di Emilio Drudi
La polizia libica
non ha esitato a sparare contro la piccola colonna di jeep, furgoni fuoristrada
e un camion carichi di profughi che non si era fermata all'alt. Raffiche di
mitra e di fucile automatico. E’ stata una strage: 8 morti e almeno 20 feriti,
alcuni molto gravi. I superstiti, inclusi i feriti più lievi, sono stati
arrestati e gettati in un campo di reclusione. La fine del sogno di libertà per
decine di giovani costretti a fuggire da guerra e persecuzioni, con la speranza
di trovare aiuto e rifugio in Europa.
Si tratta di uno dei
capitoli più gravi della tragedia dei richiedenti asilo che si consuma da anni
sulle piste che arrivano in Libia, attraverso il deserto, dal Sudan o
dall'estremo sud dell’Egitto. Ne ha dato notizia don Mussie Zerai, portavoce
dell’agenzia Habeshia, il quale, raggiunto da una telefonata “rubata” di uno
dei sopravvissuti, ha dato l’allarme al
Commissariato Onu per i rifugiati. E arriva a poco più di un mese dall'incontro
in cui, il 4 luglio scorso a Roma, il presidente del Consiglio Enrico Letta e
il premier libico Ali Zeidan Mohammed hanno gettato le basi per rinnovare
l’accordo bilaterale che assegna a Tripoli il ruolo di “gendarme” contro i
migranti, spostando la barriera ancora più a sud, dalle sponde africane del
Mediterraneo al confine sahariano della Libia. Ali Zeidan è stato esplicito.
“In Libia – ha specificato ai giornali italiani – faremo tutti gli sforzi per
arginare il fenomeno dell’emigrazione clandestina. Abbiamo concordato che
questa operazione comprenda il rafforzamento dei confini meridionali, oltre che
mediterranei, con le infrastrutture necessarie”.
Non sembrano esserci
dubbi che la strage sia maturata in questo contesto. E’ accaduto a Liwal Ijra
Al Ajani, una località a sud dell’oasi e del villaggio di Kufra. L’autocolonna
dei profughi aveva superato la frontiera ormai da molti chilometri. Erano
tanti, in maggioranza eritrei e somali. Una decina di donne, due bambini, oltre
130 uomini, stipati su quei pick-up e sul pianale di carico del camion. Lungo
la pista sono incappati in un posto di controllo dell’esercito. Un momento di
esitazione e poi ha avuto il sopravvento la paura di essere bloccati e
rispediti indietro. Così, anziché fermarsi, gli autisti hanno proseguito la
corsa. Immediata la reazione dei militari e dei miliziani. Poche raffiche ben
mirate e la fuga è finita. L’autocarro, colpito in pieno, ha sbandato
paurosamente e si è rovesciato. Per i disperati che erano sul “cassone” non c’è
stato scampo: non hanno neanche avuto il tempo di saltare fuori. E’ tra questi
che si conta il maggior numero di vittime. Alla fine sono state recuperate otto
salme e più di una ventina di feriti. Alcuni raggiunti dai proiettili, altri
schiacciatati sotto la carcassa dell’automezzo.
I più gravi sono
stati trasferiti all’ospedale di Kufra. Gli altri sono stati uniti ai
superstiti e avviati al vicino centro di detenzione, uno dei più duri di tutta
la Libia. Attivo dal 2009, questo campo ospita mediamente da 600 a 700
prigionieri. Formalmente dipende dal ministero dell’interno, ma le milizie
armate rivoluzionarie vi spadroneggiano indisturbate. Nei mesi della rivolta
contro Gheddafi, ad esempio, hanno costretto molti dei detenuti a lavorare per
loro, scaricando e trasportando armi e munizioni anche nel pieno dei
combattimenti. Le donne, di cui una in stato di gravidanza avanzata, sono state
separate dai loro compagni: le hanno portate insieme ai bambini in un
accampamento di tende. In balia della polizia. La segnalazione giunta a don
Zerai è terribile: “In quel riparo precario donne e bambini sono esposti a
tutte le sofferenze di un clima inclemente come quello del deserto, con cibo
scarso e poca acqua anche per bere. E questo è ancora il meno. Mi hanno
raccontato che ci sono stati anche abusi sessuali e comunque le ragazze sono
sottoposte a continue molestie da parte dei militari. Ancora una volta sono le
donne a pagare il prezzo più alto di questa persecuzione”.
