in Sudan, dove le milizie di intervento rapido, i “diavoli a cavallo”, equipaggiati a quanto pare anche con fondi italiani o europei, stanno del resto dimostrando ampiamente di aver chiuso quasi ogni via di fuga.

Il giro di vite riguarda in Africa pure la Tunisia. I primi effetti si sono visti in mare: basti ricordare il peschereccio carico di migranti mandato a picco pochi giorni fa da una nave militare che, nel tentativo di tagliargli la rotta per bloccarlo, lo ha speronato, facendolo rovesciare. Oltre 50 le vittime. La stessa strategia viene adottata a terra, lungo i confini con la Libia e l’Algeria. Quasi sempre senza tener conto della situazione personale e della provenienza dei profughi: il 24 di ottobre, ad esempio, sono stati arrestati sei ragazzi siriani appena entrati in Tunisia dall’Algeria, con l’intenzione di raggiungere la costa per cercare un imbarco nella zona di Sfax. Sei giovani che, in fuga dall’orrore della Siria, avrebbero tutto il diritto di essere accolti come rifugiati ma sono finiti invece in fondo a un carcere.

Vanta infine il successo del blocco organizzato, sia a terra che in mare, per conto dell’Europa, in cambio di 6 miliardi, anche la Turchia, rilevando come il flusso dall’Anatolia alle isole greche sia praticamente crollato rispetto all’anno scorso. Poco importa se a pagare questo “crollo” sono i migranti, in termini di vite perdute, sofferenze, carcerazione, sfruttamento, tramonto di ogni speranza per il futuro. L’ultimo rapporto delle forze di sicurezza di Ankara riferisce di 15.470 profughi bloccati e arrestati nei primi nove mesi del 2017. Con un crescendo impressionante: 756 in gennaio, 719 in febbraio, 1.501 in marzo, 1.551 in aprile, oltre 4.500 tra maggio, giugno e luglio, 2.668 in agosto fino al record di oltre 3.400 in settembre. Ottobre sta ricalcando l’andamento di settembre, sicché in dieci mesi si arriverà ad oltre 18 mila arresti: uomini, donne, intere famiglie in fuga da Siria, Iraq, Afghanistan… Più di 18 mila, forse 19 mila, solo in mare. Perché ci sono poi quelli intercettati e fermati a terra: nei porti d’imbarco e sulla costa oppure lungo le strade che dalla frontiera iraniana o siriana portano al Mediterraneo: sui pullman di linea, chiusi nei camion o nei furgoni dei trafficanti, a piedi, nei sobborghi delle città dell’interno scelte per una sosta più o meno prolungata, abbandonati dai trafficanti in mezzo alla campagna… Migliaia di altri disperati, tanto che non appare azzardato ipotizzare, da gennaio a oggi, almeno 25 mila arresti. Arrestati per aver cercato la libertà e una vita migliore. Colpevoli di aver tentato una fuga per la vita.



Tratto da: Tempi Moderni   

mercoledì 11 ottobre 2017

La Corte di Assise di Milano riconosce le torture nei campi di detenzione in Libia

