di Emilio Drudi
“Come sono morti?
Uno si è suicidato, vinto da mesi di sofferenze inumane. Gli altri sono morti
di stenti e di sfinimento”. Sono le parole di uno dei compagni delle vittime. I
morti sono sei giovani profughi, ma potrebbero anche essere nove, perché altri
tre sono scomparsi all’improvviso da diversi giorni e ormai si teme il peggio.
Accade nel campo di Gharyan, 94 chilometri a sud di Tripoli.
E’ l’ennesima
tragedia consumata nei centri di detenzione in Libia. Anche in quelli gestiti
dallo Stato, a conferma che il quadro resta quello descritto in tutti i
rapporti pubblicati negli ultimi anni dalle Nazioni Unite e da Ong come Amnesty
o Human Rights Watch. A raccontarla, questa strage, sono stati altri profughi prigionieri
a Gharyan i quali, con una serie di telefonate fatte di nascosto, “rubate”, hanno
potuto prendere contatto con il Coordinamento Eritrea Democratica per chiedere
aiuto. Le prime segnalazioni sono giunte fra il 30 e il 31 marzo. Sono seguite brevi
comunicazioni di aggiornamento e contatti periodici sono in corso tuttora. Le
telefonate sono state ricevute tutte da Abraham Tesfai, un giovane esule,
studente universitario a Bologna, che da tempo si occupa di ricerche sui
profughi intrappolati in Libia oppure che risultano prigionieri o scomparsi,
durante la fuga, in altri paesi di transito. “Quei ragazzi – spiega – hanno detto
di aver avuto il nostro recapito da un familiare residente in Europa, che conosce
e segue la nostra attività. Già dalla prima comunicazione si è capito che si
trovano in una condizione terribile. Poi, il quadro si è rivelato anche
peggiore di quello che avevo intuito. Non a caso le chiamate che mi arrivano
sono sempre più disperate… E’ assurdo che non si riesca o, peggio, che non si
voglia fare niente, chiudendo gli occhi di fronte a quello che sta accadendo”.
Gharyan, quasi 200
mila abitanti, capoluogo di distretto, famosa per essere stata uno dei principali
centri della resistenza contro l’occupazione coloniale italiana, snodo delle
strade che dal sud portano verso Tripoli e la costa, è un punto nevralgico per
i movimenti dei migranti provenienti da Sabha e dal Fezzan, dopo essere entrati
in Libia dal Sudan e dal Niger. Il centro di detenzione aperto alla periferia dell’abitato
è una delle strutture “ufficiali” di accoglienza, sotto il controllo del
Governo, ma i ragazzi che hanno chiesto aiuto lo descrivono come una dura, orribile
prigione: “Siamo rinchiusi in grossi container, dai quali non è consentito
uscire, se non per brevissimi periodi, nell’arco della giornata. Il cibo è
scarso e di pessima qualità, poca e scadente persino l’acqua da bere, nessuna
assistenza medica, servizi igienici pressoché impraticabili perché manca
l’acqua anche per le più elementari pulizie. Senza contare i maltrattamenti, le
minacce, gli insulti, le umiliazioni da parte di molti degli agenti di guardia.
Tanti si ammalano, ma nessuno se ne prende cura. E’ così che sono morti sei
nostri compagni, tre eritrei (Aradom, Tekleab ed Aman) e tre somali (Farhamh,
Saydn e una ragazza, Segal). Uno non ce l’ha fatta più a resistere e si è tolto
la vita: lo abbiamo trovato esanime, senza poter fare più nulla. Gli altri,
inclusa la ragazza, li hanno uccisi le privazioni e lo sfinimento. Il primo
circa tre mesi fa e poi via via gli altri. Da alcuni giorni, inoltre, non
abbiamo più notizie di altri tre nostri compagni, tutti eritrei. Si chiamano
Tesfu, Rehase e Abiel. Sono spariti e temiamo che siano morti anche loro. C’è
chi dice che siano fuggiti, ma da un campo come questo non si riesce a fuggire.
E poi, se avessero voluto scappare, quasi certamente ce lo avrebbero detto.
Allora pensiamo o che siano stati consegnati a qualcuno, magari a dei
trafficanti, oppure che, appunto, siano morti. Di sicuro sono spariti… Siamo
tutti allo stremo: se qualcuno non verrà a liberarci da questa prigione, presto
ci saranno altri morti”.
I ragazzi morti o
dispersi e quelli che hanno chiesto aiuto al Coordinamento Eritrea facevano
parte di un gruppo di circa 100 migranti, quasi tutti eritrei e somali,
arrivati a Gharyan nell’ottobre del 2017. In precedenza erano detenuti a
Sabratha, insieme agli oltre 20 mila migranti trovati dalle milizie della
brigata anti Isis che hanno conquistato la città: erano nelle prigioni di Amu
Al Dabashi, il capo clan che a sua volta controlla due brigate di miliziani (la
Brigata 48 e la Amu Brigade) e che si è riciclato da trafficante (il principale
della zona di Sabratha) in “gendarme anti immigrazione”, a quanto pare in
cambio di 5 milioni di euro, stando almeno alle notizie riportate all’epoca da
vari organi di informazione.
