di Emilio Drudi
Non è isolata la
vicenda della nave greco-liberiana che, all’inizio di agosto, ha fatto rotta su
Malta, disobbedendo all’ordine, impartito dalla Guardia Costiera siciliana, di
riportare in Libia i circa cento profughi soccorsi in mare che aveva a bordo.
Un episodio analogo sarebbe accaduto qualche giorno prima con una nave turca.
Solo che, in questo caso, il comandante pare abbia applicato alla lettera le
disposizioni ricevute da una unità militare italiana, riconsegnando a Tripoli i
disperati raccolti in acque internazionali. Lo ha denunciato don Mussie Zerai,
portavoce dell’agenzia Habeshia, all’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati,
sollecitando un’inchiesta. Alla segnalazione sono allegate alcune testimonianze
registrate, le indicazioni dei centri di detenzione dove sono stati rinchiusi
tutti i prigionieri appena sbarcati e persino due recapiti telefonici per
contattare i giovani che hanno trovato il coraggio di raccontare e sono
disposti ora a ribadire di fronte ai commissari delle Nazioni Unite quanto
hanno riferito.
Se, come tutto
sembra lasciar credere, la ricostruzione fatta nella denuncia troverà
riscontro, sarà la conferma che, di fatto, l’Italia sta adottando in segreto
una durissima politica di respingimenti indiscriminati in mare nei confronti
dei migranti, senza curarsi minimamente di verificare se quei disperati hanno i
requisiti per essere accolti come rifugiati e perseguitati per ragioni
politiche o religiose. Anzi, c’è da sospettare che, peggio ancora, questa
scelta tenda proprio ad impedire ogni tipo di verifica, visto che mediamente
oltre il 90 per cento degli uomini e delle donne che rischiano la vita sfidando
la traversata del Mediterraneo su vecchie carrette, hanno il diritto di venire
aiutati e accettati, in base alle convenzioni internazionali sui profughi e
alla nostra stessa Costituzione.
Il primo episodio
risale al 6 agosto. E’ venuto alla luce perché le autorità maltesi hanno
impedito al capitano della nave greco-liberiana di sbarcare i naufraghi di un
gommone alla deriva che aveva soccorso. I giornali italiani si sono coperti di
titoli indignati: “Malta respinge i migranti in mare”. Sottolineando che a
Lampedusa, invece, c’era un flusso continuo di soccorsi e di sbarchi. Poi è
emerso, però, che a quella nave l’Italia aveva imposto di far rotta verso la
Libia. E’ arrivata a La Valletta solo perché il capitano si è rifiutato di
eseguire la disposizione ricevuta, facendo notare che le norme internazionali dispongono
di condurre i naufraghi verso il porto “sicuro” più vicino sicché, trattandosi
di profughi fuggiti dalla Libia, nessun porto libico poteva considerarsi
davvero sicuro. Mentre le autorità maltesi, esibendo il cablo inviato dalla
Guardia Costiera siciliana, hanno potuto eccepire che, essendo l’Italia il
primo paese ad aver ricevuto la richiesta di aiuto, spettava a Roma farsi
carico del problema: o accogliendo i profughi in uno dei suoi porti, oppure
confermando l’ordine già dato di riportarli in Africa.
Si è creata una
situazione di stallo di due o tre giorni, con la nave ferma in rada, finché il
premier Enrico Letta ha dato il via libera allo sbarco in Sicilia dell’intero
gruppo di naufraghi, come richiedenti asilo. Il tutto in un clima di buonismo
ed esaltazione dello “spirito umanitario italiano” contrapposto alla fredda,
burocratica applicazione letterale delle norme adottata da Malta. Dimenticando
che accogliere quella gente era un dovere preciso del nostro governo e, oltre
tutto, che dall’inizio del 2013 alla prima metà di agosto, in tema di
accoglienza dei profughi, Malta ha fatto in proporzione molto più dell’Italia. In
poco più di sette mesi, sono sbarcati sull’isola oltre 1.200 migranti. In
Italia 12 mila circa. Apparentemente, da parte italiana, uno sforzo dieci volte
maggiore. In realtà è esattamente il contrario. Malta è una piccola isola con
appena 512 mila abitanti. Se si tiene conto del rapporto tra la popolazione e
per certi versi, di conseguenza, la “capacità di assorbimento, è come se
l’Italia, infinitamente più grande e con 60 milioni di abitanti, avesse accolto
nello stesso periodo 140 mila rifugiati. Non sembra esserci nulla di cui
vantarsi, insomma, per il nulla osta dato da Letta alla nave greco-liberiana.
Per di più ora sta emergendo il caso della nave turca denunciato da don Zerai
alle Nazioni Unite. Sarebbe accaduto verso la fine di luglio.
Questi i fatti,
secondo la testimonianza di alcuni dei migranti. Partiti dalle spiagge libiche
su un barcone, erano più di cento. Il solito, doloroso carico di umanità in
fuga, stipata su una carretta che teneva a stento il mare: uomini, parecchie
donne, qualche bambino. Il motore ha piantato la barca in piena traversata.
Mentre andavano alla deriva, la prima a intercettarli e a soccorrerli è stata
una unità italiana. “Era una nave militare, una grande nave, sicuramente
italiana – ha raccontato Samuel, uno dei testimoni, a don Zerai – Ha calato in
mare una scialuppa sulla quale sono saliti tre uomini, che ci hanno raggiunto.