Comunicato stampa 

ASGI: sentenza storica che deve imporre un cambio rotta ai Governi italiani

La sentenza del Tribunale di Milano ha visto finalmente la "verità giudiziaria" allinearsi alla "verità storica" dei fatti, con il riconoscimento delle torture e dei trattamenti inumani avvenuti in campi di detenzione in territorio libico.
ASGI: “E' ora più che necessaria una svolta nelle politiche migratorie dell'Italia”.
L'ASGI esprime soddisfazione per l'esito del processo celebrato presso la Corte d’assise di Milano in cui costituita parte civile con il patrocinio dell’Avv. Piergiorgio Weiss.
Per la prima volta nelle aule di un Tribunale italiano una sentenza ha chiaramente affermato quanto efferate siano le condizioni a cui sono sottoposti decine di esseri umani in Libia, giudicando attendibili e comprovate le testimonianze dei richiedenti asilo che hanno potuto dare un quadro di inaudita violenza delle torture subite (violenze sessuali ripetute, omicidi di coloro che non ricevono dai familiari il denaro richiesto dai trafficanti, torture, addirittura esposizione dei corpi dei soggetti morti dopo le torture per ottenere effetto deterrente) attraverso la loro presenza .
Da rilevare che il processo su fatti accaduti in Libia si è tenuto in Italia per specifica richiesta del Ministero della Giustizia, data la gravità dei fatti in giudizio e viste le condizioni di insicurezza e il livello di violenze riscontrato in Libia. Tali condizioni sono da tempo confermate dalle Nazioni Unite e da innumerevoli rapporti autorevoli e indipendenti che sottolineano la mancanza delle condizioni minime di accesso ai diritti fondamentali necessari e non possono essere sconosciuti al nostro esecutivo né al Ministro dell’Interno.
Alla luce di questa condanna appaiono, pertanto, ancor più gravi le conseguenze delle scelte politiche attuate dall'Italia e dall'Unione europea e volte al respingimento dei migranti in Libia attraverso accordi con le autorità locali.
Il rinvio in un luogo in cui la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita risulta minacciata, come conferma la sentenza della Corte di Assise di Milano, non può essere tollerato.La scelta dell’Italia e della Ue di esternalizzare la gestione delle migrazioni ed il diritto d’asilo le rende corresponsabili delle condizioni inumane e delle torture che avvengono in Libia.
Anche il Commissario per i Diritti Umani del Consiglio D'EuropaNils Muiznieks ha chiesto chiarimenti indirizzando lo scorso 28 settembre una lettera al ministro degli Interni Marco Minniti in merito alla collaborazione dell'Italia con la Guardia Costiera libica, ricordando al Ministro che l'azione dell'Italia in acque di competenza libica ne configura comunque la responsabilità internazionale per violazione degli obblighi derivanti dalla CEDU.
L'ASGI fa appello al Governo ed al Parlamento italiano affinché prendano atto della necessità di una svolta nelle politiche migratorie attuate negli ultimi anni, facilitando così l'ingresso per lavoro e quello per richiedere protezione, attuando il soccorso in mare dei migranti e dismettendo gli accordi di riammissione in specie con Paesi e soggetti che non garantiscono il pieno rispetto della vita e della dignità della persona, conformemente alla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo ed alla Convenzione di Ginevra sul riconoscimento dello status di rifugiato.

Ufficio Stampa
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“Rimpatri forzati con politiche illegali”: Amnesty denuncia i governi europei


