Con la firma del 16 settembre a Gedda, l’Eritrea sembra aver perso il suo maggior nemico: l’Etiopia. Sono passati due anni di guerra e 18 di guerra fredda. Il piccolo paese che si affaccia sul Mar Rosso si è sigillato nei suoi confini diventando la peggiore dittatura d’Africa. Cosa cambierà per i suoi abitanti? Ci saranno aperture? Intanto sembra si sia innescato un effetto domino che potrebbe portare a un cammino verso la pace in tutta l’area.
«Se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi». Sostituite il principe Tancredi a Isaias Afewerki, Salina ad Asmara e il gioco è fatto. Nulla meglio del celebre romanzo «Il gattopardo» di Giuseppe Tomasi di Lampedusa riesce a spiegare l’attuale situazione dell’Eritrea. La pace con l’Etiopia sembra aver portato un grande cambiamento nel piccolo paese affacciato sul Mar Rosso ma, al momento, poco è davvero mutato rispetto al passato. Il regime è ancora lì, intatto. La sua presa sulla politica e sulla società è ancora fortissima. La Costituzione non è stata emanata. Non esiste un sistema giudiziario indipendente. I più elementari diritti umani e civili non sono tutelati. Le forze armate non sono state smobilitate. Pochi detenuti politici sono stati liberati. Certo, l’intesa con Addis Abeba ha portato a un miglioramento delle condizioni di vita, perché nel paese sono arrivate più merci.
Economia in ripresa
La proposta di pace avanzata il 6 giugno dal premier etiope Abiy Ahmed al presidente eritreo Isaias Afewerki ha spiazzato l’Eritrea. Negli ultimi vent’anni lo stato di non belligeranza con Addis Abeba, seguito al conflitto del 1998-2000 tra i due Paesi, era servito al regime di Asmara per giustificare il suo potere. Invocando la «minaccia etiope», Afewerki ha imposto un regime di rigida autarchia economica accompagnata da una forte stretta politica.
Con la pace firmata il 9 luglio e poi ratificata il 16 settembre a Gedda (Arabia Saudita), l’Eritrea ha perso il suo principale nemico e, con esso, ogni pretesto per non introdurre garanzie democratiche. In realtà, nel paese poco è cambiato. Le piccole trasformazioni sono avvenute soprattutto in campo economico. «Con l’apertura delle frontiere con l’Etiopia, prevista dagli accordi di pace – osserva Erminia Dell’Oro, scrittrice italo-eritrea -, i prezzi dei generi alimentari e di prima necessità sono fortemente calati. Il teff, cereale base della cucina eritrea ed etiope, fino a pochi mesi fa costava moltissimo e la gente soffriva la fame, perché doveva pagare cifre elevate. Oggi il costo è calato, nei mercati ce n’è maggiore disponibilità grazie alle importazioni dall’Etiopia. Da anni, la mia famiglia voleva rifare la facciata della casa, ma aveva soprasseduto perché il cemento e gli intonaci costavano troppo. Adesso i prezzi sono calati e stiamo progettando di mettere in campo i lavori».
La povertà però è diffusa. «Servirebbero politiche che favoriscano la reindustrializzazione del paese – spiega una giovane asmarina che vuole mantenere l’anonimato -. Il paese deve recuperare la sua vocazione commerciale. Pensiamo solo all’importanza dei nostri porti, in particolare Massaua e Assab. Se ben sfruttati possono diventare lo sbocco al mare per tutto il Corno d’Africa. L’Eritrea deve però investire per ricostruire quel tessuto industriale e artigianale un tempo così fiorente (cotonifici, birrifici, aziende artigiane, ecc.). Solo questo ci può garantire un flusso costante di entrate e maggiore occupazione».
Attualmente in Eritrea non c’è lavoro. La povertà è palpabile. «Girando per le strade si vedono mendicanti che chiedono l’elemosina – continua la scrittrice -. Un tempo, una cosa simile era impensabile. Molti giovani sono fuggiti e le famiglie sono composte dai nonni che, tra mille difficoltà, crescono i nipoti».
