di Emilio Drudi
Dormono all’aperto tra le
dune, accampati alla meglio nella boscaglia, cercando di ripararsi dal freddo con
qualche coperta. I più fortunati con un sacco a
pelo. Sono giovani e la dura esperienza di profughi li ha abituati a
sopportare. Ma le lunghe notti sulla Manica sembrano non finire mai. E poi si
dorme sempre con un occhio solo, pronti a svegliarsi e a scappare. Perché
spesso, all’alba, la polizia irrompe in questi campi improvvisati e non fa
complimenti. “Basta un niente, il minimo cenno di resistenza – ha raccontato
qualcuno di loro – per essere trattati a spintoni, a colpi menati a caso… A spruzzi
di spray urticanti, dolorosi, sul viso e sugli occhi”.
E’ la nuova jungla di
Calais, in Francia, come l’ha trovata don Mussie Zerai, che è stato quattro
giorni sul posto, dal 20 al 24 novembre, per rendersi conto di persona della
realtà che gli era stata segnalata e descritta a più riprese, negli ultimi mesi,
da alcuni ragazzi eritrei. La prima jungla è stata smantellata giusto un anno
fa: le ultime operazioni di sgombero e trasferimento risalgono al novembre
2016. Dopo anni di sostanziale inerzia, le istituzioni furono costrette a
intervenire, sulla scia delle proteste di numerose Ong, francesi e
internazionali, e della denuncia di un vasto comitato d’opinione promosso da
uomini di cultura, attori, giornalisti, operatori umanitari, associazioni,
politici, gruppi di cittadini, che si sono rivolti alla magistratura per far
rispettare i diritti degli oltre settemila migranti bloccati intorno a Calais, dove
erano arrivati col miraggio di passare in Inghilterra. Per chiudere quella
enorme bidonville sono stati organizzati campi di accoglienza in tutta la
Francia e, di pari passo con i
trasferimenti, si è demolita, pezzo dopo pezzo, l’enorme jungla di tende
e baracche. Tuttavia, la fine dell’assedio a Calais da parte dei disperati in
cerca di una via per arrivare nel Regno Unito, non è durata a lungo. Altri
profughi sono comparsi, sempre più numerosi, già nelle settimane immediatamente
successive alle ultime evacuazioni. Oggi sono centinaia. Censimenti ufficiali
non ce ne sono, ma alcuni volontari dicono quasi duemila. Certamente più di
mille.
“Si tratta in buona parte di
giovanissimi – spiega don Zerai – Minorenni non accompagnati, spesso approdati
qui dopo una fuga durata mesi o addirittura anni. Soprattutto eritrei, etiopi,
afghani. Ragazzini costretti a vivere all’aperto, per strada, dove capita. Ad
avere come tetto soltanto un telo o un cespuglio tra le dune anche in questi
giorni di freddo e pioggia. Per lo più sono ‘dublinati’: giovani, cioè, espulsi
da vari Stati europei in base al regolamento di Dublino. Dalla Germania, ad
esempio. O dalla Svizzera e dai paesi nordici. Sono arrivati e continuano ad
arrivare a Calais come all’ultima spiaggia: per provare a salire di nascosto su
un treno dell’Eurotunnel o per cercare un imbarco di fortuna al porto.
Esattamente come prima, ai tempi della vecchia jungla, quando decine di
rifugiati hanno perso la vita nel tentativo disperato di passare: almeno una
sessantina dal 2014 fino allo smantellamento della bidonville. Perché superare
la Manica da clandestini è molto difficile. Anzi, ormai è quasi impossibile.
Così si è creato di nuovo un imbuto enorme. Un imbuto chiuso che si allarga
sempre di più, alimentato da una umanità disperata e in balia di tutti. In
balia anche di criminali che approfittano di questa sacca enorme di
disperazione per alimentare, con quei ragazzi, i giri d’affari più sporchi: lavoro-schiavo,
prostituzione, mercato del sesso. Sono proprio i più giovani ad essere i più
esposti. Ma non sanno a chi rivolgersi. Le istituzioni li trattano come un
‘problema di sicurezza’, gente di cui disfarsi e da allontanare. La polizia si
comporta di conseguenza. Non a caso tutti i migranti ne hanno paura. A quanto
mi hanno raccontato, gli agenti avrebbero un atteggiamento duro e intimidatorio
anche per un semplice controllo e ricorrerebbero spesso a una violenza assurda,
per i motivi più futili o addirittura senza motivo”.
Queste violenze, secondo molti
giovani ascoltati da don Zerai, si verificherebbero ovunque. “Capita spesso –
afferma don Zerai riferendo appunto alcune testimonianze – che i campi di
fortuna nella boscaglia siano evacuati con la forza. All’alba vengono
circondati e poi squadre di agenti entrano tra i ripari di teli e coperte. Mi
dicono che basta un niente per subire prepotenze o magari essere picchiati.
‘Quando ci fermano – mi hanno specificato alcuni ragazzi – certi poliziotti
sembra quasi che si divertano a maltrattarci mentre altri, sia uomini che
donne, tutti in divisa, assistono senza fermarli. Anzi, magari ridono, come se
si divertissero a loro volta’. Se questi racconti hanno fondamento, sarebbe un
fatto gravissimo. Si parla di violenze commesse da uomini in divisa che
rappresentano lo Stato e che dovrebbero tutelare le persone più deboli, garantendone
i diritti e la dignità. Occorre allora verificare, indagare, aprire
un’inchiesta ufficiale. Denunce del genere, insomma, non possono essere
lasciate cadere nel nulla…”.