di Emilio Drudi
“Da quando sono ritornato non ho una casa dove abitare. Ho vissuto per qualche tempo sotto i ponti, dentro vecchie auto o un garage… Poi sono andato in un’altra provincia a cercare la mia famiglia, ma non sono ancora riuscito a trovarla. Passo notti e giorni interi senza avere nulla da mangiare. E’ dura questa vita. E poi questa provincia è davvero piena di rischi. Ogni giorno ci sono combattimenti, esplosioni, uccisioni. Ovunque. A Kabul era lo stesso. Lì sotto il ponte dove mi ero rifugiato era pieno di tossicomani: ogni momento potevo essere ucciso da uno di loro… Qualche volta ho cercato riparo e chiesto del cibo in una moschea, ma quasi sempre i mullah mi hanno trattato con sospetto, temendo che fossi un ribelle o  un informatore della polizia. O che volessi addirittura compiere un’azione terroristica, visto che ci sono stati diversi, pesanti attacchi all’interno delle moschee…”.
E’ il racconto di Hamid, 18 anni appena compiuti, uno delle migliaia di profughi afghani espulsi dall’Europa e rimpatriati contro la loro volontà. Fino a qualche mese fa lui era in Norvegia. Gli operatori di Amnesty International lo hanno incontrato nel maggio scorso in una delle province periferiche dell’Afghanistan. La sua è una delle tante testimonianze del dossier che Amnesty ha presentato il 5 ottobre per mettere sotto accusa le politiche dell’Unione e dei singoli governi europei sull’emigrazione e sul diritto d’asilo. Nel mirino è in particolare l’accordo capestro che Bruxelles ha imposto nell’ottobre del 2016, costringendo Kabul ad accettare il rientro di 80 mila profughi per sbloccare 3,7 miliardi di euro di “finanziamenti per la ricostruzione”, un contributo che l’Unione Europea si era impegnata da tempo ad elargire, ma che è stato trasformato di fatto in un’arma di ricatto. La Commissione Ue, per parte sua, ha sempre negato che ci fosse una connessione tra i rimpatri e tutti quei miliardi. Federica Mogherini, responsabile della politica estera, lo ha ribadito con forza, quasi sdegnata, anche poche ore prima della firma in calce al Joint Way Forward, l’intesa per quelle che appaiono vere e proprie deportazioni. A smentire la Ue e la Mogherini sono stati però, già subito dopo l’incontro finale a Bruxelles, alcuni membri della delegazione afghana, i quali hanno lasciato capire di essere stati costretti ad accettare la “disponibilità” a far rientrare a decine di migliaia i profughi  fuggiti  in tanti anni di guerra e terrore.
La conferma delle pressioni esercitate su Kabul dall’Unione è poi venuta dal ministro delle finanze afghano Ekil Hakimi, il quale – come riferisce il rapporto di Amnesty – ha dichiarato in Parlamento: “Se l’Afghanistan non collabora con gli Stati membri dell’Unione Europea nella crisi dei rifugiati, ci sarà un impatto negativo sull’ammontare degli aiuti destinati al nostro paese”. “Questo strumento di pressione – aggiunge Amnesty nel suo dossier – è stato poi ribadito da una nostra fonte confidenziale afghana, che ha definito ‘un calice di veleno’ quello che il governo di Kabul è stato costretto a bere in cambio degli aiuti”.
Un “calice di veleno” che provoca morti e sofferenza. A Bruxelles si sono giustificati asserendo che l’Afghanistan è ormai in gran parte “sicuro”. Su cosa si basi questa affermazione non è dato sapere. Nell’arco del 2016, in quasi tutte le regioni sono aumentati gli attacchi, sia contro obiettivi militari che contro civili inermi. Li hanno condotti gruppi armati ricollegabili ai talebani e a formazioni vicine ad Al Qaeda oppure, sempre più spesso, a milizie fedeli all’Isis, che controllano una vasta porzione di territorio, organizzata come un governatorato sottomesso al Califfato di Al Baghdadi. Non a caso, verso la fine dello scorso settembre, gli Stati Uniti e la Nato hanno dichiarato che il contingente militare occidentale “deve restare” per poter fronteggiare l’offensiva dei ribelli, mentre il presidente Trump, quasi a dare concretezza a questa affermazione, ha deciso di inviare altri 3 mila soldati, sollecitando rinforzi anche da parte delle nazioni Nato.
C’è di più. Poche settimane dopo la firma del Joint Way Forward, quasi a smentire le dichiarazioni di Bruxelles, il rapporto annuale dell’Onu ha definito il 2016 “l’anno peggiore” in Afghanistan dal 2001, quando è iniziata la guerra. Sono i dati obiettivi a testimoniarlo, con una escalation terribile, anno dopo anno. Nel quinquennio tra il 2012 e il 2016, in particolare, ci sono state, tra i civili, 7.590 vittime (2.769 morti e 4.821 feriti) nel 2012; poi 8.638 nel 2013 (di cui 2.969 morti e 5.669 feriti); 10.535 nel 2014 (con 3.710 morti e 6.825 feriti); nel 2015 si è saliti a 11.034 (di cui 3.565 morti e 7.469 feriti); fino ad arrivare al record di 11.418 vittime nel 2016,  con 3.498 morti e 7.920 feriti. Nel 2017 la tendenza è la stessa: l’ultimo rilevamento, relativo ai primi sei mesi, registra 1.662 morti e 3.581 feriti, per un totale di 5.243 vittime, quasi trenta ogni 24 ore. Attacchi clamorosi ci sono stati anche in queste settimane. Il 28 settembre un commando di talebani ha assaltato il quartier generale della polizia di Kandahar, uccidendo almeno 12 agenti e ferendone numerosi altri. Tre giorni prima è caduto in un’imboscata, nel cuore stesso di Kabul, un convoglio militare: tre morti. Non vengono risparmiati neanche i luoghi di culto: a fine agosto, l’Isis, sempre a Kabul,  ha preso di mira la moschea sciita Imam Zaman, colma di persone per la preghiera del venerdì: sono stati uccisi due agenti dei servizi di sicurezza e si contano decine di fedeli colpiti da raffiche di mitra o investiti dall’esplosione della bomba di un kamikaze.
