mercoledì 28 novembre 2012

L'odissea dei profughi nelle Carceri Libici


di Emilio Drudi


Don Mussie Zerai, il presidente dell’agenzia Habeshia, lo denuncia da quasi due anni: i 22 centri di detenzione libici, quelli che il governo italiano si ostina a considerare centri di accoglienza, sono lager dove migliaia di profughi sub sahariani sono tenuti prigionieri in condizioni inumane, lasciati in balia di militari violenti che li maltrattano, puniscono a bastonate il minimo cenno di protesta, negano ogni forma di assistenza, non di rado violentano le donne. “Ogni giorno – racconta don Zerai – riceviamo notizie di questo genere e richieste di aiuto disperate”. Rapporti analoghi sono arrivati a più riprese da Amnesty e da altre organizzazioni internazionali. Nessuno, finora, ha chiesto spiegazioni e richiamato alle sue responsabilità la Libia. Né qualcuno ha sollecitato il governo rivoluzionario a firmare finalmente, dopo oltre sessant’anni, la convenzione di Ginevra del 1951 sui diritti dei rifugiati. Non lo ha fatto, finora, neanche l’Italia. Eppure il governo Monti in febbraio ha rinnovato con Tripoli il trattato generale di amicizia e, due mesi dopo, il 4 aprile, ha ribadito l’accordo per il controllo dell’emigrazione, delegato di fatto alla polizia libica.
Ora arriva l’ennesima conferma di come quei centri di detenzione sparsi in tutta la Libia siano un’autentica emergenza umanitaria. Un’emergenza che, a quanto pare, Palazzo Chigi continua a non voler vedere, ribadendo la scelta che l’ha portato a sottoscrivere al buio i nuovi accordi, senza alcuna garanzia di tutela per profughi e migranti. “Ieri mattina – rivela don Zerai – ci sono pervenute altre informazioni terribili dal centro di detenzione di Kofia- Benghazi. Un gruppo di profughi, fra cui una donna al quarto mese di gravidanza e suo marito, sono stati prelevati dal centro gestito dalla Mezzaluna Rossa, a Bengasi, e portati nel piccolo carcere di Ala Lamayr. Poco dopo, nove di loro, inclusa la donna incinta, sono stati trasferiti nel carcere a Kofia-Benghazi, dove è iniziato un autentico calvario: maltrattamenti e percosse crudeli senza alcun motivo. La donna è stata colpita così duramente da provocarle un aborto. Ha perso molto sangue, ma gli unici a cercare di prestarle soccorso sono stati i compagni. Le guardie carcerarie non hanno mosso un dito per aiutarla. E non si tratta di un caso isolato. Nel carcere di Ganfuda, a Bengasi, sono centinaia i profughi abbandonati a se stessi. Hanno solo quello che indossano. Non una maglietta di ricambio, pochissimo cibo, niente medicinali. E, per di più, tenuti in alcuni stanzoni, al buio, per settimane. Vari testimoni hanno riferito che li fanno uscire e viene prestata loro un minimo di attenzione soltanto quando arriva qualche delegazioni in visita ufficiale. Poi la tortura ricomincia. Nel centro di detenzione di Shurman ci sono giovani, uomini e donne, bisognosi di cure mediche. Tre sono in gravi condizioni, ma non ricevo assistenza. Perché fosse dato loro almeno un antidolorifico, hanno dovuto fare lo sciopero della fame tutti i detenuti presenti, circa 150, provenienti da vari paesi africani: 30 eritrei e poi etiopi, somali, maliani…”.
E’ una denuncia che va a ingrossare il già voluminoso dossier sulla situazione generale dei rifugiati in Libia e, in particolare, sulle condizioni di vita nelle carceri e nei centri di detenzione, che don Zerai ha consegnato all’inizio di novembre, nel corso di una audizione ufficiale a Bruxelles, alle commissioni europee per gli affari interni e per i diritti umani. Un dossier drammatico, che cita località, episodi, personaggi, testimoni pronti a confermare gli esposti che Habeshia ed altre istituzioni umanitarie stanno facendo da mesi, anni, senza trovare ascolto.
A fronte di un rapporto così circostanziato, le due commissioni europee hanno convenuto che va inserita tra i temi più urgenti una revisione della politica dell’accoglienza, per rendere meno chiusa la “fortezza Europa” in tutti gli stati che la compongono. E, in ogni caso, hanno riferito di non condividere gli accordi bilaterali stipulati da singoli governi europei con partner africani per il controllo dell’emigrazione. Un giudizio che, sia pure espresso in termini non espliciti, appare per molti versi un richiamo all’Italia per il trattato con la Libia.
Decisamente per la revoca di questo trattato è, fin dall’inizio, Amnesty International, la quale, rompendo lo strano “silenziamento” che lo circondava, ne ha scoperto e rivelato per prima i termini, del tutto simili a quelli fissati nell’accordo firmato in precedenza da Berlusconi e Gheddafi e che sono costati all’Italia una condanna ufficiale da parte della Corte europea per i diritti umani. La richiesta formale di annullamento è stata consegnata nei giorni scorsi al ministro dell’interno Anna Maria Cancellieri, con il sostegno di oltre 30 mila firme raccolte in tutta Europa con una petizione sovranazionale. “La nostra battaglia – ha dichiarato Giusy D’Alconzo, direttrice dell’ufficio ricerca di Amnesty – non si è fermata con la consegna di quell’appello forte di 30 mila firme. Continueremo a fare pressioni affinché gli accordi con Tripoli siano cancellati e non ne vengano sottoscritti di nuovi sino a quando in Libia non saranno garantiti i diritti umani di rifugiati, richiedenti asilo e migranti, adesso in forte pericolo”.
Don Zerai è sulla stessa lunghezza d’onda. “E’ assurdo – ha denunciato a Bruxelles alla baronessa Cecilia Malmstrom, commissario Ue per gli affari interni – che alcuni Stati membri dell’Unione, come l’Italia, sottoscrivano accordi con governi che non rispettano i diritti più elementari ed universalmente riconosciuti ad ogni uomo e, a maggior ragione, ai profughi e ai rifugiati, gli ultimi degli ultimi. La Libia, che non ha mai firmato la convenzione di Ginevra del 1951, non può fare il gendarme d’Europa, violando ogni legge e calpestando la dignità umana. Lo stesso vale per gli altri governi del Nord Africa”. Ora, sulla scia delle ultime drammatiche notizie giunte da Bengasi, torna a rivolgersi a Bruxelles: “L’Europa deve intervenire sul governo di Tripoli. Non è possibile assistere a tanta violenza e abusi, senza dire o fare nulla per impedirlo”.
All’indomani dell’audizione di un mese fa con don Zerai, le Commissioni europee hanno assicurato che, non appena il nuovo esecutivo libico avesse assunto i pieni poteri, avrebbero preso contatti ai massimi livelli per chiedere la garanzia del rispetto dei diritti di tutti gli stranieri presenti nel paese e piena libertà di accesso per i funzionari del Commissariato Onu, in modo da consentire verifiche e controlli costanti. Specie nelle carceri e nei centri di detenzione. Non è possibile attendere ancora. Ad ogni giorno, ad ogni ora che passa, l’Europa e l’Italia diventano sempre più complici delle violenze di questa autentica emergenza umanitaria.       

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