martedì 22 gennaio 2019

La strage a 50 miglia dalla Libia è solo l’ultima di una lunga, “silenziata” catena?






di Emilio Drudi

E’ stata una strage: almeno 117 migranti morti, tra cui 10 donne e 2 bambini. Uno di appena due mesi. E’ il bilancio dell’ultimo naufragio nel Mediterraneo Centrale. I disperati stipati dai trafficanti sul gommone andato a picco venivano quasi tutti dal Sudan o dall’Africa Occidentale. Tre soltanto i superstiti: due sudanesi e un gambiano. E potrebbe essere solo l’ultima di una serie di tragedie analoghe accadute nelle ultime settimane ma rimaste sconosciute. “Silenziate”. Anche questa, del resto,  scoperta quasi per caso, ha rischiato di finire in un limbo indefinito, nota soltanto ai familiari delle vittime, altri disperati la cui voce viene ascoltata sempre di meno.
Il battello era partito da Gasr Garabulli, 60 chilometri a est di Tripoli. Dopo 10-11 ore di navigazione, più o meno 50 miglia a nord-est di Tripoli, ha avuto un’avaria, cominciando ad imbarcare acqua e ad affondare lentamente. Ed è iniziata la strage: molti sono via via scivolati in mare e le onde li hanno trascinati lontano. L’allarme è scattato nel pomeriggio, quando un aereo militare italiano della missione Mare Sicuro, con base a Sigonella, ha avvistato casualmente il gommone, che non era ormai più in grado di galleggiare. I piloti hanno lanciato due zattere di salvataggio e avvertito la nave Duilio, che si trovava a circa 200 chilometri di distanza. Dall’unità si è levato in volo un elicottero di soccorso che, raggiunta la zona segnalata, ha avvistato e recuperato un uomo in mare e due su una delle zattere di salvataggio. Poco distante flottavano tre salme. Nessuna traccia degli altri. I tre superstiti, tutti in forte crisi di ipotermia, sono stati trasferiti d’urgenza a Lampedusa. Le ricerche condotte fino a notte inoltrata non hanno dato esito.
Nonostante il naufragio sia avvenuto in acque della zona Sar libica, nessun intervento da parte della Marina di Tripoli, tranne l’invio sul posto di una nave mercantile di passaggio. Nient’altro. Lo conferma la nave della Ong tedesca Sea Watch, informata del gommone in difficoltà da Moonbird, il piccolo apparecchio da ricognizione di Humanitarian Pilots, che aveva intercettato i messaggi dell’aereo di Mare Sicuro. Appena saputo dell’emergenza, l’equipaggio si è mobilitato: “Dalla centrale di coordinamento della Guardia Costiera di Roma non ci hanno fornito indicazioni più precise, dicendo che la responsabilità del soccorso era di Tripoli. Allora abbiamo cercato di metterci in contatto con Tripoli, ma nessuno ha risposto alle nostre chiamate, fatte in più lingue”. Sulla base delle prime indicazioni fornite dall’aereo militare, si è parlato di una cinquantina di vittime; poi, secondo l’elicottero della Duilio, di 20. Appena però i tre superstiti sono stati in grado di parlare, hanno dichiarato ai funzionari dell’Oim, a Lampedusa, che erano partiti in 120 e che i loro compagni sono annegati uno dopo l’altro, mentre il gommone affondava. “Siamo rimasti in acqua per ore, senza ricevere alcun soccorso”, hanno riferito i tre ragazzi, che presentano ustioni da benzina, tipiche in questo tipo di naufragi.
E’ una sequenza terribile, che dimostra almeno due cose. Da mesi i governi europei continuano a dire che la Libia sta svolgendo bene il suo compito di ricerca e soccorso nella vastissima zona di mare che si è auto-attribuita, arrivando fino alle soglie di Lampedusa. Gli ultimi “elogi” sono arrivati dal ministro Matteo Salvini per l’Italia e dal premier maltese Joseph Muscat il quale, proprio alla vigilia di questa ennesima tragedia, ha dichiarato che “la Guardia Costiera libica sta svolgendo un ottimo lavoro”. Elogi “pelosi” e interessati, fatti probabilmente per giustificare la chiusura dei porti e la “guerra” che ha costretto quasi tutte le Ong a sospendere le operazioni di assistenza e soccorso in mare. In realtà, però, non solo a carico della Guardia Costiera di Tripoli è in corso un’inchiesta da parte della Corte Penale dell’Aia per tutta una serie di soprusi nei confronti dei migranti, ma, soprattutto, la zona Sar libica non è che una finzione. Tripoli non ha alcun requisito per poterla gestire: non una flotta né squadre aeree adeguate a operazioni di ricerca e recupero, non una struttura operativa di coordinamento centrale e meno che mai sezioni locali nei porti principali. E, in primo luogo, la Libia non può essere considerata un porto sicuro, dove sbarcare i naufraghi che, una volta a terra, vengono rinchiusi in autentici lager. Anzi, quei naufraghi ne sono appena fuggiti, come evidenziano ormai decine di rapporti dell’Onu, dell’Unhcr, dell’Oim e di tutte le principali Ong internazionali. E non a caso proprio diverse Ong e altri gruppi umanitari sono stati tra i primi a insorgere dopo questa nuova tragedia, evidenziando che se la Guardia Costiera libica fosse intervenuta subito, forse il conto dei morti sarebbe stato meno doloroso, anche se gli stessi superstiti hanno dichiarato che avrebbero preferito annegare piuttosto che tornare in Libia: “Nessuno – è la denuncia – si è accorto di nulla fino a quando il gommone non è stato avvistato da un aereo italiano. Per di più, 50 miglia si coprono in meno di tre ore con una motovedetta. E’ l’ennesima dimostrazione che la Marina di Tripoli non è affidabile: non è in grado di gestire una zona Sar e averle delegato totalmente il controllo e i soccorsi in mare significa rendersi complici di tragedie come questa”.