Ecco, secondo Bruxelles questo sarebbe un “paese sicuro”, dove far rientrare i profughi che ne sono fuggiti. E così i rimpatri si sono moltiplicati. “Tra il 2015 e il 2016 – rileva il rapporto di Amnesty – sono quasi triplicati: da 3.290 si è saliti a 9.460”. Dal dicembre 2016 ad oggi l’impennata non ha subito soste. Di più: a questo forte aumento delle deportazioni corrisponde “un marcato calo delle domande d’asilo accolte: dal 68 per cento del settembre 2015 si è scesi al 33 per cento del dicembre 2016”, meno della metà. E questo nuovo, insormontabile muro costruito dalla Ue causa morte e sofferenza non solo in Afghanistan ma nella stessa Fortezza Europa.
All’inizio di febbraio di quest’anno, tre ragazzini afghani non ancora diciottenni sono stati trovati morti, in Svezia, a pochi giorni di distanza, nei centri di accoglienza dove erano ospitati. Tutti e tre suicidi. Nello stesso periodo, ma in istituti diversi, altri quattro, sempre minorenni, hanno tentato a loro volta di uccidersi: sono stati salvati appena in tempo. “Temevano di essere espulsi: questa grande paura ha tolto loro ogni speranza”, ha spiegato, in una dichiarazione alla stampa, Mahboda Badadi, un operatore sociale che si occupa di rifugiati minorenni non accompagnati. Poche settimane prima, verso la fine di dicembre 2016, infatti, sulla scia del Joint Way Forward, un portavoce dell’Ufficio Svedese per l’Immigrazione aveva dichiarato che diverse regioni dell’Afghanistan erano ormai da considerarsi “less dangerous”, vale a dire “pressoché sicure”, sicché i richiedenti asilo di quelle zone sarebbero stati rimpatriati. Aveva anche specificato che il provvedimento non avrebbe riguardato i minorenni senza una famiglia che in Afghanistan potesse prendersene cura. Ma quell’annuncio in sé deve essere stato percepito come un ennesimo rifiuto: “Tutti i ragazzi afghani erano fortemente preoccupati che la loro richiesta di asilo fosse respinta. D’altra parte si tratta di giovanissimi molto provati, bisognosi di essere compresi e guidati”, ha detto alla France Presse Sara Edwardson Ehrnborg, una insegnante che collabora con gruppi umanitari no-profit, confermando nella sostanza il giudizio di Mahboda Badadi.
Quei sette ragazzini, evidentemente, non hanno retto all’idea che avrebbero potuto essere costretti a tornare nel paese dal quale erano scappati a rischio della vita stessa, pur di lasciarsi alle spalle un mondo di terrore e avere la possibilità di costruirsi una prospettiva di futuro. Così hanno deciso di farla finita. E per tre di loro non si è arrivati in tempo a salvarli. Né questa catena di disperazione si è interrotta. L’ultimo caso si è verificato in Italia, a Milano: un giovane afghano si è impiccato nella notte tra il 23 e il 24 agosto in un locale appartato del centro accoglienza di via Corelli. Era arrivato due o tre giorni prima, proveniente dalla frontiera del Brennero, dove la polizia lo aveva bloccato mentre tentava di entrare in Austria. “Era molto depresso, tanto che gli era stato subito fissato un colloquio con uno specialista: doveva andarci proprio la mattina che lo abbiamo trovato senza vita”, hanno detto gli operatori del centro. E’ credibile che quel respingimento al Brennero abbia soffocato anche le sue ultime speranze: che si sia sentito intrappolato tra i muri della Fortezza Europa e la prospettiva di essere costretto a tornare in Afghanistan.
Allora, il Joint Way Forward firmato nell’ottobre del 2016 potrà magari “sfoltire” la presenza dei rifugiati afghani in Europa, ma nel conto non si possono non mettere anche le ferite profonde che provoca questa nuova, ennesima barriera. E le vittime che ne restano schiacciate. “Siamo convinti – dicono al Comitato Nuovi Desaparecidos – che ci siano pesanti responsabilità dell’Unione Europea e di tutti gli Stati membri per questo ulteriore calvario al quale sono condannati i profughi afghani. Non è pensabile che a Bruxelles e nelle varie capitali non sappiano che cosa accade al di là ed anzi a causa dei muri che stanno continuando ad alzare. Vale per la Libia, ad esempio, come ha dimostrato, un’altra volta ancora, il recente dossier di Medici per i Diritti Umani e vale anche per l’Afghanistan, come denuncia l’ultimo rapporto di Amnesty e come già emergeva con forza, del resto, dalla relazione 2016 delle Nazioni Unite. Allora, ha ragione Amnesty: l’intera Europa sta perseguendo politiche illegali, che mettono a rischio la vita stessa di tanti uomini e donne che bussano alle sue porte. Perché non solo resta sorda al loro grido d’aiuto, ma li ricaccia nell’inferno da cui stanno fuggendo. Tanti, troppi ne sono già morti. E si profilano complicità precise, se non peggio, per queste vite perdute. E’ tempo di portare tutto ciò di fronte a una corte di giustizia. Anzi, il tempo è già scaduto”.


