di Emilio Drudi
Si erano nascosti su
una chiatta merci partita il 3 dicembre da Dakar, in Senegal, e diretta in
Belgio. Erano in 19, tutti giovani senegalesi tra i 18 e i 25 anni. Li hanno
scoperti solo undici giorni dopo, il 14 dicembre, quando la chiatta navigava in
pieno Oceano Atlantico, a nord delle Canarie, trainata lentamente da un
rimorchiatore. Erano ormai allo stremo: spossati dalla fame, senza quasi più
acqua da bere, molti privi di conoscenza e con gravi sintomi di ipotermia. Così
debilitati da far temere che, in gran parte, non ce l’avrebbero fatta neanche a
reggere le poche ore necessarie a raggiungere l’Arcipelago, dirottando il
rimorchiatore. Per salvarli è stato necessario far intervenire un elicottero
dell’esercito, che li ha trasportati in ospedale, facendo la spola più volte
tra l’isola di Gran Canaria e la nave. Si sono salvati tutti, ma c’è da credere
che, se non li avessero scoperti, sicuramente molti di loro sarebbero morti.
Forse quasi tutti, poiché il rimorchiatore con la chiatta a traino aveva
davanti ancora vari giorni di navigazione fino al porto di Anversa.
L’hanno scampata per
poco anche altri 16 giovani trovati il 16 ottobre in un container su una nave
da carico liberiana, il Panther, proveniente dal Ghana e approdata nel porto di
Algeciras, in Andalusia. Erano nascosti come minimo da 10 giorni: da quando,
cioè, il cargo era salpato da Accra. Anzi, con tutta probabilità, da almeno un
giorno prima della partenza, perché è verosimile che siano riusciti a
nascondersi all’interno del container quando si trovava ancora sulla banchina
dello scalo merci, in attesa di essere caricato a bordo. Poi sono rimasti lì,
al buio, con una scorta di acqua e cibo insufficiente, perché non avevano
previsto che il viaggio sarebbe durato tanto a lungo. Durante la rotta nessuno
dell’equipaggio si è accorto di loro. Li ha scoperti una squadra di tecnici e operai,
insospettiti da alcuni rumori, mentre si accingevano alle operazioni di
scarico: erano quasi tutti semi-asfissiati, molti privi di conoscenza e anche
quelli ancora in sé non riuscivano neanche ad alzarsi o a trovare la forza di
muovere un passo.
Due imbarchi
clandestini di massa da due dei più importanti porti atlantici dell’Africa è
difficile che si siano verificati per caso. Sembrano indicare, piuttosto, che
potrebbero essersi messe in moto organizzazioni che “offrono” questo genere di
“viaggi” ai migranti in fuga dall’Africa subsahariana. Per molti versi, sembra
profilarsi una variante della rotta atlantica “tradizionale”, dall’Africa verso
le Canarie o talvolta verso l’Andalusia, percorsa finora con barche da pesca.
Rotta che non si è mai interrotta del tutto, dopo le restrizioni introdotte
dall’inizio degli anni 2000, ma che adesso, sulla scia della progressiva
chiusura delle rotte mediterranee, pare stia riprendendo rapidamente quota,
anche se in forme diverse e, soprattutto, in condizioni molto più difficili e
pericolose. Lo dimostrano almeno altri due episodi, che hanno visto
protagonisti più di 200 migranti.
Il più drammatico
risale al 22 novembre. Un cayuco, la tipica barca da pesca della costa
occidentale africana, è rimasto alla deriva per quasi una settimana, con 103
tra uomini e donne. Era partito dal Senegal la notte tra il 15 e il 16,
puntando verso una delle Canarie. Le cattive condizioni del mare lo hanno
spinto fuori rotta. L’allarme è scattato il 20, cinque giorni dopo la partenza,
su iniziativa dei familiari di alcuni giovani che erano a bordo, preoccupati
per la prolungata mancanza di contatti e notizie. Per ritrovare i dispersi ci
sono voluti altri due giorni di ricerche. Quando un aereo del Salvamento
Maritimo spagnolo li ha individuati e una motovedetta li ha recuperati,
portandoli a Gran Canaria, avevano perso ormai ogni speranza. Un mese prima, il
17 ottobre, un cayuco delle stesse dimensioni era riuscito ad arrivare ed a
sbarcare 95 migranti, sempre nella baia di Gran Canaria, dopo otto giorni di
navigazione. Anche questo era salpato dal Senegal.
