di Emilio Drudi
Li hanno bloccati
nel Canale di Sicilia, in acque internazionali, mentre tentavano di raggiungere
l’Italia su un vecchio barcone da pesca. Erano in 76, quasi tutti giovani
eritrei e tutti richiedenti asilo, con numerose donne e bambini. Il più piccolo
di due anni appena. Ad intercettarli – rileva l’agenzia di assistenza Habeshia,
citando il racconto di quei disperati – sono stati “mezzi navali battenti
doppia bandiera, quella libica e quella italiana”. Una motovedetta ha
accostato, tagliando loro la rotta. Non c’è stato scampo: quella carretta
carica di umanità in cerca di scampo e di comprensione è stata costretta a
virare di bordo e a navigare, scortata, fino a una piattaforma petrolifera
all’interno delle acque libiche, dove l’intero gruppo di migranti è stato preso
in consegna dalla polizia di frontiera, che lo ha condotto nel porto di
Tripoli. Neanche il tempo di sbarcare e i militari hanno trasferito tutti in un
centro di detenzione ancora in fase di costruzione, a Sibrata Mentega Delila,
una località nei sobborghi di Tripoli. Su di loro, adesso, grava la minaccia di
essere riconsegnati al paese d’origine. Per molti è l’equivalente di una
condanna a pesanti anni di carcere o persino alla fucilazione: fuggiti
dall’Eritrea per non dover fare la guerra nell’esercito del dittatore Isaias Afewerki,
sono considerati colpevoli non solo di emigrazione clandestina ma di diserzione
o, peggio ancora, di tradimento.
E’ accaduto il 29
giugno. La denuncia di don Mussie Zerai, presidente di Habeshia, è
circostanziata. I 76 profughi gli hanno comunicato anche i dati della
motovedetta che li ha bloccati in alto mare: si chiama Napolyo 25. Loro, i 76
prigionieri, non hanno dubbi: sono convinti di essere stati intercettati da un
pattugliamento congiunto italo-libico. Inducono a crederlo quelle due bandiere,
libica e italiana, che sventolavano sui mezzi navali incrociati: un particolare
su cui si dicono pronti a giurare.
“Il problema più
urgente per questi disperati – rileva don Zerai – è quello di evitare la
deportazione nel paese da cui sono fuggiti. E’ questa la prima e più pressante
richiesta che hanno comunicato per telefono. Noi, come Habeshia, prestiamo a
tutti loro la nostra voce per gridare al mondo che nel Mediterraneo e in Libia
sono tutt’oggi violati i diritti dei richiedenti asilo”.
La conferma di come
sia ignorato o soffocato l’urlo di aiuto dei profughi e, più in generale,
l’inferno che si vive nelle carceri e nei centri di detenzione in Libia, viene
anche da una serie di testimonianze che, raccolte per telefono e rese note
dalla Fondazione Integra/Azione, sono state pubblicate di recente dalla
Repubblica online. Come quella di Debesay, un ragazzo eritreo arrestato a
Bengasi mentre, insieme ad altri giovani, cercava un imbarco per l’Italia, dove
è rifugiata sua madre. “Qui in carcere – ha raccontato – siamo disperati,
frustrati. Abbiamo provato a uscire in tutti i modi, ma non ci siamo riusciti
nemmeno pagando le guardie. Scappare non è possibile, se provi a evadere vieni
punito, picchiato sotto le piante dei piedi, un dolore atroce. In una cella di 30
metri quadrati siamo accalcati in più di 60, dormiamo per terra, non ci sono
brande ma solo materassi sporchi o stuoie sul pavimento. Il mangiare, il più
delle volte, è solo pane secco e acqua. Se stai male non ci sono medici e
medicine: il tuo destino è l’abbandono e la morte… Non so che pensare, la
speranza sta svanendo”.