Tratto da: Tempi Moderni        

domenica 8 ottobre 2017

Un sacrario per le vittime di Lampedusa: “Onorare i morti salvando i vivi”


Sono passati esattamente quattro anni dalla tragedia di Lampedusa: 366 vite di giovani profughi spazzate via quando erano ormai a un passo dalla salvezza. L’agenzia Habeshia, rilanciando una proposta già formulata nel marzo 2016, torna a chiedere che venga realizzato un sacrario per ricordare questa tragedia.
La strage, in quell’inizio di autunno 2013, scosse la coscienza di tutti, urlando in faccia al mondo l’odissea dei migranti e, in particolare, il calvario del popolo eritreo, oppresso da una dittatura feroce. Erano eritree, infatti, quasi tutte quelle 366 vittime. Sulla scia del dolore e della commozione, cambiarono la sensibilità e la percezione stessa del problema dei migranti nel cuore e nella mente della gente e nelle scelte della politica europea e italiana. Nacque proprio da qui Mare Nostrum, la prima missione della Marina italiana concepita con il mandato specifico di salvare vite nel Mediterraneo.
E’ stata, purtroppo, una nuova sensibilità di breve periodo. Si è cominciato a dire che Mare Nostrum costava troppo e dopo un anno esatto se ne è decisa la chiusura, come se fosse possibile valutare in euro il valore della vita umana. E via via si è come fatta l’abitudine a stragi uguali, se non più gravi, di quella di Lampedusa: i morti, migliaia di morti, come routine che non fa neanche più notizia. Così ora, a quattro anni di distanza, c’è un clima completamente diverso rispetto alla mobilitazione di quei giorni: la politica di apertura e accoglienza che si era fatta strada per non rendere vano il sacrificio di quei 366 giovani, ha lasciato il passo a una politica opposta, fatta di chiusura e respingimenti. Di egoismo gretto anziché di umana solidarietà, sordo al grido d’aiuto che sale da tutto il Sud del mondo.
In questo clima, rischia di diventare una cerimonia vuota e stanca anche la Giornata della memoria per le vittime dell’emigrazione, istituita dal Parlamento italiano nel marzo del 2016. Se ne è avuto un segnale anche il 3 ottobre scorso a Lampedusa, nel quarto anniversario della strage. Non manca chi dà ancora grande, concreto valore a questa ricorrenza. Il presidente del Senato, Pietro Grasso, o la ministra Valeria Fedeli, ad esempio, hanno ribadito tutta la propria disponibilità a riempire di contenuti questa data, ascoltando con partecipazione, in particolare, la voce dei numerosi sopravvissuti e familiari delle vittime che si sono dati appuntamento sull’isola. Ma altri rappresentanti delle istituzioni italiane ed europee si sono limitati a una visita fugace, senza neanche incontrare i primi protagonisti del naufragio, i superstiti e le famiglie di chi non c’è più. Forse perché non sarebbe stato facile spiegare a chi ha subito sulla propria pelle o sulla pelle dei propri cari le pene terribili provocate dai ”muri” della Fortezza Europa, come mai si è tornati ad alzarli, questi “muri”, anziché abbatterli come era stato promesso e dimenticando gli impegni presi dopo la strage.
E’ proprio a fronte di tutto questo che l’agenzia Habeshia ha deciso di riformulare la proposta avanzata nella primavera del 2016 al Presidente della Repubblica e ai presidenti del Senato e della Camera: realizzare un sacrario dove riunire i resti delle 366 vittime del naufragio, oggi sparsi in diversi cimiteri della Sicilia. Fare riposare insieme quelle donne e quegli uomini in un unico luogo: farli riposare insieme come insieme, purtroppo, sono morti e come insieme, fino a quella tragica alba, hanno accarezzato il sogno di una vita libera e dignitosa, un futuro migliore per sé e per i propri figli. “Tutti insieme – ha scritto già allora Habeshia – in un unico luogo: un piccolo sacrario dell’immigrazione, dove pregare, portare un fiore, riflettere. Se possibile, proprio nel cimitero di Lampedusa o, altrimenti, in una città della Sicilia, magari uno di quei porti dove sono arrivati e continuano ad arrivare migliaia di giovani che inseguono le stesse speranze dei fratelli che li hanno preceduti e che non ce l’hanno fatta”.
La proposta ha incontrato a suo tempo un certo interesse ed ha cominciato a muovere i primi passi. Poi, a poco a poco, si è arenata. Nella richiesta formulata nel 2016 si diceva che a dettarla erano essenzialmente due considerazioni:
– “La prima nasce da una esigenza di umana pietà: dare ai familiari, ai parenti, agli amici delle vittime un punto di riferimento dove poter elaborare il lutto: piangere e ricordare i propri cari per quel bisogno naturale, radicato in ogni cuore, di mantenere vivi certi legami affettivi al di là della morte stessa”.
– La secondo è la convinzione che “proprio questo piccolo sacrario può conferire più consistenza e spessore alla Giornata della Memoria, dando voce e concretezza all’esigenza di legare i ricordi a luoghi, episodi, circostanze, persone. In una parola, a un simbolo capace di riassumere i sentimenti e, insieme, il senso di giustizia che ciascuno porta con sé in un angolo della propria coscienza”.
– A queste due si aggiunge ora una terza considerazione: quel sacrario, ovunque venga fatto, resterà un monito su quello che provoca, giorno per giorno, anno dopo anno, la politica di chiusura e respingimento adottata dalla Fortezza Europa nei confronti dei profughi e dei migranti. Il monito che il modo migliore per onorare i morti è salvare i vivi e un richiamo costante ai valori di libertà, solidarietà, uguaglianza, giustizia, che sono il fondamento della Costituzione Repubblicana e dell’idea stessa d’Europa: l’essenza del nostro “stare insieme”.
“Habeshia è certa di interpretare, con questa richiesta, il sentire comune e la volontà di tutti i familiari e gli amici delle vittime. Le vittime di Lampedusa in particolare, ma anche le altre decine di migliaia che si sono perse nel Mediterraneo in questi anni. Di più: accogliere questa richiesta sarebbe certamente un segnale molto significativo anche per tutte le donne e gli uomini che, nella loro fuga per la vita dall’Africa e dal Medio Oriente, sperano di trovare accoglienza in Europa o, più in generale, nel Nord del mondo, per salvarsi da guerre, terrorismo, persecuzioni, siccità e carestia, disastri ecologici e ambientali, fame e miseria endemica. E, nel caso specifico dell’Eritrea, da cui venivano ben 360 delle 366 vittime del tre ottobre 2013, un monito costante dell’inferno in cui la dittatura ha precipitato il paese e la sua gente”.