La povertà è evidente, anche se si guardano i palazzi e le strade di Asmara. «La nostra capitale – conclude la ragazza asmarina – è come una donna che da giovane era bellissima ma è invecchiata male e oggi è piena di rughe. Le strade sono dissestate e piene di buche. Gli edifici, un tempo splendidi, frutto dei progetti dei migliori architetti italiani, dimostrano i segni degli anni. Vent’anni di stato di guerra hanno lasciato segni profondi. Ma sono convinta che, appena ci saranno le condizioni, Asmara tornerà al suo antico splendore».
John Thys / AFP
Stallo politico
La politica però rimane un tabù. Nelle strade, nei luoghi pubblici, nelle scuole non si parla del presidente, del governo, del partito di maggioranza. C’è paura. L’apparato repressivo, che fa leva su una capillare rete di informatori, non è stato smantellato. «Nel paese non c’è dibattito – continua Erminia -. Tra la gente comune c’è una grande ammirazione per il premier etiope Abiy Ahmed. Un primo ministro giovane, dinamico, che ha saputo superare una crisi politica lunga vent’anni. Di Isaias Afewerki si parla poco o nulla. C’è la speranza che sappia guidare una trasformazione del paese. Anche se molti ne dubitano».
I problemi degli ultimi vent’anni sono ancora tutti sul tavolo. La Costituzione democratica, redatta alla fine degli anni Novanta, non è mai entrata in vigore. Quindi non c’è una Carta che garantisca i più elementari diritti civili. Nel paese non si tengono regolari elezioni, non c’è un parlamento e sistema giudiziario indipendente. Alcuni oppositori sono stati rilasciati, ma la maggior parte sono ancora in una delle 350 prigioni del paese. «Quello di Asmara – sottolinea Mussie Zerai, sacerdote dell’eparchia di Asmara – è uno dei regimi politici più duri del mondo, una dittatura che ha soppresso ogni forma di libertà, annullato la Costituzione del 1997, soppresso di fatto la magistratura, militarizzato l’intera popolazione per quasi tutta la vita. Una dittatura che ha creato uno stato prigione. Anche di recente sono stati arrestati oppositori, sono state chiuse scuole cattoliche e islamiche, sono stati sbarrati otto centri medici e ospedali cattolici, mentre il patriarca della chiesa ortodossa Abune Antonios, fermato nel 2004, si trova ancora agli arresti dopo ben 14 anni».
Negli anni, il regime ha arruolato migliaia di ragazzi e li ha schierati alla frontiera con l’Etiopia. Questi militari di leva, per i quali non era e non è prevista una data certa di congedo, non sono ancora stati smobilitati. «La pace – spiega un altro religioso che vuole mantenere l’anonimato – non ha portato a uno snellimento delle forze armate. Nonostante la minaccia etiope sia venuta meno, i reparti sono ancora a pieno organico. Nessun giovane è tornato a casa. La gente inizia a chiedersi perché. Che senso ha tenere una struttura così grande e costosa?».
E le persone continuano a fuggire. Se in passato si scappava di nascosto, attraversando la frontiera di notte per non farsi bloccare dalle guardie di confine, oggi lo si fa alla luce del sole. Grazie all’apertura della rotta aerea Asmara-Addis Abeba, molti eritrei si recano in Etiopia e da lì verso altri paesi africani o verso l’Europa. «L’Eritrea – ci dice Tekle Haile, eritreo, storico oppositore del regime, da anni in esilio in Italia – ha siglato un trattato di pace di cui non si conoscono i contenuti. L’opposizione, oggi frazionata, ma che nei prossimi mesi darà vita a un unico soggetto, teme che il nostro paese sia stato svenduto all’Etiopia. Che ne sarà dei nostri porti? Delle nostre strade? Dei nostri ponti? Della nostra economia? Non vorremmo che, dopo trent’anni di guerra di indipendenza, un altro conflitto durato tre anni seguito da vent’anni di dura non belligeranza, ora l’Eritrea torni a essere una sorta di provincia di Addis Abeba. Questa incertezza economica e questo regime così oppressivo fanno paura e la gente continua a fuggire».
Eduardo Soteras / AFP
Chi è l’artefice del cammino di pace
Abiy Ahmed: come ti rivolto il Corno
La pace tra Eritrea ed Etiopia ha un protagonista: è il premier etiope Abiy Ahmed. È stato lui l’artefice dell’apertura nei confronti di Asmara. Ma questo è solo uno dei tasselli della politica di riforma con la quale sta trasformando nel profondo il suo paese.