Altrettanto
drammatica la testimonianza di Mogos, un diciassettenne originario di Asmara,
fuggito da un campo di addestramento dell’esercito eritreo ed ora detenuto nel
carcere di Gianfuda: “Abbiamo viaggiato per 12 giorni nel deserto. Eravamo in
50 ammassati su un camion. Vicino al mare, verso Tripoli, quando sembrava
fatta, i militari libici mi hanno preso insieme ai ragazzi che erano con me. La
cosa più dura è non vedere il futuro, un’uscita da questo viaggio infinito. I
pochi che escono dalle prigioni lo fanno per lavorare”. Alcuni detenuti –
spiega infatti la Fondazione Integra/Azione – vengono comprati da ricchi libici
come forza lavoro a costo zero per le proprie aziende o fattorie. Sempre meglio
che il carcere, ma questa “fortuna” è riservata soltanto a chi ha il
passaporto, subito sequestrato al momento dell’ingaggio per scongiurare
qualsiasi tentazione di fuga. “Noi eritrei il passaporto non l’abbiamo e così
non possiamo uscire neanche come lavoratori schiavi – dice Mogos – Per noi non
c’è soluzione. Nessun futuro. A 17 anni sono bloccato qui all’inferno”. Anwar è
un etiope di etnia oromo, la regione del sud del paese dove è molto forte
l’opposizione al regime del presidente Meles Zenawi: “Sono uscito dalla
prigione di Gianfuda da quasi un mese, mi ha riscattato un libico che aveva
bisogno di manodopera. Poi, pagando, sono riuscito a continuare il viaggio
verso il mare… Sono stato prigioniero prima a Kufra e poi a Gianfuda. E’ stato
terribile: ci picchiavano regolarmente e puntualmente ogni sera, non avevamo
cibo, non c’erano medicine né dottori. In Libia non ci sono diritti, non c’è
governo”.
Storie analoghe sono
state raccontate da tanti altri. Come Aroon e Meron, eritrei, o Salua, somala. Urla
disperate dall’inferno. Ma l’Italia ha ritenuto di rinnovare con la Libia il
trattato di amicizia firmato a suo tempo da Gheddafi e Berlusconi. Senza porsi
neanche il problema di pretendere prima, almeno, dal governo rivoluzionario, la
garanzia del rispetto dei diritti umani. Anzi, secondo quanto denunciato più
volte da Amnesty International, per il contrasto dell’emigrazione clandestina,
sono stati ribaditi anche i respingimenti indiscriminati in mare. Questo
capitolo è stato sottoscritto il 3 aprile dal ministro italiano dell’interno Maria
Cancellieri e da quello libico Fawzi Al Taher Abdulali. Il testo integrale non
è noto ma, stando alle indiscrezioni pubblicate dalla stampa, sembra pieno di
equivoci. Come il punto relativo alla costruzione di “un centro sanitario a
Kufra per garantire i servizi sanitari di primo soccorso a favore
dell’immigrazione illegale”. A Kufra, in effetti, arrivano migliaia di migranti
da tutta la regione sub sahariana e dal Corno d’Africa. “Ma – denuncia Amnesty
– non è mai stato un centro sanitario, né tantomeno un centro di accoglienza: è
un centro di detenzione durissimo e disumano. E i cosiddetti centri di
accoglienza di cui si sollecita il ripristino, chiedendo la collaborazione
della Commissione Europea, hanno a loro volta funzionato come centri di
detenzione, veri e propri luoghi di tortura. Ciò, nella situazione attuale,
significa che l’Italia offre collaborazione a mettere a rischio la vita delle
persone che si trovano in Libia”.
C’è da chiedersi se
non nascondano lo stesso equivoco e lo stesso rischio progetti come il “centro
di addestramento nautico” o il “programma di addestramento delle forze di
polizia”. Si tratta di eufemismi per i respingimenti in mare? I ministri degli
esteri Giulio Terzi e della cooperazione Andrea Riccardi lo hanno escluso. Ma
la denuncia arrivata ora da Habeshia per la vicenda dei 76 richiedenti asilo
eritrei rispediti di forza a Tripoli, sembra confermare che in realtà non è
cambiato nulla dai tempi di Gheddafi anche nelle tecniche di “pattugliamento”
del Canale di Sicilia.
Il punto è,
probabilmente, che si è andati a rinnovare un “accordo al buio” con un paese
che non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status di
rifugiato politico, sicché non si fa alcuna distinzione tra richiedenti asilo e
migranti. Poco importa se arrivano a migliaia eritrei, etiopi, somali, sudanesi
che fuggono da guerra e persecuzioni. “In Libia la situazione dei migranti –
denuncia Amnesty – oggi è peggiore che sotto il regime”. Ma il governo Monti
non sembra essersene accorto.
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