di Emilio Drudi
Nelle carceri
libiche migranti, profughi e richiedenti asilo continuano a morire. Soprusi,
maltrattamenti, stupri, repressione feroce di ogni tentativo di protesta.
Uccisioni anche a freddo. Lo denuncia un dossier dell’agenzia di assistenza
Habeshia. Nell’indifferenza della comunità internazionale. Dell’Europa e
dell’Italia, soprattutto. Dell’Italia che ha rinnovato e mantiene in vita, con
il governo rivoluzionario, gli accordi sanciti in passato da Berlusconi e dal
dittatore Gheddafi. Il “trattato di amicizia” generale è stato firmato dal
premier Mario Monti il 20 gennaio scorso, con l’intesa di elaborare capitoli
specifici per alcuni problemi particolari, come il controllo dell’emigrazione.
Ignorati tutti gli appelli, come quello dello storico Angelo Del Boca e di
varie organizzazioni umanitarie, di subordinare questa ritrovata “amicizia” e
collaborazione alla garanzia del rispetto dei diritti umani nel Paese.
Nessun cambiamento
di rotta neanche dopo che, il 23 febbraio, la Corte di giustizia europea ha condannato
l’Italia per la politica dei respingimenti indiscriminati in mare nei confronti
dei migranti, voluta dal ministro leghista Roberto Maroni con il governo
Berlusconi. Anzi, il 3 aprile, il nuovo ministro dell’interno Anna Maria
Cancellieri, ha firmato un nuovo accordo sull’emigrazione che, rimasto
inizialmente semisegreto, si è rivelato quasi la fotocopia di quello “leghista”
dei respingimenti e della conseguente consegna dei profughi alle carceri
libiche. Il Parlamento non ne ha discusso e la stampa non ne ha parlato,
nonostante nel frattempo, il 29 marzo, fosse arrivata una seconda condanna per
l’Italia, questa volta da parte del Consiglio d’Europa, per la morte di 63
richiedenti asilo abbandonati alla deriva su un gommone nel Canale di Sicilia. A
scoprirne i contenuti è stata Amnesty
International, che il 12 luglio ha lanciato
una campagna per chiederne la revoca. Pochi giorni prima, il 29 giugno, erano
emersi concretamente gli effetti di questa rinnovata intesa, con il blocco in
mare, da parte di navi militari italiane e libiche, di un barcone con a bordo
76 richiedenti asilo eritrei e somali, consegnati poi alla polizia di frontiera
e trasferiti nel centro di detenzione di Sibrata Mentega Delila, nei sobborghi
di Tripoli. Tra loro, anche donne incinte e due bambini di poco più di un anno.
Il 4 luglio, il
quotidiano La Repubblica, con una
decina di testimonianze raccolte sul campo, vere e proprie “voci dall’inferno”,
ha testimoniato quali sono le condizioni di vita dei profughi nei lager libici.
Sibrata Mentega Delila non fa eccezione. Il dossier di Habeshia, ora, conferma
ed amplia quelle “voci dall’inferno”, raccontando il dramma di centinaia di
profughi schiavizzati, torturati, uccisi. E, in più, a rischio di deportazione:
le autorità libiche vogliono riconsegnarli ai paesi dai quali sono fuggiti per
sottrarsi a persecuzioni e guerra, pur essendo noto che in molti casi – per gli
eritrei, ad esempio – rientrare dopo aver tentato l’espatrio clandestino
comporta la condanna a lunghi anni di carcere o addirittura alla morte, specie
se si tratta di militari o giovani comunque in età di leva.
Il dossier prende in
considerazione tre centri di detenzione: Homs, Tuewsha e Bengasi. La situazione
è pressoché identica in tutte e tre le prigioni: un inferno di privazioni e soprusi,
violenze continue, negazione di ogni diritto. “Già aver messo in carcere
giovani, donne e bambini ‘colpevoli’ solo di essere fuggiti in cerca di libertà
e di una vita migliore, è un abuso enorme – denuncia don Mussie Zerai,
presidente di Habeshia – Ma addirittura non si rispetta nemmeno la loro dignità
umana: non sono detenuti, sono schiavi in balia di aguzzini che ne dispongono
come vogliono”. Gli episodi riferiti carcere per carcere sono eloquenti.
Homs.