Di fronte a questi
sbarchi, la Federazione delle associazioni africane delle Canarie ha segnalato
che, secondo informazioni raccolte nei paesi d’origine, la rotta atlantica si
sta riattivando. “Sarà bene che le Canarie si preparino a un’ondata di arrivi –
ha ammonito il presidente, Teodoro Bondyale – Sostenere che non c’è una ripresa
dell’immigrazione verso l’Arcipelago significa negare l’evidenza”. Ora però i
punti d’imbarco sono diversi. Quelli usati in Marocco e in Mauritania sono
stati quasi del tutto abbandonati a causa dei controlli serrati da parte della
polizia dei due paesi che, in attuazione del Processo di Rabat (l’accordo di
contrasto all’immigrazione sottoscritto con l’Unione Europea nel 2006), hanno
ormai “blindato” il litorale e le acque territoriali. In alternativa, ci si è
spostati molto più a sud, sulle coste del Senegal o addirittura della Guinea. Rispetto
a prima, si parte con cayuchi più grandi, capaci di trasportare fino a 100
persone, ma si affronta una rotta di centinaia di miglia più lunga, in mare
aperto. Con tutti i rischi che ne conseguono. Anzi, moltiplicando i rischi, già
enormi, che si correvano imbarcandosi in Mauritania o nel Sahara Occidentale, un
tragitto nel quale, per quanto più breve, in nove anni, dal 1999 fino al 2007,
si sono perdute più 2.050 vite umane.
I migranti sanno
bene a cosa vanno incontro: molti di quei duemila e passa morti nell’Atlantico
venivano dai loro stessi villaggi e dai loro stessi quartieri nelle grandi
città. Eppure partono ugualmente, riscoprendo e riportando in primo piano
quella che è stata, all’inizio di questo millennio, una delle principali porte
d’ingresso dall’Africa in Europa, con un flusso di arrivi alle Canarie in
costante crescita, fino al picco di 31.678 raggiunto nel 2006, su un totale di
83.957. L’inversione di tendenza si è avuta nel 2007, quando gli sbarchi, pur
rimanendo ancora numerosi (12.478), hanno registrato di colpo una flessione del
60 per cento rispetto all’anno precedente. Grossomodo il medesimo andamento si
è avuto nello stretto di Gibilterra, l’altra “via marittima” spagnola, che
negli stessi anni ha fatto registrare 68.284 arrivi, con due picchi particolari
nel 2000 (12.789) e nel 2001 (14.405) e un andamento costante tra i 9 mila e i
7 mila fino ai 7.502 del 2006, per poi scendere a circa duemila in meno (5.579)
nel 2007 e continuare rapidamente la discesa negli anni successivi.
Il calo dopo il 2006
ha un motivo ben preciso. Il 2006 è l’anno della firma del Processo di Rabat,
che ha delegato controlli e respingimenti alle polizie dei 27 Stati africani
firmatari dell’accordo ma, soprattutto, alle forze di sicurezza della
Mauritania e del Marocco, sotto l’egida dell’agenzia europea Frontex. Le
continue retate, gli arresti, le carcerazioni nei numerosi, nuovi centri di
detenzione, i rimpatri forzati, hanno progressivamente blindato non solo la
rotta atlantica ma l’intera “via spagnola”, impedendo anche gli imbarchi nel
Mediterraneo, sulla costa di Tangeri, e contrastando con grande durezza i
tentativi di valicare i valli fortificati delle enclave di Ceuta e Melilla. La
blindatura decisa a Rabat ha “tutelato” la Spagna, deviando le vie di fuga
dell’Africa occidentale verso il Niger e la Libia, per puntare poi via mare sull’Italia.
Adesso, però, questa “muraglia” si sta incrinando per effetto di quella
identica eretta dal Processo di Khartoum anche sulla rotta del Mediterraneo
Centrale e al confine meridionale della Libia, in pieno Sahara. Oltre che la
ripresa della rotta atlantica, lo confermano gli assalti che, nonostante il
fitto schieramento di polizia, si ripetono quasi ogni notte contro le alte
recinzioni di cemento e filo spinato intorno a Ceuta e Melilla e il
moltiplicarsi degli imbarchi dalle spiagge marocchine del Mediterraneo, usando,
per sfuggire ai controlli, battelli sempre più piccoli, persino
canottini-giocattolo di plastica, lunghi appena due metri. Con il risultato che
si moltiplicano anche i morti: una cinquantina dalla fine di novembre a metà
dicembre solo nello Stretto di Gibilterra.
E’, ancora una
volta, la prova che le barriere erette dalla Fortezza Europa non riescono a
fermare i flussi dei migranti: li deviano e li rendono sempre più pericolosi e
carichi di morte, ma non li fermano. “E’ illusorio pensare di bloccare con
muri, polizia e campi di concentramento la fuga per la vita di migliaia di
persone – dice Abdullah, un ragazzo somalo arrivato in Italia dopo un’odissea
durata più di un anno e mezzo ed ospitato ora in un centro accoglienza in
provincia di Torino – E’ come voler stringere l’acqua in una mano. In un pugno.
Ma il pugno, per quanto stretto, resta vuoto: l’acqua passa e va perduta.
Questo sta accadendo. La situazione dei nostri paesi ci ha costretto a
scappare. La vita ci sta portando ovunque. Molti, come me, verso l’Europa, alla
quale ci rivolgiamo con fiducia e speranza. I muri eretti per fermarci, però,
stanno uccidendo questa speranza. E la nostra fiducia nell’Europa, per i valori
di libertà, solidarietà, giustizia che dice di seguire, rischia di perdersi per
sempre. Proprio come l’acqua sfuggita da un pugno…”.
Da Tempi Moderni
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