di Emilio Drudi
E’ fuggito
dall'Eritrea per sottrarsi alle persecuzioni della dittatura militare di Isaias
Afewerki. Ci ha messo mesi, quasi un anno, per arrivare in Italia: un’odissea
attraverso l’Etiopia, il Sudan, la Libia, il Mediterraneo, fino a Lampedusa.
Sempre col rischio di essere bloccato, imprigionato, ricattato, venduto ai
trafficanti di uomini. Da qualche settimana è ospite del centro di prima
accoglienza di Pozzallo, nella Sicilia sud orientale. In attesa che la sua
richiesta di asilo venga esaminata. Ma la sofferenza non è finita. Il campo, attrezzato per 130 profughi, ne ospita
in realtà più di 400. La maggior parte dormono su vecchi materassi gettati per
terra in un capannone. Non c’è una mensa attrezzata: si mangia dove capita,
accovacciati su se stessi. I servizi igienici sono quelli che sono.
L’assistenza sanitaria è affidata a un solo medico. Insufficienti gli
interpreti e i mediatori culturali. Lui si chiama Mohammed, ma nessuno lo
conosce per nome. Nel campo il nome non conta. Conta solo la sigla incisa sul braccialetto di
plastica che ogni ospite è costretto a portare per entrare e uscire, per il
cibo, per usufruire dei servizi. Così ora Mohammed è diventato “K68”.
La sua storia è
stata raccontata da Flore Murard Yovanovitch in un servizio sul campo di
Pozzallo pubblicato dall'Unità. Sono storie come questa che hanno indotto papa
Francesco a rilanciare il problema della politica di accoglienza nei confronti
dei profughi. Lo aveva già sollevato all’inizio di luglio, con il viaggio a
Lampedusa, non a caso il primo del suo pontificato. In quella piccola isola
sperduta nel Mediterraneo, la porta d’Europa per chi fugge dall'Africa, il
pontefice ha voluto dare consistenza alla esortazione ad “andare verso le
periferie” fatta al momento del suo insediamento, sollecitando l’Italia,
l’Unione Europea, tutto il Nord del mondo ad assumere un atteggiamento più aperto
verso i rifugiati e, ancora di più, a cambiare la propria politica nel Sud del
mondo, mettendo fine alle ingerenze e allo sfruttamento sotterraneo che sono
quasi sempre alla base di quelle situazioni drammatiche che costringono
migliaia di giovani ad abbandonare il proprio paese. Ora, a poco più di due
mesi di distanza, ha riproposto il problema visitando, nel cuore di a Roma, il
centro di assistenza Astalli, al quale fanno capo ogni giorno centinaia di
profughi, in prevalenza africani.
Il messaggio è stato
esplicito: occorre cambiare il modo stesso di accogliere e aiutare questa
gente. In questa sua battaglia, papa Francesco non ha esitato a chiamare in
causa la stessa Chiesa, sottolineando che non ha senso tenere conventi e case
religiose chiusi o semivuoti o, peggio, imbastirci una speculazione: vanno
riempiti di disperati che non sanno come e dove vivere nell'attesa di riuscire
ad integrarsi nel paese che li ha accolti. E’stato un monito forte nella
sostanza e nella forma: “I conventi vuoti – queste le parole esatte – non
servono ad aprire alberghi e fare soldi. Sono per la carne di Cristo, sono per i
profughi”. Il centro Astalli è una delle strutture di assistenza più efficienti
e dignitose. Ma in Italia, a Roma in particolare, la situazione è drammatica. Con
casi che hanno richiamato spesso l’attenzione anche della stampa
internazionale, oltre che della Commissione europea per i diritti umani: il
campo spontaneo di baracche a Ponte Mammolo, sull'argine dell’Aniene, ad
esempio, o l’enorme palazzo abbandonato alla Romanina, diventato l’alloggio di
fortuna per migliaia di rifugiati, un ghetto di “non persone”.
Due i problemi che
emergono. Il primo è la riorganizzazione di tutta la rete di assistenza più
immediata, specie nelle situazioni di emergenza come quella che si sta
profilando con la guerra in Siria e le tensioni crescenti in tutto il Corno
d’Africa e nell’Africa sub sahariana. L’altro è la necessità di cambiare
radicalmente la politica di accoglienza in Italia. Ha colto subito questo
aspetto don Mussie Zerai, portavoce dell’agenzia Habeshia. “Oggi in Italia – ha
dichiarato – il 90 per cento dei richiedenti asilo e rifugiati sono costretti a
vivere in uno stato di indigenza totale. Spesso in un degrado offensivo della
loro dignità umana. Le visite di papa Francesco prima a Lampedusa e poi nel
centro Astalli richiamano tutti alla necessità di fare il proprio dovere. In
primis lo Stato italiano, che deve garantire un’accoglienza dignitosa. Il
centro Astalli è un luogo dove si fa ‘elemosina’: persone abbandonate dalle
istituzioni italiane vanno lì per chiedere da mangiare. Non hanno altre
alternative. Visitandolo, il pontefice ha sottolineato che non bisogna
limitarsi a questo. L’elemosina non basta e non risolve i problemi. Il centro
Astalli, in realtà, fa molto di più, ma quello che fanno questi enti di beneficenza
è una supplenza a uno Stato latitante da anni. Uno Stato che non fa quello che
gli spetta, mostra inefficienza anche nel poco che fa, non sa gestire i fondi
disponibili”.