Così si concludeva la richiesta inviata nel 2016: non c’è bisogno di aggiungere altro.

Volker Turk dell’UNHCR mette in guardia sulle minacce legate allo spazio di protezione a livello globale

COMUNICATO STAMPA UNHCR
Volker Turk dell’UNHCR mette in guardia sulle minacce legate allo spazio di protezione a livello globale

Le violazioni della norme internazionali in materia di asilo, quali i frequenti attacchi da parte di milizie ed eserciti e famiglie costrette a tornare indietro attraverso il confine, hanno messo a rischio la sicurezza delle persone in fuga nel 2017, ha detto il capo della Protezione dell’UNHCR.
Durante il discorso annuale all’incontro del Comitato Esecutivo dell’Agenzia ONU per i Rifugiati, l’Assistente dell’Alto Commissario per la Protezione Volker Türk – il massimo esperto delle Nazioni Unite sul tema della protezione internazionale – ha detto che tali violazioni sono “diffuse e si verificano in tutte le parti del mondo”.
“In particolare, includono l’uccisione di rifugiati da parte di militari”, ha affermato, aggiungendo che si è anche verificata un’impennata di gravi casi di refoulement, ritorno forzato e respingimenti dei rifugiati.
“Famiglie terrorizzate sono state deportate nel bel mezzo della notte, spesso con la connivenza delle forze di sicurezza dei Paesi d’origine”, ha dichiarato a un pubblico di rappresentanti di 151 Stati che compongono il Comitato Esecutivo.
Chi ha il potere spesso non rispetta la tradizione per cui l’asilo è un atto umanitario e apolitico, ha affermato. Alcuni politici hanno rinunciato all’umanità per tornaconti elettorali e politici a breve termine, sostenendo di agire in difesa della libertà, della sicurezza e della sicurezza dei propri cittadini.
“Questo è pericoloso – non solo per i rifugiati, le cui vite ne risentono profondamente – ma anche per i cittadini, nella cui difesa i governi affermano di agire”.
Un’altra forte preoccupazione sta nell’aumento dell’uso di misure di deterrenza da parte dei governi, che in alcuni casi sono diventate “politiche deliberate di trattamenti crudeli, inumani e degradanti, nei confronti di persone che fuggono proprio da questo”.
“Non vi è alcuna giustificazione nel separare le famiglie, o nel tenere i rifugiati in un limbo o a languire in centri di detenzione off-shore dagli standard al di sotto delle norme, in strutture di accoglienza inappropriate o intrappolati in aree di confine”.
“Un rifugiato è un rifugiato”
“Trattare gli esseri umani in questo modo è dannoso non solo per loro, ma anche per la società in generale, in quanto gli effetti di tale condotta portano alla disumanizzazione dell’individuo e alla brutalizzazione della società tutta”.
La violenza sessuale e di genere rimane la maggiore causa di fuga, ed è un serio pericolo anche lungo le rotte. Può assumere varie forme, dallo stupro all’aggressione sessuale, dalla violenza domestica al matrimonio in età infantile, fino allo sfruttamento sessuale.
Türk ha fatto riferimento ai numeri in aumento dei bambini rifugiati, che rappresentano oltre la metà dei 22,5 milioni di rifugiati.
Solo lo scorso anno, sono stati registrati 64.000 minori non accompagnati e separati al confine tra Stati Uniti e Messico, dei 2,4 milioni di rifugiati siriani più della metà erano bambini, e oltre un milione di minori sono fuggiti dal Sud Sudan.
Ha toccato il tema dell’uso dei termini e del linguaggio con cui si connotano i rifugiati, per esempio quando si parla di rifugiati chiamandoli “salta file” (queue jumpers) o bollandoli come terroristi o criminali.
“Si sollevano questioni molto cariche dal punto di vista emozionale solo per guadagnare voti, per disinformare, per trovare un capro espiatorio, spesso in una maniera che disumanizza, crea divisioni e polarizza,” ha dichiarato.
Viene utilizzata una serie di termini per descrivere i rifugiati, come “gente senza documenti” o “migranti vulnerabili”, con l’idea di rendere più forte la causa dei diritti delle persone in fuga. Tuttavia, questo ha creato confusione e “ha lasciato campo libero a coloro che preferiscono minare i diritti dei rifugiati”.
“Devo dire che, a parte l’erronea definizione giuridica, trovo che sia inappropriato presentare delle persone come una sotto-categoria di qualcosa, rifugiati o non”, ha aggiunto. “Un rifugiato è un rifugiato”.
“La legge internazionale sui rifugiati stabilisce misure di salvaguardia per proteggere coloro che hanno bisogno di protezione internazionale”
