di Emilio Drudi
L’Herald Tribune ha
fatto esplodere il caso del palazzo dei disperati alla Romanina, l’edificio già
sede dell’università di Tor Vergata, lasciato in stato di abbandono e occupato
dal 2006 da centinaia di profughi politici: giovani, uomini e donne, scappati
in maggioranza dal Corno d’Africa, non di rado con i bambini, per sottrarsi a
guerre e persecuzioni e che vivono da “non persone”, in una specie di villaggio
fantasma, senza essere “visti” o ascoltati da nessuno. Eppure tutti sanno che
sono lì, in condizioni indegne. Lo sa il Comune di Roma, lo sanno la Provincia,
la Regione, la Prefettura, i carabinieri, la polizia e, quindi, il ministero
dell’interno e il governo. Ma nessuno ha mai mosso un dito, riducendo tutto a
una questione di ordine pubblico da seppellire sotto una spessa coltre di
indifferenza e silenzio e dimenticando i doveri che lo Stato si è assunto nel
momento stesso in cui ha accettato di accogliere quei disperati. Distratti e
muti anche i maggiori giornali italiani, tanto che il caso, dopo il clamore
iniziale seguito all’occupazione, sembrava chiuso. Anzi, inesistente. Non è
riuscito a scuotere la sensibilità delle istituzioni italiane e della stampa
nemmeno Nils Muiznieks, il commissario per i diritti umani del Consiglio
d’Europa, che all’inizio della scorsa estate ha inviato un rapporto di fuoco,
dopo aver constatato di persona come sono costretti a vivere quegli uomini e quelle
donne, abbandonati a se stessi dopo aver ottenuto lo status di rifugiati
politici e richiedenti asilo. Nulla. Ancora silenzio profondo. Fino a che è
arrivato il servizio pubblicato in prima pagina dall’Herald Tribune e lo
scandalo ha assunto dimensioni internazionali. Costringendo Palazzo Chigi a
dire qualcosa e, a cascata, tutte le altre istituzioni, fino al Campidoglio.
Il ministro degli
interni Anna Maria Cancellieri – la stessa che in nome del governo ha firmato
lo scorso aprile un nuovo accordo con Tripoli che, come quello sottoscritto in
precedenza da Berlusconi e Gheddafi, affida il controllo dell’emigrazione nel
Mediterraneo alla polizia e ai lager libici – ha finalmente scoperto il
problema della Romanina, che si trascina dal 2006, ed ha promesso interventi
d’emergenza, oltre che un futuro piano più vasto di “inclusione sociale”.
Sembra ripetersi la vicenda dei 63 profughi, quasi tutti eritrei e somali,
fuggiti dalla Libia tra la fine di marzo e l’inizio di aprile del 2011 e
abbandonati a morire di sete e di stenti su un gommone in avaria, alla deriva
per due settimane nel canale di Sicilia. Anche allora nessuno è intervenuto per
quindici, lunghissimi giorni, né ha trovato qualcosa da ridire. Niente dal
governo, niente dalla politica, niente dai media. Nonostante le denunce
dell’agenzia Habeshia e di altre organizzazioni umanitarie. Fino a che del caso
si è impossessato il Guardian di Londra, facendone uno scandalo internazionale
che è costato all’Italia una condanna ufficiale del Consiglio d’Europa. Subito
dopo la sentenza, il governo Monti si è impegnato a rispettarne le indicazioni,
promettendo una maggiore apertura nei confronti di rifugiati e migranti. Ma non
è cambiato pressoché nulla. Quasi contemporaneamente è stata aperta
un’inchiesta, da parte della Procura militare, ma senza disturbare i
“politici”: nel mirino ci sarebbero solo alcuni responsabili, a vario titolo,
della Guardia Costiera.
Né il caso della
Romanina è isolato. Semmai è il simbolo più noto di una situazione drammatica
tanto diffusa quanto sottaciuta. Nell’ex palazzo dell’università di Tor Vergata
sono in 800, ma altre centinaia di profughi vivono abbandonati da tutti anche
in un vecchio edificio occupato sulla via Collatina, a Roma. E, sempre a Roma,
almeno altrettanti sono costretti ad abitare in baraccopoli lungo il Tevere e
l’Aniene. La più grande è a Ponte Mammolo, un’autentica “discarica” di umanità
sconfitta. Per non dire dei tantissimi che avevano trovato rifugio nella villa
liberty sulla via Nomentana già sede del consolato di Somalia. Una “invasione”
che si è protratta per anni, in condizioni di assoluta indigenza e insicurezza,
in pratica senza servizi, con uno o due bagni al massimo, per tutti. Ma non se
ne è mai parlato fino a quando non si è verificato un drammatico fatto di
cronaca nera, lo stupro di una ragazza che aveva seguito un amico in quella
“casa di disperati”, diventata a poco a poco una bomba pronta ad esplodere.
Anche perché ai numerosi richiedenti asilo e rifugiati, che avevano promosso
inizialmente l’occupazione, si erano aggiunti personaggi di ogni genere.
E poi i Centri di
identificazione ed espulsione, i famigerati Cie, autentiche prigioni mascherate,
dove gli “ospiti” perdono in pratica ogni diritto. E dove, ai tempi del governo
Berlusconi, per volontà espressa del ministro degli interni leghista Roberto
Maroni, era proibito entrare a tutti: giornalisti, organizzazioni umanitarie,
medici e sanitari di associazioni di assistenza, amministratori locali. Ora il
divieto è caduto e sia pure con mille cautele e non poca difficoltà i Cie sono
“ispezionabili”. Ma la situazione interna non è cambiata granché. Non a caso vi
esplodono periodicamente rivolte furiose.
C’è da chiedersi,
dunque, quale immagine possa avere un paese che finge di accogliere migliaia di
rifugiati l’anno e poi se ne dimentica, trasformandoli in “non persone”. La
denuncia del Commissariato dell’Onu è eloquente. Nel 2011 le richieste di asilo
presentate in Italia sono state più di 35 mila e più di un terzo, il 35 per
cento, sono state accolte. Ma il Servizio nazionale di assistenza ha messo a
disposizione solo 3 mila posti. Ovvero, soltanto uno su quattro è stato davvero
“accolto”. Tutti gli altri, oltre novemila giovani, uomini e donne, sono stati
abbandonati a se stessi, condannati a diventare i “fantasmi” di uno dei tanti
villaggi della disperazione sorti nei palazzi di periferia abbandonati. E
allora ritorna la domanda. Quale credibilità internazionale può pretendere
l’Italia. E che tipo di paese è mai questo, che si esalta per lo spettacolo in
televisione sulla “Costituzione più bella del mondo” spiegata da Roberto Benigni,
ma si ostina a non applicarla. Tanto da dimenticarne uno dei passi più
significativi e avanzati, il comma tre dell’articolo 10, che dice: “Lo
straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle
libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo
nel territorio della Repubblica”.
Diritto d’asilo. Non
l’elemosina pelosa di un rifugio clandestino in una baracca o in un edificio
cadente e la condanna a una vita da reietti. “Invisibili”.
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