Subito dopo essere
stati liberati a Sabratha, quei cento migranti sono stati affidati alla
Mezzaluna Rossa e portati a Tripoli, dove li hanno identificati e registrati,
con la promessa che sarebbero stati inseriti in un programma di relocation
verso il Niger e magari l’Europa. A Tripoli – nella fase della
identificazione/registrazione sarebbero entrati in contatto anche con un
funzionario dell’Unhcr, del quale hanno ancora il recapito. Esaurite queste
procedure, da Tripoli sono stati trasferiti a Gharyan. Ma a Gharyan si sono
ritrovati, a quanto pare, in un lager simile a quello dei trafficanti di
Sabratha. Prima che con il Coordinamento Eritrea Democratica in Italia, si sono
messi di nuovo in contatto con il funzionario di Tripoli, per illustrargli la
situazione e soprattutto, alla luce di quanto stanno vivendo, per chiedergli a
che punto sia il trasferimento che era stato prospettato dopo che erano stati
liberati a Sabratha. Lui avrebbe risposto che tutto dipende dalle “autorità
libiche”. E che stava facendo il possibile. Solo che – nonostante le
dichiarazioni e gli impegni di varie cancellerie occidentali e di Bruxelles –
anche il trasferimento in Niger è sempre più difficile: il Governo di Niamey,
dopo una iniziale apertura, sta “frenando” perché, a fronte dei numerosi
arrivi, solo poche decine di profughi sono stati poi accolti in Europa, in base
al programma di relocation concordato. Così non c’è scampo: è quasi impossibile
uscire dalla trappola libica.
Quello che accade in
Libia, però, sembra che non importi granché: né a Roma, né a Bruxelles. Anzi,
ora è provato: è la Guardia Costiera italiana a dare disposizioni tassative
perché il coordinamento delle operazioni di soccorso nel Mediterraneo centrale
venga svolto dalla Marina libica. Anche quando questo, in concreto, significa
attuare sistematicamente dei respingimenti di massa forzati verso l’inferno dei
campi della Libia. Senza dare la possibilità ai migranti di presentare
richiesta di asilo e a prescindere dalla sorte che li attende, una volta
riportati in Africa. Era già evidente, questa grave responsabilità, dopo il
sequestro della nave della Ong spagnola Proactiva Open Arms e l’incriminazione
del capitano e del capo missione, per essersi rifiutati di consegnare alla
Guardia Costiera di Tripoli i 218 naufraghi che avevano appena recuperato in
mare, a 73 miglia dalla costa africana. La riprova si è avuta il 30 marzo,
quando la nave Aquarius, di Sos Mediterranee, arrivata per prima sul posto e
proprio su sollecitazione del comando centrale della Guardia Costiera italiana,
è stata costretta ad abbandonare ad una motovedetta libica i migranti che stava
portando in salvo. E’ illuminante, in proposito, il resoconto di Medici Senza
Frontiere, che si occupa dell’assistenza medica sull’Aquarius.
“Il gommone (dei migranti: ndr) – si legge nel
rapporto – è stato identificato per primo da un aereo militare europeo. Benché
la Aquarius sia giunta sulla scena per prima, intorno alle 11, il Centro di
Coordinamento del Soccorso Marittimo (Mrcc) ha informato la nave che sarebbe
stata la Guardia Costiera libica a occuparsi del soccorso. Per questo alla Aquarius
è stato indicato di rimanere in standby e di non avviare nessuna operazione.
Mentre era in standby, la Aquarius ha visto la situazione peggiorare, perché il
gommone sovraffollato iniziava a imbarcare acqua. Alle 12,45 Medici Senza
Frontiere e Sos Mediterranee sono riusciti a negoziare con l’Mrcc, il comando
della Guardia Costiera libica e la nave della Guardia Costiera libica che stava
raggiungendo l’area, ed hanno ottenuto di poter almeno stabilizzare la
situazione distribuendo giubbotti di salvataggio a tutte le persone a bordo e
valutando le loro condizioni mediche. L’infermiera di Medici Senza Frontiere,
avvicinatasi al gommone su un motoscafo veloce (Rhib), ha individuato 39 casi
medici vulnerabili (tra cui un neonato, donne incinte, bambini e le loro
famiglie), che sono stati evacuati sull’Aquarius… Non abbiamo (però) potuto
completare il soccorso. Alle 13,52 la Guardia Costiera libica ha ordinato alla
Aquarius di allontanarsi, con decine di persone ancora sul gommone. Alle 14,09
queste persone sono state prese dalla Guardia Costiera libica e riportate in
Libia”.
Ecco, senza
l’ostinazione degli operatori di Medici Senza Frontiere e di Sos Mediterranee,
che fino all’ultimo hanno cercato di completare il salvataggio, prendendo a
bordo quante più persone possibile, persino quei 39 “casi medici vulnerabili” –
che a quel punto l’Italia non ha più potuto respingere – sarebbero stati
costretti a tornare in Libia come tutti gli altri naufraghi. Magari in un centro
di detenzione come quello di Gharyan.