Dall'Europa, in
effetti, arrivano contributi cospicui per l’accoglienza dei profughi. Secondo
fonti del ministero degli interni, tra il 2010 e il 2012 sono stati assegnati
all'Italia oltre 22 milioni di euro per la gestione “ordinaria” del problema e,
nel solo biennio 2011-2012, altri 16 milioni per far fronte all'emergenza
legata alle crisi esplose in Africa: rivolte arabe, guerra in Libia, secessione
tuareg e colpo di stato in Mali, ecc. In tutto, dunque, quasi 40 milioni. “Il
fatto è – contesta don Zerai – che, a fronte di queste risorse, manca in realtà
una strategia di lungo termine. E’ certamente un bene aprire i conventi vuoti
ai profughi come ha chiesto il santo padre. Ma resta pur sempre un gesto di
‘elemosina’, che può servire al massimo per far fronte a un’emergenza. L’accoglienza
è un’altra cosa. Quello che serve davvero in Italia sono la volontà e la
capacità di uscire dalla mentalità di gestione emergenziale dell’accoglienza,
che va avanti ormai da almeno 30 anni. L’Italia deve assumersi le sue
responsabilità, come fanno altri Stati europei, usando i fondi disponibili in
modo rigoroso e rispettoso della dignità e dei bisogni delle persone. In nessun
paese del Nord Europa, ad esempio, si vedono le file di gente in attesa di un
piatto di pasta che il pontefice ha visto visitando il centro Astalli. La
dignità di questi uomini e queste donne è violata. Uno Stato che rispetta le
persone non le abbandona al punto di costringerle a mettersi in fila per un
piatto di pasta. Ecco perché papa Francesco ha detto che non basta dare il
panino: occorre varare progetti di inclusione sociale, culturale, economica
delle persone accolte. Fare in modo, cioè, che i rifugiati possano al più
presto possibile camminare con le proprie gambe e costruirsi un nuovo domani”.
C’è da chiedersi
come siano stati impiegati finora in Italia i fondi europei. La sensazione
diffusa è che questi finanziamenti siano serviti più alle organizzazioni di
assistenza che ai migranti. Talvolta con autentici scandali, seguiti da inchieste
della magistratura sulle presunte cooperative alle quali erano stati affidati
dalle istituzioni centinaia di richiedenti asilo. Don Zerai non usa mezze
parole: “Lo Stato italiano non può continuare a distribuire a pioggia, spesso
con criteri clientelari o comunque poco chiari, i fondi per l’accoglienza,
ignorando i bisogni reali dei rifugiati e magari criminalizzando i disperati
che arrivano in cerca di aiuto e le persone che si battono per aiutarli con un
sistema diverso, fuori dal controllo di certi circuiti e dagli agganci con
certi poteri”.
E’ convinto della
necessità di cambiare l’intero sistema dell’accoglienza e di far luce sulla
situazione attuale dei profughi, almeno nel Lazio, pure il consigliere
regionale del Pd Enrico Forte, eletto nella circoscrizione di Latina, da sempre
terra di migranti. Anche alla luce delle ripetute denunce di don Zerai e, ora, degli
appelli del pontefice, Forte ha sollevato come primo punto la necessità di fare
al più presto un censimento delle strutture e delle organizzazioni che si
occupano del problema a Roma come nelle altre province. Ha proposto, inoltre,
di effettuare una serie di ispezioni consiliari in tutte le realtà che ospitano
i profughi: quelle ufficiali, come i centri di assistenza per i richiedenti asilo,
ma anche quelle “spontanee”. Anzi, in particolare in quelle “spontanee”,
proprio perché nella maggioranza dei casi i profughi, dopo aver ottenuto lo
status di rifugiato, sono abbandonati a se stessi: senza alloggio, senza
possibilità di lavoro, senza alcun tipo di assistenza, di fatto senza diritti,
sono condannati a diventare gli “invisibili” che popolano le baraccopoli come
quella di Ponte Mammolo o i “formicai” come il palazzo della Romanina. “La mia
proposta – afferma Forte – sarà presentata al più presto sia alla Giunta che al
Consiglio. Direi di partire dal censimento delle strutture ufficiali e
dall'ispezione nei campi spontanei per avere un quadro esatto della situazione
reale nel Lazio. Su questa base credo che vada poi impostata una nuova strategia.
Sono convinto che vadano radicalmente cambiati sia i criteri per gestire
l’emergenza sia, soprattutto, la politica generale dell’accoglienza. Ha ragione
don Zerai. L’Italia deve porsi come modello quanto già è stato realizzato
nell'Europa del nord o in Svizzera. In queste realtà lo Stato o comunque le
istituzioni pubbliche promuovono una politica di inserimento aiutando i
rifugiati a trovare casa, lavoro, assistenza, scuole e percorsi didattici. Poi,
iniziato il processo di integrazione, quando l’assistito comincia ad avere un
proprio reddito, è tenuto a restituire gradualmente almeno una parte delle
spese sostenute a suo favore. Il denaro così recuperato viene ovviamente
reinvestito per aiutare altri rifugiati. Si crea in tal modo un circuito
virtuoso che quasi si autofinanzia. Questa è la strada da seguire”.
Se la proposta verrà
accolta, le ispezioni negli insediamenti spontanei dovrebbero iniziare già
nella prima metà del prossimo mese di ottobre.
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