Ma probabilmente – ed è qui il secondo punto – si è creato tacitamente un clima per cui la cosa fondamentale non è che stragi del genere non accadano più, ma solo che non si scoprano e, dunque, non se ne parli. Induce a crederlo il fatto che ormai da diverse settimane è caduto come un velo di totale “oscuramento” su due episodi, altre due “spedizioni” di migranti dalla Libia, che si teme sempre di più siano finite in tragedia. Con oltre cento vittime.
Il primo è la scomparsa di una grossa barca in vetroresina di cui non si ha più traccia da quasi un mese. La partenza è avvenuta da Homs la sera del 22 dicembre, poco dopo le 18. A bordo c’erano 94 profughi (87 eritrei, 4 egiziani e 3 bengalesi), tra cui alcune donne e due bambini, uno di tre anni e l’altro di pochi mesi. L’ultimo contatto risale alle undici circa del giorno 23. Così almeno ha riferito ai familiari dei migranti il trafficante che ha organizzato la “spedizione”, un eritreo di nome Abduselam Ferensawi, asserendo di aver seguito la rotta sino a quando, da bordo, gli avrebbero comunicato che stavano per essere salvati “da una grossa nave”. In realtà non si è mai trovata traccia né di questa nave, né tantomeno della barca dei migranti. E da quel momento in poi Abduselam avrebbe risposto alle domande sempre più pressanti dei familiari con una serie di ricostruzioni palesemente false, come quella che l’intero gruppo sarebbe stato salvato dalla nave della Ong spagnola Open Arms o che addirittura sarebbe arrivato a Gibilterra. Salvo poi cambiare versione e dire che la barca era stata intercettata dalla Guardia Costiera libica e gli occupanti condotti in un centro di detenzione. Anche questa, però, appare un’invenzione: “Se i nostri ragazzi fossero stati riportai in Libia – insistono alcuni dei familiari – certamente ce lo avrebbero fatto sapere. Invece non abbiamo più alcuna comunicazione, da parte loro, dal 22 dicembre, quando ci hanno informato che stavano per imbarcarsi”. Ecco: dal 22 dicembre è passato un intero mese, ma nessuno ha fornito risposte. Anzi, di questo mistero non si è neanche mai parlato.
Il secondo episodio è analogo. Riguarda una barca salpata il 30 dicembre da Zawija, uno dei principali punti d’imbarco usati dai trafficanti, 50 chilometri a ovest di Tripoli. A bordo c’erano 27 giovani, tutti eritrei. La “traversata”, in questo caso, è stata organizzata da un libico che, per quanto ne sanno i familiari dei ragazzi, si chiamerebbe Haisem. Anche in questo caso, l’ultimo contatto risale grossomodo al momento della partenza. Dalle ore successive è subentrato il silenzio più assoluto. Si potrebbe ipotizzare che il battello sia stato intercettato dalla Marina di Tripoli, ma le famiglie dei 27 profughi tendono ad escluderlo: “Ci sono stati anche in passato alcuni giorni di silenzio ma poi qualcuno si è sempre fatto vivo per rassicurarci. Ora invece sono già passate tre settimane e non abbiamo saputo più nulla”. “Nella loro voce – ha riferito il rappresentante del Coordinamento Eritrea Democratica, a cui alcuni familiari si sono rivolti per chiedere aiuto – si avvertiva evidente il dolore e la preoccupazione, anche se continuano ad aggrapparsi alla speranza che i loro ragazzi siano ancora vivi e prima o poi vengano ritrovati”.
E’ evidente, però, che più passa il tempo, più quella speranza diventa flebile. Anche perché in genere si sa subito quando una barca di migranti viene fermata in mare e costretta a rientrare in Libia. L’ultimo caso risale al 31 dicembre, quando oltre 200 migranti sono stati bloccati ad alcune decine di miglia dalla costa e poi consegnati al centro di detenzione di Homs, dal quale quasi tutti si sono subito messi in contatto con le famiglie per segnalare che la loro fuga era stata interrotta. Del resto, anzi, la stessa Marina di Tripoli si affretta sempre a segnalare le barche che riesce a intercettare, forse per dimostrare che sta svolgendo bene il compito di gendarme anti immigrazione che le è stato assegnato dall’Europa.
C’è da chiedersi, allora, come mai l’Unione Europea ma in primo luogo l’Italia – visto il patto siglato con Tripoli nel febbraio 2017 – non pretendano almeno verità e chiarezza su episodi come questi. Verità e chiarezza sulla sorte di centinaia di giovani in fuga per la vita. Come mai, cioè, l’Unione Europea e l’Italia non abbiano nulla da dire su tanto silenzio. Nulla neanche dopo che, dal 3 gennaio in poi, sulla costa del golfo della Sirte hanno cominciato ad affiorare cadaveri su cadaveri: finora almeno 25, senza che nessuno abbia neanche tentato di spiegare da dove provengano. Da quale naufragio “silenziato” provengano.

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