Multietnico
Abiy Ahmed, 42 anni, cristiano riformato, ma figlio di un papà musulmano e una mamma cristiana ortodossa, è un oromo, appartiene cioè all’etnia maggioritaria, sebbene sempre discriminata. Arrivato al potere, nell’aprile 2018 ha avviato una serie di grandi cambiamenti. Oltre ad annunciare, fin dal suo primo discorso tenuto il 2 aprile, la necessità di un dialogo con l’Eritrea, ha promosso una riconciliazione nazionale, ordinando il rilascio di migliaia di prigionieri politici e legalizzando i gruppi di opposizione, a lungo definiti «organizzazioni terroristiche». In campo economico ha promesso di rilanciare l’economia etiope (che viaggia già a percentuali di crescita intorno all’8-9%) scommettendo sul sistema produttivo e privatizzando alcune imprese statali. Anche la pace con l’Eritrea potrà avere profondi risvolti in campo economico: l’Etiopia potrà infatti sfruttare i porti di Massaua e di Assab, più vicini e meglio collegati di quelli di Gibuti e Port Sudan.
Pace nel Corno d’Africa
Proprio la pace con l’Eritrea ha creato una sorta di effetto domino che, dopo anni di forti tensioni, sta riportando stabilità in tutto il Corno d’Africa. Dopo l’intesa fra Asmara e Addis Abeba, il premier Abiy Ahmed e il presidente Isaias Afewerki hanno infatti aperto un tavolo di trattativa con il presidente somalo Mohamed Abullahi Mohamed «Farmajo». Da questo tavolo, il 6 settembre è nato il Joint high level committee, una commissione formata dai tre governi che mira al rafforzamento dei loro legami politici, economici, sociali e culturali, oltre che garantire il perseguimento e il mantenimento della pace e della sicurezza in tutta l’Africa orientale. Un passo avanti importantissimo se si tiene conto che la Somalia è stata per anni un teatro in cui Eritrea ed Etiopia si sono scontrati per interposta persona. Non è un caso che, nel 2009, l’Onu ha imposto ad Asmara l’embargo sull’importazione delle armi per il sospettato supporto eritreo ai militanti islamisti somali di Al Shabaab (milizia da sempre feroce avversaria dell’Etiopia).
La creazione di questa commissione ha rappresentato la base per porre un altro tassello della stabilità regionale: la pace tra Eritrea e Gibuti. Le tensioni tra i due paesi risalgono al 1996, quando l’ex Somalia francese ha accusato Asmara di un attacco presso il villaggio di Ras Doumeirah. L’episodio non si è trasformato in guerra aperta, ma le tensioni si sono trascinate fino al 2010 quando, grazie alla mediazione del Qatar, le due nazioni sono arrivate a un accordo sulle dispute territoriali. Nel 2017 le tensioni sono tornate ad accendersi quando Gibuti si è apertamente schierata a favore della coalizione saudita contro il Qatar, mentre l’Eritrea ha continuato a professarsi amica di Doha. Proprio grazie alla mediazione di Etiopia e Somalia, la frattura è stata ricomposta e a metà settembre i presidenti eritreo Isaias Afewerki e gibutino Ismail Omar Guelleh hanno siglato un’intesa di collaborazione.
Diffidenze
È ormai chiaro che le aperture di Abiy Ahmed hanno dato il via a un processo di distensione che va oltre la stessa Etiopia e investe l’intera regione. Una regione, il Corno d’Africa, che negli ultimi 25 anni ha conosciuto guerre civili lunghissime (Somalia) e tensioni tra stati (Gibuti, Eritrea ed Etiopia) che hanno frenato la crescita economica e sociale.
Non tutti però apprezzano la politica di apertura del premier di Addis Abeba. La diffidenza arriva dall’etnia tigrina (che in Etiopia rappresenta solo il 7% della popolazione) che ha gestito il potere dall’inizio degli anni Novanta, ma anche dagli apparati di sicurezza e da alcune frange delle forze armate. Riuscirà Abiy Ahmed a superare queste resistenze? La popolazione è dalla sua parte. E anche la comunità internazionale, se è vero che il Wall Street Journal lo ha definito «la più grande speranza per il futuro democratico dell’Etiopia».
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