In alcuni circoli accademici e internazionali è diventato di moda discutere se il sistema d’asilo regga o meno, ma queste argomentazioni solitamente non funzionano.
“Riaprire una discussione su quali siano le fondamenta su cui si è basata la protezione internazionale per circa sei decenni rischia di diventare un esercizio che indebolisce gli standard esistenti, riducendoli al minimo, a danno dei milioni di rifugiati che dipendono da questo sistema per sopravvivere”, ha affermato.
Türk ha elogiato gli sforzi che sono stati fatti nel promuovere la coesistenza pacifica nelle comunità ospitanti.
“In Libano, Iraq e Chad, i progetti per lo sviluppo urbano nelle zone dove risiedono i rifugiati, come ad esempio la costruzione o la ristrutturazione di scuole e spazi per bambini, cliniche, impianti per l’acqua e di sanificazione, rappresentano un beneficio sia per rifugiati ma anche per la comunità del Paese ospitante e possono contribuire a ridurre eventuali tensioni e conflitti tra le persone,” ha detto Volker Türk.
Volker Türk ha parlato della possibilità di stimolare “la maggioranza silente e coloro che sono sempre sulle retovie”, così che le tematiche che riguardano i rifugiati possano diventare questioni di interesse per “tutta la società”.
Volker Türk ha poi aggiunto che è davvero incoraggiante che più di 1,5 milioni di persone abbiano firmato la campagna dell’UNHCR #WithRefugees a favore di un’azione concreta per assicurare istruzione, accoglienza, lavoro e formazione per i rifugiati.
La sicurezza e la protezione devono andare di pari passo, l’una non è possibile senza l’altra.
“Il diritto internazionale in materia di asilo fornisce le misure di salvaguardia per proteggere tutti coloro che sono vittime di persecuzioni, conflitti e violenze – incluso il terrorismo –  e che hanno pertanto bisogno di protezione internazionale, tenendo in considerazione il bisogno di garantire la sicurezza dei Paesi ospitanti e della loro popolazione”. Türk ha sottolineato poi come spesso i rifugiati siano le prime vittime del terrorismo.
“Non c’è alcun dubbio che il multilateralismo sia la via del futuro”.
Nel lungo periodo, le catene dei flussi delle migrazioni forzate devono essere spezzate, ha detto Türk.
“In qualche modo, una più ampia comprensione delle possibili soluzioni, che includono affrontare le cause alla radice, rispondere ai bisogni immediati e investire nello sviluppo su lungo termine, può essere la strada per raggiungere quest’obiettivo.”
Idealmente, questo vuol dire impedire che i problemi crescano, in primo luogo affrontando le cause che spingono le persone a fuggire. Spesso legate alla mancanza di una buona governance e al funzionamento effettivo dello stato.
“Sfortunatamente, in troppe occasioni, ci confrontiamo con profonde disuguaglianze, con l’assenza di un senso di responsabilità verso le persone, e un incontrollato e massiccio sfruttamento delle risorse naturali a spese delle popolazioni locali. In un mondo sempre più interconnesso, questi problemi non restano isolati, ma interessano tutti noi”.
L’accesso all’istruzione e la promozione dell’autosussistenza sono parte della soluzione. Di sei milioni di rifugiati in età scolare, 3,7 milioni non hanno accesso all’educazione e i bambini rifugiati che riescono ad andare a scuola tendenzialmente perdono dai tre ai quattro anni di scuola.
“Sul lungo periodo, l’accesso sostenibile ai sistemi scolastici nazionali è la chiave per assicurare ai bambini rifugiati di ottenere certificati e riconoscimenti validi, promuovere la coesione sociale e investire nei programmi e nelle infrastrutture già esistenti.”
Coloro che desiderino fare ritorno nei loro Paesi di origine, spesso dopo aver trascorso molti anni in esilio, vanno incontro ad una decisione particolarmente difficile da prendere.
“Se le persone vogliono fare ritorno nel proprio Paese d’origine, hanno il pieno diritto di farlo ed è compito dell’UNHCR fare tutto il possibile affinché questa decisione venga presa in libertà e con la giusta consapevolezza e che le persone abbiano accesso a tutto il supporto necessario una volta tornati nel Paese d’origine”, ha aggiunto Türk.
Nelle sue conclusione, Valter Türk ha sottolinea che sulla base dell’esperienza del CRRF, il lavoro dell’UNHCR il prossimo anno sul Global Compact sui rifugiati aiuterà a rafforzare questi impegni.
“Non c’è dubbio che il multilateralismo sia la via per il futuro ed è nell’interesse di ogni Paese. E questo è ancor più evidente nel contesto dei rifugiati.”