Continui maltrattamenti,
pestaggi, soprusi subiscono anche gli uomini nel campo di Kufra. “Alcune donne
– racconta don Zerai – mi hanno riferito che i loro compagni sono stati portati
via dal centro di detenzione. I miliziani hanno detto che dovevano fare alcuni
lavori e poi sarebbero rientrati. Chi ha cercato di opporsi è stato picchiato a
sangue. In realtà non c’erano lavori da fare. Una volta separati dagli altri
prigionieri, sono stati segregati, minacciati, privati di ogni diritto e di
ogni possibilità di comunicare con l’esterno se non sotto il controllo degli
aguzzini. Un vero e proprio sequestro, con la richiesta di un riscatto di 3
mila dollari a testa per essere rilasciati. Non liberati, però: solo ricondotti
al centro di detenzione. Tre di loro sono riusciti a scappare. Non sapevano
dove andare e, avendo magari la compagna detenuta a Kufra, anziché allontanarsi
e puntare verso la costa, sono tornati al campo, dove hanno denunciato il
sequestro e gli abusi patiti. Ma i militari di guardia, anziché aiutarli, li hanno
pestati selvaggiamente. Di fatto, li hanno ‘puniti’ per essersi ribellati ai
soprusi. Colpiti sino a sfinirli, ora sono tutti in gravi condizioni”.
Tutte queste vicende
sono state riassunte in un esposto inviato a Riccardo Clerici, rappresentante
del Commissariato Onu per i rifugiati. La speranza è che le Nazioni Unite
aprano un’inchiesta su quanto è accaduto e, intanto, pretendano un trattamento
umano, il rispetto dei diritti più elementari, per quei disperati presi
prigionieri al posto di blocco. Ma anche il governo italiano è coinvolto
direttamente. Se non altro per il nuovo accordo bilaterale con Tripoli
impostato il 4 luglio, il terzo della serie dopo quello firmato da Berlusconi e
Gheddafi nel 2009 e quello successivo siglato da Monti e dall’allora ministro
dell’interno Anna Maria Cancellieri, attuale ministro della giustizia, nel
2011, nonostante la condanna sancita poche settimane prima contro l’Italia, da
parte della Corte europea sui diritti umani, per la politica dei respingimenti
indiscriminati in mare. Ora, anzi, la complicità di fatto del governo italiano
con questi soprusi appare ancora più palese perché sono ormai una catena
infinita gli episodi che evidenziano come la Libia, che non ha mai firmato la
convenzione di Ginevra del 1951 sui diritti dei rifugiati, interpreti il suo
ruolo di “gendarme” contro profughi e migranti.
“Rispetto al passato
– protestano l’agenzia Habeshia, Amnesty International e diverse altre
organizzazioni umanitarie – il nuovo accordo prevede di spingere i ‘confini’
dell’Europa addirittura oltre le sponde libiche del Mediterraneo, in pieno
deserto del Sahara”. “Sempre più a sud – insiste don Zerai – perché gli abusi
evidenti che comporta fatalmente una intesa di questo genere, si svolgano in
segreto, senza testimoni e il più lontano possibile. Questa stessa strage di Kufra
non sarebbe mai stata conosciuta senza la segnalazione che uno dei
sopravvissuti è riuscito fortunosamente a far pervenire ad Habeshia. Non credo
che l’Europa e l’Italia possano accettare tutto questo”.
E’ un monito che
smentisce il buonismo ostentato di recente dal governo italiano per la vicenda
della nave, con equipaggio greco ma bandiera liberiana, che ha portato un
gruppo di oltre cento profughi a Malta, dopo averli soccorsi in mare su un
gommone alla deriva, su segnalazione di una motovedetta italiana. Malta, come è
noto, non ha consentito lo sbarco, chiedendo al comandante di riportarli in
Libia, come gli aveva ordinato un dispaccio della Guardia Costiera siciliana.
Il capitano si è rifiutato, ricordando che, secondo le norme internazionali,
quei disperati dovevano essere accompagnati verso il più vicino “porto sicuro”
mentre la Libia era, per tutti loro, tutt’altro che sicura. Così, dopo una
sosta in rada di diversi giorni, quando il caso stava per esplodere a livello europeo,
Letta ha acconsentito ad accogliere in Italia quei profughi. Tutti hanno
esaltato lo “spirito umanitario” di questa decisione. In realtà l’Italia non
poteva fare diversamente: aveva l’obbligo di far sbarcare in un nostro porto
quei giovani, quasi tutti richiedenti asilo, proprio in base alle convenzioni
che ha sottoscritto di fronte all’Onu e all’Europa. Ma ha avuto ancora una volta
il sopravvento il mito degli “italiani brava gente”, rilanciato peraltro da gran
parte della stampa nazionale. La realtà vera, invece, è rappresentata
dall’accordo bilaterale Italia-Libia. Che continua a produrre vittime e
soprusi. L’ultimo, dolorosissimo caso è, appunto, la strage di Kufra.
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