Circa 200 detenuti. “In questi giorni – rivela Habeshia – i militari libici
stanno costringendo i profughi a farsi registrare presso le ambasciate dei
paesi d’origine. E’ il preludio all’espulsione: la riconsegna allo Stato che li
perseguitava al punto da costringerli a scappare. Si tratta di un atto molto
grave, a cui i profughi sono costretti a furia di violenze e in contrasto con
ogni diritto internazionale umanitario. La Libia sta violando apertamente, in
particolare, la convenzione dell’Unione Africana che tutela i diritti dei profughi
e dei richiedenti asilo politico. Tra 150 e 200 uomini e donne vedono
violentata ogni giorno la loro dignità umana. Subiscono discriminazioni per
motivi religiosi e soprattutto gli uomini vengono picchiati continuamente. Alle
donne malate o in stato di gravidanza, bisognose di controlli medici, viene
negato qualsiasi tipo di assistenza. Ogni accenno di protesta viene punito.
Nelle settimane scorse sono stati uccisi quattro giovani: tre eritrei e un
somalo. Un ragazzo eritreo è stato colpito a freddo con un coltello dai
militari mentre dormiva, forse per ‘punizione’. Contro questa serie di soprusi
le donne, alle quali viene impedito anche di lavarsi, hanno organizzato uno
sciopero della fame. La protesta è stata repressa selvaggiamente. I militari se
la sono presa con un ragazzo come capro espiatorio: prima lo hanno pestato di
botte e poi gli hanno sparato, senza alcuna ragione. Vedendo quella scena
orribile, molte donne hanno iniziato a urlare e i militari, per ridurle al
silenzio, hanno picchiato anche loro e sparato numerosi colpi d’arma da fuoco”.
Tuewsha. Oltre 600 profughi. “E’ uno dei centri di detenzione più affollati –
rileva Habeshia – Vi sono rinchiusi 550 uomini (500 somali e una cinquantina di
eritrei) e sessanta donne: 50 somale e dieci eritree. Tre delle giovani eritree
sono in stato di gravidanza: una ha già superato l’ottavo mese. Tutti, incluse
le donne incinte, soffrono per la mancanza di cibo e di acqua. Acqua per
l’igiene personale ma persino quella potabile, per potersi almeno dissetare.
Molti sono lì da oltre sei mesi: sei mesi di continui maltrattamenti. Chi ha
tentato la fuga ed è stato ripreso, ha subito pesanti sevizie da parte dei
militari di guardia: uno ha perso un occhio per le percosse, altri lamentano
invalidità fisiche permanenti”.
Bengasi. Quattrocento prigionieri. “Questo centro – si legge nel dossier – è
gestito teoricamente dalla ‘Mezzaluna Rossa’, ma in realtà comandano i
miliziani armati della rivoluzione, che entrano quando vogliono e dispongono
dei detenuti a loro piacimento. Diverse donne sono state violentate e almeno
140 uomini sono stati portati via per farli lavorare come schiavi. Anche i più
giovani, ragazzini minorenni, non sfuggono alle botte e alle torture. Secondo
alcuni testimoni, anzi, i miliziani avrebbero inventato un gioco orribile
proprio usando questi ragazzini: una sorta di tiro a segno con bersagli umani.
Eviterebbero di colpirli ma anche così, se è vero, resta una forma di tortura
orrenda. Per puro, sadico divertimento”.
Di fronte a tutto
questo, don Mussie Zerai lancia un ennesimo appello alla comunità
internazionale. All’Unione Europea perché intervenga sul governo libico.
All’Italia perché faccia sentire la propria voce, sospendendo intanto
l’efficacia dei trattati appena firmati. Alle agenzie delle Nazioni Unite
perché tutti i profughi detenuti vengano liberati al più presto e trasferiti in
centri di accoglienza gestiti dalla Commissione Onu per i rifugiati. “Da una
Libia ‘democratica’ – protesta don Zerai – ci aspettavamo maggiore rispetto dei
diritti umani e una seria lotta contro il razzismo nei confronti degli
Africani: una lotta serrata contro ogni forma di discriminazione per motivi
religiosi, etnici, razziali. Non è in alcun modo comprensibile questo
accanimento contro i profughi. Ed appare assurdo, assordante il silenzio della
comunità internazionale”.
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