Questo clima di violenza si
ripeterebbe anche in piena Calais. Don Zerai: “In città i profughi si
riuniscono nei punti in cui c’è la possibilità di avere accesso libero alla
connessione internet. Per loro è essenziale: è l’unico modo che hanno di
contattare i familiari. Alcune formazioni di estrema destra non li vogliono in
città e non di rado organizzano vere e proprie spedizioni punitive per
scacciarli a furia di calci e pugni, bastonate. Si respira, insomma, un’atmosfera
di ostilità e tensione. E, tra i profughi, di grande insicurezza. La polizia
interviene spesso, ma non sembra contribuire granché a risolvere questi
problemi. Anzi… Mi dicono, ad esempio, che anche in occasione dei pestaggi condotti
da quei naziskin, non sempre gli agenti trattano i migranti come le vittime, ma
come ‘parte del problema sicurezza’. E quando, per un qualsiasi motivo, decidono
di disperdere i gruppi di stranieri, se qualcuno accenna a resistere, i loro metodi,
già bruschi, sfociano nella violenza. Alcuni ragazzi hanno riferito che qualche
volta sarebbero stati esplosi persino dei colpi di pistola. Sembra incredibile
che possano essersi verificati episodi del genere, ma sono portato a credere
che le denunce che ho ricevuto abbiano un fondamento. Sembrano provarlo diversi
giovani con le braccia o le gambe spezzate. Li ho ascoltati di persona e mi
hanno assicurato che quelle fratture sono il frutto delle percosse subite. Un
modo di fare inconcepibile, che sembra aver creato un vero e proprio stato di
terrore. Una paura istintiva, che spinge a scappare anche di fronte a un
semplice alt per un controllo, nel timore di essere fermati o altro. Ovunque
capiti e spesso esponendosi a rischi terribili. Come saltare la recinzione e
attraversare di corsa l’autostrada. Mi hanno detto che proprio in una
circostanza del genere una ragazza sarebbe morta, travolta e uccisa da un’auto…”.
Ai tempi della “jungla 1”,
quando intorno a Calais vivevano accampati oltre 7 mila migranti, c’era una
vasta mobilitazione di volontari e associazioni umanitarie per assicurare un
minimo di assistenza. “Ci sono ancora – rileva don Zerai – Non così numerosi
come allora, ma ci sono. Anche per loro, però, è tutto molto più difficile.
L’amministrazione locale, di destra, ha emanato un’ordinanza che impone il
divieto assoluto di distribuire ai rifugiati cibo e bevande; di organizzare
alloggi per dormire, sia pure di fortuna; di predisporre strutture elementari,
come servizi igienici e docce. Le associazioni si sono mobilitate, facendo
ricorso al Tribunale, e qualcosa l’hanno ottenuto. Molto meno, tuttavia, dei
tempi della “jungla 1”. Oggi non c’è una sola mensa né un luogo dignitoso dove
poter mangiare. Ci sono unicamente dei punti di distribuzione all’aperto, quasi
sempre in zone isolate e lontano dal centro di Calais. Lontano da tutto e da
tutti. E’ stato predisposto un locale docce, ma si ha diritto di accedervi una
sola volta alla settimana e con turni di appena 6 minuti a persona. E ci sono
distribuzioni periodiche di sacchi a pelo, coperte, vestiti pesanti,
organizzate dalla Caritas e da gruppi laici. Spesso però, con l’evacuazione e
lo smantellamento dei campi improvvisati, i ragazzi perdono tutto, perché la
polizia non esita a distruggere tende, giacigli, masserizie. Perfino i
telefonini. E’ un calvario. E con il freddo che è ormai arrivato si pongono
gravi problemi di salute: sono tanti i rifugiati febbricitanti e malati, magari
di bronchite o di polmonite, ma non sanno a chi rivolgersi, se non all’aiuto
dei volontari”.
E’ un quadro che richiama
quello della prima jungla, che ha suscitato un moto di indignazione generale ma
che sembrava ormai “archiviata”, finita per sempre. “E’ così – conclude don
Zerai – E fa rabbia pensare che proprio qui a Calais, dove accade tutto questo,
hanno investito milioni di euro per costruire muri lungo l’autostrada e intorno
all’area portuale, per impedire di accedere al transito verso l’Inghilterra, ma
non si è speso nulla per creare un sistema di accoglienza e assistenza
dignitoso. L’ordine sembra uno solo: quello di allontanare i migranti a ogni
costo. Eppure, insisto su questo, si tratta in maggioranza di soggetti
estremamente vulnerabili: ragazzi minorenni, spesso ragazzini e ragazzine di
appena 14 o 15 anni, esposti ad ogni rischio. Quel poco di assistenza che c’è
si deve esclusivamente alla Chiesa Cattolica e a una serie di organizzazioni
laiche che si battono contro l’indifferenza e il pregiudizio anti migranti.
Senza di loro, a Calais, nella civilissima Francia, i diritti alla base della
democrazia sarebbero definitivamente morti. Di più: sarebbe morto il senso
stesso di umanità”.
Nessun commento:
Posta un commento