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L’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza e l’UNHCR insieme per la protezione dei minori stranieri separati e non accompagnati in Italia.


NOTA ALLA STAMPA



L’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza e l’UNHCR insieme per la protezione dei minori stranieri separati e non accompagnati in Italia.


Roma, 6 Ottobre 2017 - Nella giornata odierna, l’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza e l’UNHCR, Agenzia ONU per i Rifugiati, hanno firmato un Protocollo d’intesa per promuovere iniziative congiunte finalizzate alla protezione dei minori stranieri non accompagnati e separati in Italia. Tale collaborazione è volta a facilitare la conoscenza e il pieno rispetto delle convenzioni internazionali sui diritti dei bambini e adolescenti e sui principi fondamentali per la loro protezione, quali il superiore interesse del minore, la non discriminazione, il diritto alla vita, alla sopravvivenza, allo sviluppo e, non ultimo, particolarmente il diritto all’ascolto. 
“Questa collaborazione con UNHCR – ha sottolineato la Garante Filomena Albano – è un bellissimo progetto, in linea con le attività che caratterizzano questa Autorità. L’ascolto e la partecipazione attiva dei migranti più fragili, i bambini e gli adolescenti che giungono nel nostro paese soli, sono elementi essenziali per fornire loro gli strumenti più utili nella costruzione del proprio futuro: la conoscenza dei propri diritti e dei propri doveri nella consapevolezza di trovare chi saprà raccogliere le loro richieste e aiutarli a tradurle in progetti da realizzare”.
Nel 2017 sono arrivati in Italia via mare oltre 13mila bambini e adolescenti non accompagnati o separati, vale a dire il 13 per cento di tutte le persone arrivate sulle nostre coste. Con gli arrivi, sono aumentate anche le sfide per garantire protezione adeguata soprattutto alle persone con bisogni e vulnerabilità specifiche, anche nel quadro della recente legge, approvata ad aprile 2017, che attiene all’accoglienza e alla tutela dei minori stranieri non accompagnati.
“I bambini sono particolarmente esposti a rischi di abusi, sfruttamento e violenza. Spesso sono fuggiti da soli e hanno viaggiato fino ad arrivare sulle nostre coste senza la cura e la protezione della famiglia. In molti casi le famiglie sono state separate durante il viaggio. I minori sono pertanto portatori di specifiche vulnerabilità e hanno bisogno di servizi e misure di protezione idonee e mirate,” ha detto Stephane Jaquemet, Delegato dell’UNHCR per il Sud Europa.
In linea con le funzioni e le competenze dell’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza e il mandato dell’UNHCR, le azioni e gli interventi previsti dal Protocollo intendono sostenere l’effettiva protezione delle persone di minore età in Italia, con particolare attenzione alla promozione della loro partecipazione come modalità di esercizio dei loro diritti. Saranno realizzate visite ad almeno quindici strutture per minorenni afferenti ai sistemi di prima e di seconda accoglienza. Tali visite metteranno al centro momenti di ascolto e di consultazione con i giovani migranti in esse ospitati, sulla base di una metodologia partecipativa e un approccio basato sui diritti.
“Con questo Memorandum d’intesa e le attività che realizzeremo insieme all’Autorità Garante vogliamo potenziare le opportunità di ascolto e coinvolgimento dei minori, affinché siano pienamente partecipi di tutte le azioni che li riguardano, nel loro superiore interesse,” ha concluso Jaquemet.


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