di Emilio Drudi
Don Mussie Zerai, il
presidente dell’agenzia Habeshia, lo denuncia da quasi due anni: i 22 centri di
detenzione libici, quelli che il governo italiano si ostina a considerare
centri di accoglienza, sono lager dove migliaia di profughi sub sahariani sono
tenuti prigionieri in condizioni inumane, lasciati in balia di militari
violenti che li maltrattano, puniscono a bastonate il minimo cenno di protesta,
negano ogni forma di assistenza, non di rado violentano le donne. “Ogni giorno
– racconta don Zerai – riceviamo notizie di questo genere e richieste di aiuto
disperate”. Rapporti analoghi sono arrivati a più riprese da Amnesty e da altre
organizzazioni internazionali. Nessuno, finora, ha chiesto spiegazioni e
richiamato alle sue responsabilità la Libia. Né qualcuno ha sollecitato il
governo rivoluzionario a firmare finalmente, dopo oltre sessant’anni, la
convenzione di Ginevra del 1951 sui diritti dei rifugiati. Non lo ha fatto,
finora, neanche l’Italia. Eppure il governo Monti in febbraio ha rinnovato con Tripoli
il trattato generale di amicizia e, due mesi dopo, il 4 aprile, ha ribadito
l’accordo per il controllo dell’emigrazione, delegato di fatto alla polizia
libica.
Ora arriva
l’ennesima conferma di come quei centri di detenzione sparsi in tutta la Libia
siano un’autentica emergenza umanitaria. Un’emergenza che, a quanto pare,
Palazzo Chigi continua a non voler vedere, ribadendo la scelta che l’ha portato
a sottoscrivere al buio i nuovi accordi, senza alcuna garanzia di tutela per
profughi e migranti. “Ieri mattina – rivela don Zerai – ci sono pervenute altre
informazioni terribili dal centro di detenzione di Kofia- Benghazi. Un gruppo di
profughi, fra cui una donna al quarto mese di gravidanza e suo marito, sono
stati prelevati dal centro gestito dalla Mezzaluna Rossa, a Bengasi, e portati
nel piccolo carcere di Ala Lamayr. Poco dopo, nove di loro, inclusa la donna
incinta, sono stati trasferiti nel carcere a Kofia-Benghazi, dove è iniziato un autentico
calvario: maltrattamenti e percosse crudeli senza alcun motivo. La donna è
stata colpita così duramente da provocarle un aborto. Ha perso molto sangue, ma
gli unici a cercare di prestarle soccorso sono stati i compagni. Le guardie
carcerarie non hanno mosso un dito per aiutarla. E non si tratta di un caso
isolato. Nel carcere di Ganfuda, a Bengasi, sono centinaia i profughi
abbandonati a se stessi. Hanno solo quello che indossano. Non una maglietta di
ricambio, pochissimo cibo, niente medicinali. E, per di più, tenuti in alcuni
stanzoni, al buio, per settimane. Vari testimoni hanno riferito che li fanno
uscire e viene prestata loro un minimo di attenzione soltanto quando arriva
qualche delegazioni in visita ufficiale. Poi la tortura ricomincia. Nel centro
di detenzione di Shurman ci sono giovani, uomini e donne, bisognosi di cure
mediche. Tre sono in gravi condizioni, ma non ricevo assistenza. Perché fosse
dato loro almeno un antidolorifico, hanno dovuto fare lo sciopero della fame
tutti i detenuti presenti, circa 150, provenienti da vari paesi africani: 30
eritrei e poi etiopi, somali, maliani…”.
E’ una denuncia che
va a ingrossare il già voluminoso dossier sulla situazione generale dei
rifugiati in Libia e, in particolare, sulle condizioni di vita nelle carceri e
nei centri di detenzione, che don Zerai ha consegnato all’inizio di novembre,
nel corso di una audizione ufficiale a Bruxelles, alle commissioni europee per
gli affari interni e per i diritti umani. Un dossier drammatico, che cita
località, episodi, personaggi, testimoni pronti a confermare gli esposti che
Habeshia ed altre istituzioni umanitarie stanno facendo da mesi, anni, senza
trovare ascolto.
A fronte di un
rapporto così circostanziato, le due commissioni europee hanno convenuto che va
inserita tra i temi più urgenti una revisione della politica dell’accoglienza,
per rendere meno chiusa la “fortezza Europa” in tutti gli stati che la
compongono. E, in ogni caso, hanno riferito di non condividere gli accordi
bilaterali stipulati da singoli governi europei con partner africani per il
controllo dell’emigrazione. Un giudizio che, sia pure espresso in termini non
espliciti, appare per molti versi un richiamo all’Italia per il trattato con la
Libia.
Decisamente per la
revoca di questo trattato è, fin dall’inizio, Amnesty International, la quale,
rompendo lo strano “silenziamento” che lo circondava, ne ha scoperto e rivelato
per prima i termini, del tutto simili a quelli fissati nell’accordo firmato in
precedenza da Berlusconi e Gheddafi e che sono costati all’Italia una condanna
ufficiale da parte della Corte europea per i diritti umani. La richiesta
formale di annullamento è stata consegnata nei giorni scorsi al ministro
dell’interno Anna Maria Cancellieri, con il sostegno di oltre 30 mila firme
raccolte in tutta Europa con una petizione sovranazionale. “La nostra battaglia
– ha dichiarato Giusy D’Alconzo, direttrice dell’ufficio ricerca di Amnesty –
non si è fermata con la consegna di quell’appello forte di 30 mila firme.
Continueremo a fare pressioni affinché gli accordi con Tripoli siano cancellati
e non ne vengano sottoscritti di nuovi sino a quando in Libia non saranno
garantiti i diritti umani di rifugiati, richiedenti asilo e migranti, adesso in
forte pericolo”.
Don Zerai è sulla
stessa lunghezza d’onda. “E’ assurdo – ha denunciato a Bruxelles alla baronessa
Cecilia Malmstrom, commissario Ue per gli affari interni – che alcuni Stati
membri dell’Unione, come l’Italia, sottoscrivano accordi con governi che non
rispettano i diritti più elementari ed universalmente riconosciuti ad ogni uomo
e, a maggior ragione, ai profughi e ai rifugiati, gli ultimi degli ultimi. La
Libia, che non ha mai firmato la convenzione di Ginevra del 1951, non può fare
il gendarme d’Europa, violando ogni legge e calpestando la dignità umana. Lo
stesso vale per gli altri governi del Nord Africa”. Ora, sulla scia delle
ultime drammatiche notizie giunte da Bengasi, torna a rivolgersi a Bruxelles:
“L’Europa deve intervenire sul governo di Tripoli. Non è possibile assistere a
tanta violenza e abusi, senza dire o fare nulla per impedirlo”.
All’indomani
dell’audizione di un mese fa con don Zerai, le Commissioni europee hanno
assicurato che, non appena il nuovo esecutivo libico avesse assunto i pieni
poteri, avrebbero preso contatti ai massimi livelli per chiedere la garanzia
del rispetto dei diritti di tutti gli stranieri presenti nel paese e piena
libertà di accesso per i funzionari del Commissariato Onu, in modo da
consentire verifiche e controlli costanti. Specie nelle carceri e nei centri di
detenzione. Non è possibile attendere ancora. Ad ogni giorno, ad ogni ora che
passa, l’Europa e l’Italia diventano sempre più complici delle violenze di
questa autentica emergenza umanitaria.
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