Quando sono stati vicini, ci hanno lanciato delle cime, rimorchiandoci fino
alla nave, alla quale è stata assicurata la nostra imbarcazione, ormai
ingovernabile. Ci sono stati dati acqua e cibo, ma non ci hanno consentito di
salire a bordo. Siamo rimasi lì per un po’, fermi in mezzo al Mediterraneo,
finché è arrivata un’altra nave. Una nave commerciale turca. Non so se sia
giunta per caso o se, come è forse più probabile, sia stata chiamata dal
comandante italiano. Sta di fatto che ci hanno consegnato all’equipaggio di
quella nave. Noi siamo saliti in coperta senza timore. Pensavamo che fosse la
salvezza. Tutti ci assicuravano che saremmo stati accompagnati in Italia, così
nessuno ha fatto resistenza. Anzi, eravamo felici, convinti di avercela fatta.
Poi le due navi si sono separate, prendendo rotte diverse. Ci siamo resi conto
di essere stati ingannati solo quando si è profilata la costa africana. A quel
punto non c’era scampo. Ci hanno consegnato alla polizia libica: siamo stati
arrestati e accompagnati in un centro di detenzione. Soltanto uno di noi ha
tentato di sottrarsi alla cattura. E’ riuscito in qualche modo a restare a
bordo, nascondendosi in un anfratto. Poi, quando il cargo è ripartito,
lasciando le acque libiche, ha sperato di essere sbarcato da qualche parte in
Europa. Appena lo hanno scoperto, invece, è stato bloccato e trattenuto fino a
che è arrivato un elicottero per condurlo a Tripoli”.
Samuel ha raccontato
tutto questo a don Zerai per telefono, eludendo la sorveglianza dei militari
libici. Ha fatto anche il “censimento” preciso del gruppo: 102 persone, in
massima parte eritrei come lui. Le donne, in tutto 17, di cui alcune in stato
di gravidanza e altre con bambini piccoli, sono state rinchiuse nel campo di
Garabuli, a circa 30 minuti di strada da Tripoli. Gli uomini, un’ottantina
circa, in un centro di detenzione più distante, ma sempre nella zona di
Tripoli. Il resoconto di Samuel è stato sostanzialmente confermato da un paio
delle ragazze, con in più vari particolari su Garabuli. Le condizioni di vita
in questo campo sono molto dure. Attivo dal 2009 e amministrato dal ministero
dell’interno, ospita attualmente 120 donne e 25 bambini. Non ha quasi nulla del
centro di detenzione quanto a servizi, strutture, assistenza, trattamento.
“Buona parte delle prigioniere – denuncia don Zerai – sono costrette a dormire
all’aperto, perché nelle tende e negli alloggiamenti non c’è posto. Il cibo è
quello che è, scarso e di cattiva qualità. Poca anche l’acqua. Molte donne e
molti bambini stanno male, ma non c’è chi si prenda cura di loro: possono
contare quasi solo sull’aiuto delle compagne. Soprusi e maltrattamenti non
mancano mai”.
Tutta la vicenda,
dalla consegna alla nave turca alla detenzione nei campi di Tripoli, è stata
segnalata da Habeshia a Riccardo UNHCR. L’esposto è preciso e dettagliato.
Vengono indicati anche i numeri di
telefono di Samuel e delle detenute di Garabuli che si sono dette pronte
a ripetere la loro testimonianza in qualsiasi sede, sia politica e istituzionale,
sia giudiziaria. E’ a disposizione dei commissari delle Nazioni Unite, inoltre,
la registrazione della drammatica intervista in lingua Tigrigna fatta da don
Zerai a Samuel, che nel frattempo, malato e gravemente indebolito, ha lasciato
il campo di prigionia ed ha raggiunto Tripoli, ma ha bisogno di assistenza e
cure mediche.
“Chiedo con forza ai
rappresentanti dell’Onu presenti a Tripoli di ascoltare le testimonianze di
Samuel e delle donne – insiste don Zerai – Bisogna chiarire questa vicenda
assurda. Capire se si tratti di un respingimento di fatto in mare. Se tutto si
è svolto come mi hanno raccontato, l’Italia si è assunta una gravissima
responsabilità e penso ne debba rispondere. C’è da credere che si stia
adottando in segreto una vera e propria ‘politica del rifiuto’. Ignorando che
le persone respinte sono condannate a vivere in una condizione di gravissimo
disagio che ne offende la dignità umana. Se non peggio. Hanno subito e
subiscono maltrattamenti fisici e morali dal momento stesso in cui sono state
riportate in Libia. E sono soggette a continui ricatti. Mi dicono, ad esempio,
che ci sarebbe un vero e proprio ‘mercato dei rilasci’: chi ha potuto uscire
dal campo di detenzione avrebbe pagato fino a mille dollari per essere lasciato
andare. Anche su questo aspetto occorre indagare”.
Habeshia non lo dice, ma all'inchiesta dei
commissari Onu che ha sollecitato andrebbe affiancata quanto meno una
commissione di indagine parlamentare italiana. Se non altro perché, nonostante
l’Italia abbia già subito due condanne per la politica dei respingimenti, una
da parte della Commissione europea per i diritti umani e l’altra
dell’Europarlamento, il governo Letta il 4 luglio scorso ha gettato le basi per
un nuovo accordo bilaterale, che conferma alla Libia il compito di “gendarme
del Mediterraneo” contro i migranti, in termini, a quanto pare, ancora più
restrittivi, prevedendo di rinforzare la vigilanza oltre che sulle coste e nel
Canale di Sicilia, pure sul confine meridionale, in pieno Sahara, sicché ai
respingimenti in mare rischiano di aggiungersi i respingimenti nel deserto. Lo
testimonia la recente strage di Kufra. E c’è da chiedersi, ancora, se tutto
questo non configuri anche dei reati perseguibili dalla magistratura, oltre che
una palese violazione dei diritti umani.
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